Ideologie della terra coloniale, conservazione e ingiustizie indigene.

tratto da "Decolonising Conservation Policy: How Colonial Land and Conservation Ideologies Persist and Perpetuate Indigenous Injustices at the Expense of the Environment"; di Lara Domínguez e Colin Luoma.

https://doi.org/10.3390/land9030065



Al suo livello più fondamentale, il colonialismo si basava sullo sfruttamento dei popoli colonizzati, dei loro territori e delle loro risorse.

L'acquisizione di nuove terre e risorse naturali fu fondamentale per il progetto coloniale; essa forni' alle potenze colonizzatrici ricchezza e vantaggi strategici che consentirono a massicci imperi di prosperare, grazie a materie prime e mercati che ne alimentarono l'industrializzazione.

I popoli indigeni e le altre comunità locali furono trattati come oggetti da soggiogare, rimuovere o eliminare, per sfruttare il loro lavoro, garantire un libero accesso alle terre e l'uso “produttivo” delle risorse.

Questa separazione dei popoli indigeni dal loro ambiente naturale è stata una componente fondamentale della colonizzazione, che persiste nelle odierne strategie di conservazione con devastanti conseguenze per le popolazioni indigene e l'ambiente.

Fin dalla loro nascita negli Stati Uniti all'inizio del XIX secolo, le modalità prevalenti di conservazione, più tardi note come conservazione "fortezza" o "coloniale", si basavano sulla convinzione che la protezione della biodiversità fosse "ottenibile al meglio creando aree protette in cui gli ecosistemi potessero funzionare in isolamento dal disturbo umano". 

Questi approcci presupponevano che le popolazioni locali utilizzassero le risorse naturali in modi irrazionali e distruttivi, causando perdita di biodiversità e degrado ambientale. 

La conservazione della fortezza è caratterizzata da:

1) creazione di un'area protetta dalla quale devono essere escluse le popolazioni locali dipendenti dalla base delle risorse naturali; 

2) imposizioni da parte dei ranger del parco che pattugliano i confini, spesso usando coercizione e violenza per garantirne il rispetto; 

3) turismo, caccia, safari e ricerca scientifica, considerati come unici usi appropriati all'interno delle aree protette. 

Così, sebbene gli sgomberi avvengano in nome della conservazione (un bene pubblico), piuttosto che dello sfruttamento coloniale, le conseguenze devastanti per i mezzi di sussistenza e le culture indigene rimangono le medesime.

Molte delle aree protette che si sovrappongono ai territori indigeni, inducono politiche che limitano l'accesso e l'uso tradizionale delle terre ancestrali alle popolazioni locali, anche a scapito dei loro mezzi di sussistenza. 

Nonostante un numero crescente di prove suggerisca che il modo più efficace per conservare l'ambiente si realizzi attraverso il riconoscimento e l'applicazione del titolo indigeno consueto alle terre ancestrali, ostacoli insormontabili impediscono che questi diritti siano resi effettivi. 

Questi ostacoli non sono affatto nuovi: sono l'eredità di una visione del mondo coloniale che ha plasmato i sistemi di creazione di conoscenza e diritto, con conseguenze di vasta portata che si riverberano fino ad oggi.

Le modalità impiegate in passato dai sistemi coloniali di dominio, per consolidare il potere su possedimenti e sudditi, furono sostenute da un'ideologia razzista che perdura ancora oggi. 

Questo sistema di credenze e principi ha radicato una discriminazione strutturale contro le popolazioni indigene nei sistemi legali globali; sistemi che ancora non riconoscono effettivamente il diritto consuetudinario sulle terre ancestrali alle popolazioni locali.

Fino a quando i loro diritti alla terra e alle risorse non saranno effettivamente protetti e applicati dai regimi legali nazionali, le popolazioni indigene rimarranno suscettibili di ulteriori espropriazioni e sfruttamenti, con gravi ripercussioni anche per l'ambiente.

Alcuni principi centrali per il colonialismo, in Africa e in Asia, hanno lavorato per alienare le popolazioni indigene dai loro territori e risorse, rendendo infine possibile la conservazione delle fortezze.

L'introduzione di regimi di proprietà individualizzati e l'enfasi posta sulla coltivazione come unica forma "produttiva" di uso del suolo, degna di protezione legale, ha creato un possesso fondiario insicuro e ha permesso ai colonizzatori di sfruttare le popolazioni indigene, le loro terre e le loro risorse. 

Le potenze coloniali hanno quindi cercato di rimediare ai danni ecologici, da loro provocati, attraverso modelli di conservazione basati sulla rimozione dei popoli indigeni dalle loro terre ancestrali. 


Regimi di proprietà individualizzati

Nella maggior parte del mondo, la nozione di proprietà fondiaria privata è iniziata con l'arrivo degli europei. 

Questo concetto occidentale non è riuscito a trovare un corrispettivo nelle comunità indigene, che generalmente detenevano e usavano i loro territori e risorse collettivamente, a beneficio dell'intero gruppo. 

I diritti comuni sulla terra e sulle risorse erano parte integrante del loro stile di vita tradizionale, nonché il modo più efficace per salvaguardare i loro ambienti naturali e provvedere alla soddisfazione dei propri bisogni.

Nonostante ciò, i sistemi fondiari comuni sono stati spesso ignorati sotto il dominio coloniale e sono state emanate leggi per imporre regimi di proprietà terriera individualizzati.

Il filo conduttore che attraversa tutti questi principi è la necessità di sfruttare le risorse naturali a beneficio del colonizzatore e di espropriare le popolazioni indigene dei loro territori; un processo parallelo alle moderne pratiche di conservazione. 

Pertanto, nonostante l'arrivo del ventunesimo secolo, la conservazione coloniale rimane viva e vegeta.

La supremazia riposta sulla proprietà individuale e il corrispondente non riconoscimento del possesso fondiario tradizionale o consueto, hanno inoltre contribuito alla deforestazione, alla perdita di biodiversità e ad altre forme di distruzione ambientale.

Al contrario, il riconoscimento e l'applicazione della proprietà comunitaria delle terre indigene è stata riconosciuta come una strategia chiave nella lotta al cambiamento climatico e al degrado ambientale.

Poiché i mezzi di sussistenza tradizionali dipendono dall'accesso alle terre ancestrali, lo sgombero in nome della conservazione minaccia la sopravvivenza stessa delle popolazioni indigene, implica la distruzione della loro cultura e conoscenza tradizionale, disperde la comunità, sconvolge i sistemi di parentela e spesso porta a carestie, malattie e morte.

Escludendo i popoli indigeni dalle loro terre, la conservazione delle fortezze li trasforma da "comunità interdipendenti e autosufficienti a comunità profondamente dipendenti e povere", che si trovano a dover assimilare un'economia monetizzata e una cultura maggioritaria che spesso li discrimina.

In assenza di una gestione consapevole e responsabile delle popolazioni indigene, le aree protette sono decadute.

Gli esperti concordano sempre più sul fatto che la custodia indigena offra la migliore protezione che le aree protette possano ricevere, a una frazione del costo delle alternative: una conservazione rispettosa degli obblighi internazionali in materia di diritti umani.


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