Agribusinnes vs Agroecologia: ad affrontarsi non sono solo due modelli di sviluppo ma due modelli culturali.
Secondo il sociologo Philip McMichael, nell’era del capitalismo industriale i regimi alimentari (food regimes) si sono costituiti attraverso tre fasi (di ordinamento geopolitico della produzione e della circolazione del cibo a livello internazionale regolate da prezzi mondiali) che hanno determinato la dipendenza del capitale da alimenti a basso costo, per comprimere i salari e aprire nuovi mercati.
Nella prima fase, il regime alimentare imperiale centrato sull’Inghilterra (1870-1930) ha combinato le tradizionali importazioni tropicali coloniali con i cereali di base e le proteine animali importate dalle nuove colonie di frontiera, per fondare la «fabbrica del mondo» della Gran Bretagna.
Nella seconda, il regime industriale centrato sugli Stati Uniti (1945-1979) ha venduto, attraverso un programma di aiuti pubblici, le eccedenze alimentari come cibo per le classi salariate (wage-foods) a prezzi agevolati per sostenere, durante la guerra fredda, l’industrializzazione a livello nazionale in Paesi strategici del "Terzo mondo", insieme alle tecnologie della Rivoluzione Verde per produrre cibo a livelli salariali per le popolazioni urbane.
Infine, la fase del regime alimentare delle corporation (1979-oggi) ha avuto inizio con le Politiche di Aggiustamento Strutturale imposte dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale a partire dagli anni Ottanta.
Queste politiche hanno preteso, dagli Stati indebitati del Sud del mondo, lo smantellamento delle protezioni del settore agricolo, al fine di espandere le esportazioni e ripagare il debito.
Le sovvenzioni (nascoste) di Usa e Ue per i propri produttori industriali di cibo, hanno ridotto artificialmente i prezzi dei cereali riversati nei mercati mondiali, a scapito dei contadini del Sud ormai in gran parte privi di protezione.
Così, un'ampia divisione internazionale del lavoro agricolo ha accresciuto la "dipendenza alimentare periferica" del Sud globale.[1]
Oggi, solo sei imprese transnazionali controllano tutti i transgenici seminati in commercio nel mondo; le stesse sei imprese sono le più grandi produttrici mondiali di prodotti agrochimici.
Larga parte (85%) degli OGM è progettata per resistere a grandi dosi di pesticidi: è proprio quest'ultima categoria, infatti, a garantire i profitti più elevati.
Mentre una vasta gamma di sistemi alimentari contadini e di piccola scala alimenta attualmente il 70% della popolazione mondiale attraverso una produzione di cibo sano, libero da pesticidi e OGM, il sistema alimentare agroindustriale fornisce solo il 30% del cibo, utilizzando però l'80% della terra arabile e il 70% di acqua e carburante per l'uso agricolo.
Dal raccolto al consumo, il 50% degli alimenti della catena alimentare industriale finisce tra i rifiuti.
Secondo Vandana Shiva, per alimentare il mondo non servono colture uniformi ad alta tecnologia e ad alto rischio (in sistemi industriali), bensì "una varietà di semi nelle mani di milioni di contadini e di piccoli e medi produttori".[2]
Ovunque, le corporation sostituiscono colture agricole stabili con una «agricoltura senza agricoltori», causando tre specifici effetti: l’espulsione dei contadini; l’aumento dell’insicurezza alimentare (che espande anche i circuiti del lavoro migrante); il progressivo degrado degli ecosistemi.
Secondo il Movimento contadino transnazionale Via Campesina: "tutto ciò che le politiche commerciali neoliberiste, oggi dominanti nell'economia globale hanno ottenuto (puntando su tariffe di importazione più basse, sul ritiro dei sussidi nazionali e sull'abolizione delle scorte pubbliche per scopi di sicurezza alimentare), è stato prosperità per pochi e povertà per molti."[3]
Ormai da decenni, dall'Indonesia al Congo, i governi cedono alle grandi imprese straniere dell'agribusiness le terre più fertili, affinché siano convertite in monocolture per l'esportazione verso l'Europa.
La terra è divenuta, nel linguaggio dei nuovi investitori, un asset per differenziare il portafoglio di investimenti e garantire agli investitori lauti profitti.
Subito dopo il crollo di Wall Street (dall'estate 2007) diversi attori del settore finanziario si sono messi in cerca di nuove opportunità di guadagno, iniziando a investire nelle cosiddette "commodity", cereali compresi.
Corollario delle speculazioni sui beni alimentari di base (che garantiscono utili solo sul breve periodo e sono soggetti agli andamenti altalenanti delle borse) è stato l'accaparramento di terre (Land Grabbing), praticato anche a costo di aspri conflitti.
Ad affrontarsi, infatti, non sono solo due modelli di sviluppo ma due modelli culturali: quello delle grandi aziende private, che immagina la terra come un luogo in cui si produce in modo industriale per soddisfare una domanda mondiale in continua crescita; e quello delle organizzazioni contadine, che chiede il rispetto del diritto alla terra e invoca investimenti pubblici, difende la tradizione della vita nei campi, il rapporto con la terra e il sapere contadino tramandato nei secoli.
Un modello ha come riferimento il mondo urbano, la popolazione delle città che cresce a dismisura e deve essere nutrita; l'altro è radicato nel territorio delle campagne e respinge l'idea della piantagione a monocoltura, che con la terra ha un rapporto di sfruttamento.
I sostenitori degli investimenti sono rigorosamente a favore degli OGM, i rappresentanti dei contadini li ritengono pericolosi come un cancro che infetta i loro campi.[4]
Negli ultimi due decenni il numero dei movimenti sociali e politici che sostengono l'agroecologia come obiettivo principale, è cresciuto a grande velocità.
Molti attori, incluse coltivatrici e famiglie delle zone rurali, popolazioni indigene e agricoltori (donne e uomini) senza terra, stanno utilizzando l'agroecologia come strumento di contestazione e di difesa di territori e risorse naturali, di stili di vita e patrimoni culturali.
Ne sono esempio gli innumerevoli sindacati di contadini sviluppatisi a livello nazionale, specialmente in America Latina, India ed Europa, che lottano per la sovranità alimentare.[5]
L' espressione sovranità alimentare si riferisce al "diritto dei popoli a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto con metodi ecologicamente conformi e sostenibili, e al diritto di scegliere il proprio cibo e i propri sistemi agroalimentari."
Via Campesina ha formulato per la prima volta questo concetto nel 1996 a Roma, al summit della FAO, come risposta all'idea di "sicurezza alimentare" proposta nel vertice.
La sicurezza alimentare è il principio guida per le policy dei governi e delle organizzazioni multilaterali nella "lotta contro la fame nel mondo e la povertà rurale".
Essa rafforza i principi fondamentali alla base dell'agricoltura industriale moderna e della Rivoluzione Verde, incluso l'utilizzo di composti chimici ad alta intensità di capitale, monocolture, sementi ibride e, più di recente, varietà geneticamente modificate.
Sovranità e Autonomia alimentare richiedono, al contrario, la tutela della conoscenza, delle pratiche (delle comunità che producono il cibo, inclusi contadini, pescatori, allevatori e coltivatori urbani) e dei territori intesi quali spazi per la riproduzione, la prosperità della vita e della biodiversità.[6]
Il cibo lega, infatti, in modo "intimo" le persone e la vita delle comunità, la salute e la qualità della vita, la salvaguardia della terra e la biodiversità.[7]
Fin da quando se ne ha memoria, la terra ha rappresentato un suolo sacro per i contadini, che hanno accostato riti religiosi a pratiche agricole quotidiane come dissodamento, semina e raccolto.
Ma in occidente, nella società dell’adesso, il "fast food" e il "pasto pronto" hanno progressivamente comportato la perdita della convivialità e l'isolamento dell’individuo: un trionfo della quantità sulla qualità, della forma sulla sostanza.
Una sconfitta delle tradizioni culinarie e della sacralità del cibo, già messe a dura prova dall’era del consumo; oltre al sapore, a scomparire è infatti lo stesso cibo e, con esso, tutto ciò che rappresenta.[8]
Oggi, continuare a coltivare e consumare cibo nel modo in cui sono stati abituati i paesi industrializzati non è più possibile.
Il regime attuale delle Corporation si fonda su “imperi del cibo” costruiti spingendo un modello di economia maggiormente "scorporata dalla società" (disembedded), in cui la terra e il lavoro, necessari per portare il cibo dal campo alla tavola, sono sempre più soggetti all’autoregolazione dei mercati.
Dalla parte opposta agricoltori, comuni cittadini e movimenti sociali hanno unito le forze, per contrastare questa mercificazione (che prende la forma di costi più elevati e prezzi più bassi per gli agricoltori).
Gli allarmi per la sicurezza e le condizioni sanitarie degli alimenti, insieme a quelli per un ambiente sempre più inquinato, hanno fatto emergere Reti Alternative del Cibo ispirate a valori diversi da quelli del mercato.
Reti che favoriscono regole sociali e ambientali più stringenti contro la deregulation normativa che caratterizza i mercati neoliberisti, e che promuovono la trasformazione dell’economia basata sul “cibo dal nulla” in un’economia basata sul “cibo dei luoghi”.[9]
Diverse pratiche si contrappongono oggi al sistema agroalimentare dominante, attraverso la produzione e la distribuzione di prodotti di qualità, ecologici, territorialmente definiti e distribuiti attraverso filiere corte.
Esempi di queste pratiche sono: i mercati contadini; la community supported agriculture (CSA); i gruppi di acquisto solidali (GAS) e i sistemi alimentari locali.
Le loro principali riflessioni fanno riferimento a concetti quali consumo critico; consumo alternativo; consumo etico; stili alternativi di consumo.
Tutte queste pratiche rigettano il “patto silenzioso" che chiede alle aziende di offrire qualità e prezzi chiudendo un occhio su come questo possa essere possibile, e propongono invece forme innovative di azione politica e sociale collettiva, internalizzando nella produzione anche i significati simbolici.
Un dispositivo d’insieme territorializzato che potrebbe innescare processi innovativi di sviluppo endogeno; per ricomporre in un unico circuito le sfere che il sistema dominante continuamente separa: produzione, trasformazione, commercializzazione e consumo.[10]
[1] P. McMichael "L’analisi dei food regimes";
https://www.jstor.org/stable/26778669
[2] V. Shiva e altri "Perché le colture transgeniche (OGM) sono una minaccia per gli agricoltori, la sovranità alimentare, la salute e la biodiversità del pianeta";
www.gamadilavoce.it/lavoce/2014/ottobre/Madre/OGMitaliano24ago.pdf
[3] Via Campesina; https://viacampesina.org/en/prosperity-for-a-few-poverty-for-the-lot-wto-and-free-trade-agreements-have-failed-the-people
[4] S. Liberti "Land Grabbing" (cap.4);
[5] T. Viktor e M. Toledo "Agroecologia"
[6] L.G. Escobar "Sovranità alimentare" (tratti da "Pluriverso; dizionario del post sviluppo");
[7] F. Di Iacovo, G.Brunori e S. Innocenti "Alla ricerca di modelli innovativi di produzione-consumo";
https://agriregionieuropa.univpm.it/it/content/article/31/32/le-strategie-urbane-il-piano-del-cibo ;
[8] M. Costanzo Talarico "L'anima del cibo";
https://www.academia.edu/16985737
[9] G. Orlando "Le reti alternative del cibo dopo la crisi del 2008";
http://journals.openedition.org/aam/324
[10] A. Vitale e S. Sivini "Experiencias internacionales de construcción social de la calidad en la producción agroalimentaria";
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