Quello dei beni comuni è un tema che si sta imponendo all'attenzione di giuristi, economisti, antropologi e filosofi, ormai da alcuni anni.
tratto da "I beni comuni come istituzione giuridica"; di Ugo Mattei.
Tuttavia, vi è un consenso di massima tra studiosi per non considerarli né privati né pubblici, né merce né oggetto o parte dello spazio, materiale o immateriale, che un proprietario, pubblico o privato, può immettere sul mercato per ricavarne il cosiddetto valore di scambio.
I beni comuni sono riconosciuti in quanto tali da una comunità che si impegna a gestirli e ne ha cura non solo nel proprio interesse, ma anche in quello delle generazioni future.
Essi sono, infatti, per citare il noto studioso di diritto delle proprietà Stefano Rodotà, l’opposto della proprietà privata.
Se la proprietà presa dai beni comuni viene temporaneamente privatizzata e posta sotto le cure e il controllo di una persona, il risultato non è l’accumulo.
Quando gli spazi non risultano più necessari per l’uso privato, debbono essere restituiti ai beni comuni, per essere gestiti e usati dalla comunità.
I beni comuni, pertanto, non sono nemici della proprietà individuale, ma soltanto degli eccessi legati al suo accumulo.
Allo stesso modo non sono ostili al Governo, ma si prefiggono soltanto di limitare le concentrazioni eccessive di potere, attraverso decisioni dirette assunte dalla comunità, in base al riscontro da parte dei fruitori.
Un bene comune può essere qualsiasi cosa che la comunità riconosca tale da soddisfare un bisogno reale, fondamentale, al di fuori dello scambio di mercato.
Oltre allo spazio fisico pubblico, nella nozione possono anche rientrare organizzazioni istituzionali quali le cooperative o le comunità, i trust gestiti nell’interesse delle generazioni future, le economie di villaggio, i dispositivi per la condivisione dell’acqua e molte altre strutture organizzative sia antiche sia contemporanee.
L’utilità del bene comune è creata dall’accesso condiviso da parte della comunità, oltre che dal processo decisionale diffuso a tutti i livelli.
Le istituzioni comunitarie, attraverso un controllo diretto e reciproco e un’azione di accompagnamento e sostegno, tendono a contrapporsi al profitto, alla disuguaglianza e al difetto di lungimiranza.
Le istituzioni dei beni comuni funzionano attraverso il conferimento di potere giuridico diretto ai loro membri – nella ricerca condivisa di un significato o una funzione generativi – e rispondono a bisogni umani concreti di partecipazione, sicurezza e socialità.
È indifferente che il titolo di proprietà sia in ultima analisi pubblico o privato, di un’azienda o di un comune; l’importante è che lo spazio promuova un’attività collettiva generativa e non sia gestito in base a un modello di esclusione, estrattivo, interessato solo ai profitti e alla rendita.
Vietando l’estrazione di profitto, un’istituzione comunitaria libera una quantità significativa di risorse, da destinare a un uso sociale o ambientale.
Oggi, il grave depauperamento delle nostre risorse naturali e culturali comuni rende imperativa la correzione dello squilibrio di potere tra settore privato, pubblico e dei beni comuni.
L’armonizzazione delle leggi dell’uomo con i principi dell’ecologia richiede, come minimo, lo sviluppo di un settore dei beni comuni e delle istituzioni a esso associate, solido e tutelato legalmente.
Occorre partire dalla base del pensiero ecologico e critico, coltivare la diversità, la resilienza e le reti sociali che permettano di cambiare il mondo dal basso.
I beni comuni tra Medioevo e modernità
La modernità ha delegittimato la maggior parte delle istituzioni vitali e prospere dei beni comuni, le cui radici, nell’esperienza occidentale, risalgono agli inizi del Medioevo.
Non soltanto la foresta e il villaggio nelle campagne, ma anche le gilde degli artigiani nelle città – in cui pittori, scultori, artigiani e notai apprendevano il mestiere dopo lunghi e spesso duri anni di apprendistato – erano istituzioni al contempo giuridiche, politiche ed economiche.
In contesti storici, come i villaggi rurali odierni del Sud del mondo, gli individui si legavano gli uni con gli altri in una relazione permanente di reciprocità e obblighi collettivi nei confronti della comunità.
Non ha alcun senso la nostalgia di un ordine finito da tempo né ci aiuta negare il progresso apportato dal capitalismo in molti campi tra cui, per esempio, la medicina.
Mentre molte persone oggi, soprattutto in Occidente, avvertono l’assenza di una comunità, nessuno sente la mancanza del tipo di vita agricola di sussistenza dei tempi pre-moderni.
Oggi si sviluppano a qualsiasi latitudine forti legami tra componenti di comunità che contestano l’ordine giuridico costituito.
Rischiano l’arresto e altre sanzioni a causa di lunghe lotte collettive per proteggere un territorio dalla fratturazione idraulica o dall’estrazione oppure un edificio pubblico dalla svendita.
Tali relazioni hanno la potenzialità di portare alla trasformazione, necessaria nel XXI secolo, da homo economicus a homo ecologicus.
Principio organizzativo essenziale e onnipresente è l’aspetto che mette assieme cura, dovere, reciprocità e partecipazione.
Si tratta di trascorrere molto tempo insieme per prendersi cura, con grande attenzione e pazienza, di una realtà riconosciuta come bene comune.
In tale processo gli individui, accomunati da un obiettivo collettivo, istituzionalizzano la loro volontà generale di mantenimento di ordine e stabilità nel perseguimento dei loro fini.
Da un punto di vista ecologico, le istituzioni di comunità sono altamente virtuose, poiché evitano sprechi nei consumi e nello sfruttamento.
Rigenerare i beni comuni
Gli spazi comuni fisici e virtuali sono stati annientati dalla logica individualistica e dalle istituzioni legali del capitale; responsabili di questa situazione sono le istituzioni della proprietà estrattiva.
Per questo motivo, il sostegno destinato alla rigenerazione di istituzioni con condivisione del potere, devastate dal capitalismo, e la mitigazione delle conseguenze letali di centinaia di anni di violazioni dei principi dell’ecologia, le vere “leggi della natura”, necessiteranno di un cambiamento globale e radicale delle leggi umane estrattive.
La rigenerazione dei beni comuni, la contestazione dell’accumulo capitalistico, la riformulazione del diritto partendo dal basso e infine un mutamento radicale del nostro comune intendere, richiedono una solida teoria unita all’impegno politico quotidiano diffuso degli individui.
Le migliori pratiche giuridiche, contemporanee o storiche, ovunque abbiano avuto luogo, se attuate con successo e capaci di rendere concreti valori della condivisione del potere, della giustizia sociale e della sostenibilità ecologica, andrebbero discusse, comprese, adattate alle varie circostanze e infine applicate in modo tale da permettere che le voci, gli interessi e le soluzioni giuridiche adottate dalle comunità possano nuovamente prevalere.
Vale la pena ribadire che, per quanto sia complessa la varietà dell’esperienza umana, ovunque il principio organizzativo fondamentale del “fare comune” è quello della cura, del dovere, della reciprocità e della partecipazione.
Riconoscimento giuridico
Oggi la struttura giuridica preferita dal capitale sono le società per azioni, macchine costruite per l’accumulo perpetuo, mentre non è ancora stata sviluppata una forma giuridica idonea per i beni comuni, anche se strutture quali fondazioni e trust potrebbero funzionare per difendere tali interessi e a volte, infatti, funzionano.
L’emergere dell’eco-diritto dalle comunità auto-organizzate.
Un regime giuridico in grado di tenere sotto controllo il nostro sistema di sfruttamento ormai impazzito deve nascere dall’azione di comunità che si auto-organizzano.
Non deve essere un operato soltanto locale, ma connesso a livello mondiale;
in questo momento è impossibile concepire l’applicazione di un sistema mondiale, dal basso ed ecocompatibile.
Infatti, tentare di usare il diritto internazionale “dall’alto verso il basso” per tutelare i beni comuni, equivale a mettere una volpe a difesa di un pollaio, visto che pubblico e privato hanno entrambi sovente dimostrato di poter nuocere ai beni comuni.
Un ordine eco-giuridico riconoscerebbe l’interconnessione fondamentale dei problemi del nostro mondo e ci permetterebbe di trovare soluzioni adeguate e complementari le quali, anziché distinguere diritto, politica ed economia a livello locale, statale o anche internazionale, rispecchierebbero l’interdipendenza dei problemi affrontati.
Disponiamo del sapere, delle tecnologie e degli strumenti finanziari per costruire un futuro sostenibile; ciò che manca, oggi, è la capacità di trasformare la visione sistemica in leggi umane radicalmente nuove che consentano di creare il sistema di incentivi adeguato per procedere in una direzione sicura.
Il diritto stesso come bene comune
Per rendere il diritto parte della soluzione ai nostri problemi, dobbiamo immaginare un’impostazione basata sull’eco-progettazione.
Abbiamo bisogno di un approccio su piccola scala e dal basso verso l’alto, la cui efficacia risieda nell’uso diffuso e nella conformità ai bisogni delle comunità in senso lato.
È opportuno iniziare a considerare il diritto stesso un bene comune che richiede l’esercizio dell’attività legale in stretta simbiosi con la comunità, al fine di lottare contro l’ordine giuridico estrattivo.
Gli usi e i valori condivisi di una comunità, funzionali ai fini di una determinata attività sociale, nel tempo vengono istituzionalizzati sotto forma di consuetudini o pratiche vincolanti.
La partecipazione diretta della comunità si rivela di importanza cruciale per un ordine giuridico capace di considerare le leggi dell’uomo parte di nuove leggi, in nome della natura e di interessi non umani.
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