Movimenti migratori e tensioni sociali: una lettura del fenomeno migratorio alla luce del diffondersi dell'epidemia di Covid 19.
tratto da "XXVI Rapporto sulle migrazioni 2020"; di Fondazione ISMU.
http://ojs.francoangeli.it/_omp/index.php/oa/catalog/book/633
Gravi crisi umanitarie che colpiscono ampie aree del continente africano e del Medio Oriente continuano a determinare un flusso elevatissimo di sfollati in tutto il mondo.
Secondo i dati UNHCR , nel corso del 2019 erano oltre 79,5 milioni le persone costrette ad abbandonare la propria casa in seguito a persecuzioni, conflitti, violenza, violazioni dei diritti umani.
Di questi, 45,7 milioni sono sfollati interni, 1,26 milioni rifugiati, 4,2 milioni richiedenti protezione internazionale.
Nell’ultimo decennio il Mediterraneo è certamente stato al centro di queste importanti migrazioni forzate: infatti è la Turchia che ospita il numero maggiore di rifugiati e richiedenti asilo (circa 3,6 milioni) anche a seguito degli accordi stipulati con l’Unione europea nel 2016.
Crescita della tensione sociale e nuove forme di razzismo
Tutte le più recenti ricerche e analisi concordano su un punto: in Italia, come nel resto d’Europa, stiamo assistendo a una crescita inedita dei fenomeni di odio, intolleranza e razzismo sia nel mondo della Rete che nelle interazioni quotidiane tra le persone.
La gravità e la numerosità degli stessi fatti di cronaca, che riportano numerosi e sempre più violenti episodi di islamofobia, antisemitismo, antiziganismo e razzismo (in particolare nei confronti delle persone di origine africana), dovrebbero indurre a mettere al centro dell’agenda politica tali seri problemi.
Attacchi alle sinagoghe, alle chiese e ai simboli religiosi, scritte antisemite, manifestazioni violente negli stadi, crimini d’odio online, pratiche discriminatorie, pestaggi e aggressioni fisiche, sono i sintomi di un disagio e di una tensione collettiva generalizzata.
Alcune categorie sono più a rischio di altre.
Un’analisi condotta dall'Osservatorio italiano sui diritti, riguardante la diffusione di messaggi d’odio nel corso del 2019, ha messo in luce che nella classifica dell’intolleranza i più colpiti sono i migranti, specialmente se musulmani, e gli ebrei.
In particolare, rispetto agli anni precedenti, si registra una forte crescita dell’antisemitismo, il quale, a differenza dell’islamofobia, si manifesta indipendentemente dagli eventi internazionali.
A conferma di tale tendenza, un dato appare estremamente allarmante: dal 2004 al 2019 è aumentata dal 2,7% al 15,6% la percentuale degli italiani che nega l’esistenza della Shoa.
La crescente diffusione dell’antisemitismo è testimoniata anche da un’indagine condotta su scala europea tra i giovani ebrei tra i 16 e i 34 che vivono in Europa. Quattro su cinque ritengono che l’antisemitismo costituisca un problema nel paese nel quale essi risiedono e la metà degli intervistati dichiara di essere stato vittima di un episodio di antisemitismo nei 12 mesi precedenti.
Tornando alle categorie più vulnerabili, nella classifica dell’odio troviamo, nel mirino degli odiatori, le donne, e sebbene il concetto di “razza” sia ormai destituito di qualsiasi fondamento scientifico, costituisce una potente costruzione socio-culturale.
Se, da un lato, l’immigrazione è stata oggetto di minore attenzione nelle fasi iniziali della pandemia, la crisi indotta da quest'ultima, ha ulteriormente esacerbato il razzismo e le disuguaglianze esistenti.
L’emergenza sanitaria – con i suoi risvolti socio-economici – si è innestata in un contesto di tensioni e dinamiche sociali di lungo periodo con l’effetto di amplificarle ulteriormente.
Come già messo in evidenza, durante l'epidemia di COVID 19 sono aumentati i crimini d’odio contro le persone, soprattutto di origine asiatica, in particolare cinesi, i quali hanno riportato casi di discriminazioni nell’accesso ai servizi della salute e all'educazione.
I cittadini di origine cinese, residenti in Italia da diversi anni o naturalizzati, sono stati accusati di essere degli untori.
A fronte di tale situazione, la comunità cinese presente nel nostro paese ha diffuso un appello attraverso i social media, sintetizzato dallo slogan:
“Noi non siamo un virus”.
Peraltro, i dati relativi agli episodi di razzismo sono probabilmente sottostimati, in quanto le vittime di odio razziale non sempre riportano i casi alle autorità; come ammonisce l’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali: ci troviamo probabilmente di fronte alla punta dell’iceberg di un fenomeno ancora più radicato.
In che modo spiegare la crescita e la diffusione dei fenomeni di razzismo e xenofobia?
In primo luogo – come ampiamente studiato – vi è una relazione stretta tra razzismo e migrazioni: la presenza dello straniero, concepito come l’Altro, ha spinto al recupero della retorica razzista sotto le rinnovate vesti di un “razzismo senza razze”, cioè non più postulato su basi biologiche, bensì socio-culturali.
A partire dalla “vittimizzazione della popolazione autoctona” si è attivato un processo di costruzione sociale negativa dell’alterità, enfatizzata dalla retorica diffusa del lavoratore straniero che ruba il lavoro o dell’arabo terrorista.
Ma di per sé la presenza degli immigrati non è sufficiente a spiegare la diffusione delle nuove forme di razzismo e di tensione collettiva.
Come evidenziato dall'antropologo Marco Aime, è necessario rivolgere l’attenzione alle condizioni delle società di arrivo – le nostre società – ampiamente segnate dall’insicurezza e dal malessere sociale, ora ancora più aggravate da una crisi sanitaria, economica e sociale dagli esiti incerti.
In tale contesto, l’Altro viene ancora di più percepito come una minaccia al proprio status.
È una minaccia abilmente manipolata dai movimenti populisti e sovranisti che, con messaggi semplificatori e reiterati, sostengono l’esistenza di un nesso tra immigrazione e crisi economica, rifuggendo invece da un’analisi delle cause profonde alla base del disagio dei cittadini.
Di qui il diffondersi della nostalgia per il passato, che viene rimpianto e idealizzato in quanto ritenuto in grado di assicurare stabilità, familiarità e sicurezza.
Si tratta del “pessimismo nostalgico” intercettato dai populisti, i quali si rivolgono alla vittima del declino, indicando al contempo come nemici gli immigrati e le minoranze etniche, colpevoli di “minacciare la condizione presente o passata di coloro che i populisti cercano di rappresentare”.
L’Italia in particolare, prima dell’attuale emergenza sanitaria, occupava le ultime posizioni tra i paesi membri dell’UE per i livelli di disuguaglianza del reddito disponibile.
Come sottolinea l’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro), la diffusione del COVID-19 ha ulteriormente rafforzato le disuguaglianze esistenti colpendo, dal punto di vista economico, alcuni gruppi più di altri, quali ad esempio i lavoratori immigrati o quelli impiegati nell’economia informale.
Nel complesso, quindi, l’insicurezza lavorativa, unita a una ridotta mobilità sociale e a scarsi ammortizzatori sociali, alimenta un risentimento collettivo e una sfiducia generalizzata nei confronti della classe politica.
In questa situazione, in un numero crescente di cittadini autoctoni si diffonde il timore che l’inclusione dei gruppi marginalizzati possa condurre a un ulteriore declassamento, per effetto del ridursi delle risorse disponibili.
Malcontento e risentimento che probabilmente non trovano negli strumenti tradizionali della politica, un canale di espressione e di rivendicazione delle proprie istanze, in particolare per alcune fasce della popolazione.
A tali fattori ne va aggiunto un altro, ovvero la “normalizzazione dell’odio”.
Proprio nel corso degli ultimi anni, si riscontra infatti una crescente accettazione dell’odio e delle sue manifestazioni.
Come scrive ancora Aime: “linguaggio e posizioni esplicitamente razziste sono possibili e i loro autori hanno vita facile, perché in qualche modo si sono indeboliti quegli anticorpi che ogni società democratica deve contenere in sé, affinché le cose non degenerino”.
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