La società dominante inibisce, più che porre in atto, le potenzialità umane.

 di socialclimatejustice.blogspot.com

Gli ultimi otto anni sono stati i più caldi mai registrati, caratterizzati da un aumento delle concentrazioni di gas serra in atmosfera, ondate di calore estremo, siccità e inondazioni devastanti che hanno colpito milioni di persone.

Sebbene siano state (e continuino ad essere) le società iper-industrializzate e ad alto consumo del Nord globale le principali responsabili della crisi ecologica, sono i paesi del Sud a dover affrontare gli impatti più drammatici del cambiamento climatico: le persone muoiono, si ammalano e vengono sfollate, i loro mezzi di sussistenza distrutti.

Da centocinquant’anni, le società industriali vivono del saccheggio accelerato di risorse la cui costituzione ha richiesto decine di milioni di anni; l’Occidente ha esportato prima violenza e sfruttamento, più che democrazia e uguaglianza, e oggi esporta "sviluppo" credendo di esportare benessere: ma le narrazioni dello sviluppo presentano spesso come "vincenti", logiche che svalutano o addirittura condannano all’estinzione intere culture, tecniche e saperi.

La transizione ecologica è oggi al centro di un conflitto climatico e di classe tra i movimenti ecologisti che negli ultimi anni hanno rivendicato una "transizione giusta", che imponga un cambiamento di sistema, e le politiche "green" dei governi, impegnate ad assicurare un futuro di profitti e disuguaglianze.

Il desiderio infinito di ottenere di più – economie nazionali più grandi, maggiori consumi, profitti aziendali più elevati – si è rivelato miope, fuorviante e in ultima analisi dannoso: ogni discorso sulla necessità di una conversione ecologica risulterà inefficace fino a quando la crescita economica rimarrà l'obiettivo di fondo e i bilanci, pubblici e privati, punteranno ad aumentare di anno in anno.

La decrescita potrebbe fungere da frenata d'emergenza, ponendo fine all’incessante sfruttamento sull’umanità e allo scempio ambientale: "decrescita" è una parola d'ordine che invita ad abbandonare radicalmente l'obiettivo della "crescita per la crescita", un mito il cui motore non è altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale.

Il raggiungimento di economie di prosperità senza crescita richiederà movimenti sociali forti e processi decisionali diretti e su piccola scala (ad esempio le assemblee di cittadini); sarà necessario esercitare una nuova ecologia conflittuale che si ponga in aperta critica con le istituzioni e la politica dei partiti che si prefiggono di “gestire” la crisi climatica, rimanendo scettici davanti alle opzioni riformiste.

Già dal 1982 gli scienziati della Exxon avevano previsto con precisione assoluta l'aumento della concentrazione di CO2 e il conseguente riscaldamento globale a cui assistiamo oggi: un nuovo e gigantesco imbroglio ecologico, costruito e praticato negli ultimi quarant'anni attraverso diffuse e pervasive operazioni di greenwashing.

Ogni anno milioni di tonnellate di "nuove entità" vengono rilasciate nell’ambiente, attraverso emissioni in atmosfera, scarico di liquami e perdite da discariche di rifiuti pericolosi; nel corso degli ultimi decenni, l'emergere di una "naturalizzazione del diritto a inquinare sulla base del potere economico", ha generato e rafforzato una geografia di left-behind places dove la deprivazione economica e l’esposizione alla nocività vanno a braccetto.

Territori dove bande armate, legalizzate e non, governano i territori per conto dell’industria mineraria e di quella forestale, o di altre istituzioni perfettamente legali non certo ben disposte a trattare con le proteste dei popoli che opprimono; nulla di nuovo per popolazioni indigene e comunità locali: da decenni (anche in nome della conservazione) vengono sfrattate dalle terre che hanno abitato e protetto da tempo immemorabile, mentre vengono aperte le porte a industrie estrattive, turismo di massa e caccia da trofeo.

Colonialismo ed estrattivismo (uno dei suoi assi portanti) diventano dunque le chiavi di volta per comprendere come si è agito sull’ambiente in nome di un progresso sfrenato che ha rotto equilibri sociali e naturali; i Paesi colonizzatori, nel perseguire la loro corsa al progresso hanno avuto (ed hanno) bisogno innanzitutto di materie prime da estrarre in Paesi lontani, sfruttando la manodopera e lasciando dietro di sé un deserto nel quale non crescerà più nulla.

Per secoli la borghesia europea, denunciando il "ritardo" dei popoli non europei nell’evoluzione della vita umana, ha fornito una scusante al colonialismo e alla schiavitù, considerati come semplici "effetti collaterali", e al contempo acceleratori, di un "lineare processo evolutivo".

Di fronte alla resistenza delle popolazioni locali, non si esitò ad uccidere; mentre i filosofi europei moderni elaboravano teorie politiche e giuridiche basate sullo stato di diritto, la libertà e la proprietà, dall'altra parte del mondo altri europei sterminavano intere popolazioni, depredandole delle loro terre e in molti casi riducendole in schiavitù.

In Europa, la giustificazione dei danni ambientali dovuti all'industrializzazione si baso' anche su una forma di "orientalismo climatico": il confronto tra climi industriali e climi "esotici" offriva l'opportunità di creare l'immagine di un'Europa sana e industriale, opposta a un mondo abitato da popolazioni barbare e pericolose.

Ma non esistono tipi o essenze (né tantomeno popoli) ideali, esistono solo popolazioni di individui concreti, e proprio una di queste popolazioni, proiettando sull’interazione con l’ambiente le proprie diseguaglianze classiste, si è fatta agente geologico, dando avvio all’Antropocene: gli europei, nel loro movimento di espansione e conquista, oltre a occupare militarmente terre, rubarne risorse, colonizzare interi territori attraverso l’uso indiscriminato della violenza, esportare virus e generare pandemie senza precedenti, hanno anche esportato, con la forza, la loro visione antropocentrica, spesso assolutamente estranea alle popolazioni indigene; Stato, mercato e proprietà privata, ad esempio, elementi derivati dal diritto creato dagli europei, sono stati imposti ad altri popoli come "elementi naturali".


Per molti popoli nativi, al contrario, il concetto di ricchezza o benessere assumeva un significato molto diverso: non un traguardo personale da raggiungere e mantenere il più a lungo possibile, bensì un mezzo temporaneo e collettivo, utile per organizzare al meglio la società secondo i ritmi spirituali della natura, con i quali le comunità native erano strettamente connesse. 

Natura: un concetto che, come scrive Adriano Favole, la tradizione di pensiero occidentale ha invece considerato come "la squadra in cui gioca tutto il resto del mondo non umano, una bizzarra categoria che tiene insieme orsi, carbone, sale e persino pianeti e galassie"; un concetto incomprensibile per le altre culture.

La totalità dello spazio e del tempo di tutte le culture, dei popoli e dei territori del pianeta è stata così riordinata in una grande narrazione universale in cui l’Europa era (ed è) simultaneamente "il centro geografico e il culmine del progresso temporale"; questa narrazione è servita a giustificare le modalità razziste e patriarcali, impiegate in passato dai sistemi coloniali di dominio, per consolidare il potere su possedimenti e sudditi: un'ideologia che perdura ancora oggi.

Silvia Federici ha letto le enclosure come un processo ampio che ha riguardato non soltanto le terre, ma anche i corpi delle donne accusate di stregoneria, i loro saperi e relazioni: la "strega" della nostra immaginazione, inventata da una cultura maschilista, era uno strumento di dominio patriarcale sulle donne; nella figura della strega le autorità punivano simultaneamente l'attacco alla proprietà privata, l'insubordinazione sociale, la diffusione di credenze magiche e, infine, la deviazione dalla norma che poneva la condotta sessuale e la procreazione sotto il controllo dello Stato.

A partire dal tardo Quattrocento l'immaginario maschile aveva iniziato ad assimilare in un’unica entità, due identità: "Qualcosa” (la donna/natura) che apparteneva a “Qualcuno” (l’uomo/cultura).

Ritracciare il processo di accumulazione originaria ci permette di osservare le vecchie e nuove recinzioni che operano nel presente; il capitalismo infatti continua a piegare l’intero globo agli interessi di una minoranza di uomini bianchi, attraverso diverse forme di imperialismo (anche ecologico) che diminuiscono o annientano il potenziale di massimizzazione della vita delle "forze riproduttive", trasformandole in uno strumento di accumulazione.

Si deve prendere atto che il capitalismo non è riformabile, perché essendo necessariamente basato su una crescita continua e su un continuo sfruttamento di corpi e territori, è antiecologico per costituzione; così, non potrà esserci alcuna "riconversione ecologica" senza un recupero radicale, da parte delle comunità locali, del potere di intervenire direttamente nella gestione dei processi di produzione e consumo che interessano il loro territorio.

L’unica soluzione alla crisi ecologica risiede, come scrive Bookchin, nel fatto che "gli esseri umani capiscano che sarebbero più felici se potessero lavorare insieme e prendersi cura l’uno dell’altro”; per le donne kurde del Rojava la rivoluzione è: "il potere di costruire relazioni di amicizia con un altro essere umano, un altro essere vivente, un albero, il sole, la natura e l'universo, basate sull’uguaglianza e la libertà, superando consapevolmente tutte le frontiere materiali".

Transculturalità e interazione saranno dunque le parole con cui smontare il "mito profondamente colonialista dell'integrazione dell'Altro", aprendo a un futuro in armonia col meticciato universale; per affrontare la guerra e la crisi climatica, serve che le lotte o le rivolte diventino potenti e durature, in grado di inventare e istituzionalizzare nuove pratiche collettive, creando nuove "forme di vita" e nuovi modi di stare al mondo.


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