Il fallimento delle negoziazioni a livello internazionale (e la loro lentezza) è incompatibile con l’urgenza dei problemi.
Susan L. Cutter, geografa americana alla guida dell’Istituto di ricerca sul rischio e la vulnerabilità (Hazards and Vulnerability Research Institute), ha denunciato la mancanza di dati sulla mortalità, disaggregati per sesso ed età, nelle statistiche delle Organizzazioni internazionali.
In quelle dell’Organizzazione mondiale della sanità, che pure distinguono per sesso e per età, i dati relativi alle cause di morte per ragioni ambientali sono raggruppate sotto la dicitura “esposizione alle forze della natura” e questi casi di morte sono grandemente sottostimati.
Lorena Aguilar, che dal 2002 è alla guida del Global Gender Office (GGO), ha valutato che il rischio delle donne di incontrare la morte a causa di disastri ecologici è ben superiore (circa 14 volte) a quello degli uomini.
Confinate nelle loro case, le donne difficilmente ricevono i messaggi di allarme e il timore di aggressioni sessuali le trattiene dall’abbandonare le loro abitazioni e dal recarsi presso i rifugi; le responsabilità verso bambini e anziani, inoltre, ne impediscono o rallentano la fuga.
La gravidanza è un’altra condizione che ne limita la mobilità; nel caso di eventi estremi le prime vittime sono le donne gravide.
Le bambine sono discriminate nella distribuzione del cibo e nelle operazioni di soccorso; ne è un esempio quel padre che durante il ciclone del 1991 in Bangladesh, non potendo salvare tutti i suoi figli, abbandonò la ragazza perché il figlio maschio poteva "garantire la discendenza della famiglia".
Ovunque donne e bambini sono i più colpiti a livello economico; l’economia di sussistenza, responsabilità per lo più femminile che dipende dall’accesso alle risorse comuni, è facilmente travolta anche da minime perturbazioni.
Anche nel periodo che segue i disastri ambientali le donne sono in condizioni di vulnerabilità: gli stupri sono onnipresenti; per svolgere il lavoro di cura e approvvigionarsi di acqua e cibo, donne bambini si espongono a fatiche e privazioni che ne mettono in pericolo vita e salute.
Né si devono dimenticare le mortificazioni del senso di dignità a cui le donne sono esposte nei campi, ad esempio quando non riescono a gestire dal punto di vista igienico il ciclo o quando, per paura di essere aggredite, non si recano alle latrine.
La morte delle madri, lo sfollamento, la vita nei campi, conducono all’abbandono dei bambini, espongono le figlie femmine al rischio di matrimoni precoci, aggressioni sessuali e al traffico a scopo di prostituzione.
Susan L. Cutter, che nel 1995 aveva definito donne e bambini le “vittime dimenticate” dei mutamenti climatici e ambientali; ventidue anni dopo, sulla base dei rapporti ONU, WHO e UNHCR, non ha ritenuto di dover modificare la sua interpretazione.
Infatti, nonostante l’eguaglianza di genere sia ormai costantemente nominata nelle dichiarazioni ufficiali internazionali, manca ancora una documentazione adeguata su cui basare gli interventi per ridurre il rischio, tuttora troppo alto per donne e bambini.
Restano immutate, e spesso aggravate, le cause sociali che ne determinano la vulnerabilità: la disparità di reddito, l’estensione del lavoro non pagato e sottopagato, il mancato accesso alla terra.
Donne e bambini sono la maggioranza nei flussi migratori, raddoppiati negli ultimi 25 anni, e il cambiamento climatico è la causa principale delle migrazioni forzate.
In America centrale l’inaridimento dei suoli, la deforestazione, i conflitti hanno spinto migliaia di persone all’emigrazione verso gli Stati Uniti; flussi composti per quasi il 50% da bambine e ragazze dai 5 ai 17 anni.
Nel complesso le ricerche esistenti e i dati che da esse emergono, riguardano per lo più le donne del Sud del mondo e, benché rivelatori, poco ci dicono delle relazioni sociali alla base della vulnerabilità femminile in diversi contesti, agricoli e industriali, nei paesi del Nord del mondo, su cui si sofferma un numero minore di ricerche.
Tra queste meritano una breve menzione quella sull’aspettativa di vita di uomini e donne in 141 paesi e lo studio sulle “donne di Katrina”.
Tra il 1981 e il 2002, confermano gli studiosi della London School of Economics, i disastri naturali hanno ucciso di più le donne e ad una età più giovane rispetto agli uomini; nei paesi in cui maggiore è la discriminazione verso le donne, maggiori sono i rischi che esse corrono nel caso di disastri ambientali.
Ma è stato l’uragano Katrina a rivelare l’intreccio di discriminazioni di classe, di razza, di genere, che ha determinato la vulnerabilità delle donne.
Le donne povere, di colore, anziane, le persone queer e transgender hanno avuto le maggiori difficoltà di accedere ai soccorsi.
Come in Bangladesh, le donne che avevano anziani e bambini da proteggere non riuscirono a mettersi in salvo.
Ha ricordato una di loro, madre di un bambino di sei mesi: “io e la mia famiglia non ci siamo mosse; con mia madre, le mie cinque sorelle e tutti i loro bambini, restammo”.
Restarono fino all’ultimo, poi furono costrette a cercare la salvezza su materassini gonfiabili.
È stato calcolato che in quei giorni subirono gravi conseguenze 56.000 donne gravide e 75.000 bambini in tenera età.
In particolare i bambini di colore pagarono un prezzo altissimo: il 94% dei bambini poveri di New Orleans erano afro-americani e la maggioranza viveva in famiglie con un solo genitore, la madre.
Dopo l’uragano la ricostruzione offrì occasioni di lavoro agli uomini, mentre settori in cui erano tradizionalmente occupate le donne, subirono un arresto.
A un anno dal disastro tra coloro che avevano abbandonato New Orleans, senza farvi ritorno, il 56,8% erano donne.
Infine, le persone LGBQT, numerose a New Orleans per l’imminente festival queer, furono incolpate del disastro, interpretato come una "punizione divina" per la loro perversione.
Lo slogan che circolò in quei giorni negli ambienti di destra era: "Grazie a Dio per Katrina”.
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