È l’iniziativa dei territori e delle loro comunità, il principale antidoto ai danni inferti alla Terra da una globalizzazione portata avanti in modo irresponsabile.

tratto da "Il futuro è già qui"; di Guido Viale.


L’inerzia dei governi, l’iniziativa dei territori

I Governi degli Stati membri e la governance dell’Unione Europea, come quelli di quasi tutte le altre potenze economiche del pianeta, continuano a guardare al passato e chiudono gli occhi di fronte al futuro.

Pensano a far riprendere a ogni costo la corsa, già molto fiacca prima della pandemia, dei rispettivi PIL (per lo più a spese di quello degli altri) e se parlano di “svolta ecologica” è solo perché sperano, o contano, che in qualche modo quella svolta possa contribuire alla ripresa dei rispettivi PIL. 

Nel frattempo i disastri ambientali si moltiplicano in tutto il mondo: incendi devastanti in cinque continenti; fusione di ghiacciai, calotte polari e permafrost, con conseguenti disastri ambientali ‘locali’ e fuoriuscite (dall’effetto serra ‘globale’) di metano; crisi idriche e alimentari; estinzione di massa di migliaia di specie viventi; diffusione dei focolai di guerre, ben foraggiati dall’industria mondiale delle armi; moltiplicazione delle condizioni che costringeranno milioni di persone ad abbandonare le loro terre per cercare rifugio altrove. 

Siamo già dentro il futuro, ben lanciati verso la soglia dell’irreversibilità che, senza ridurre l’importanza e l’urgenza delle misure di mitigazione della crisi climatica (quelle che ne riducono le determinanti: innanzitutto i gas serra) mette all’ordine del giorno una riorganizzazione generale degli assetti economici e sociali in funzione dell’adattamento: per rendere meno ostico vivere – o sopravvivere - in ambienti irrimediabilmente compromessi.

Questa svolta non può più venire dall’alto per decisioni dell’establishment politico, economico e finanziario, se questo non viene coinvolto da una mobilitazione dal basso per iniziativa delle comunità, attraverso l’attivazione e la valorizzazione delle risorse locali in forme necessariamente frammentate, differenziate, sperimentali; che possano imporsi ai governi nazionali e sovranazionali perché replicabili. 

Tutto ciò porta i territori – quale che ne sia la definizione, e soprattutto la ‘perimetrazione’ - al centro della storia: non solo di quella umana, ma di quella di tutto il pianeta e di tutto il vivente. 

Prima di tutto bloccare i fossili e chi li utilizza 

La conversione energetica, priorità numero uno, non può affidarsi solo a una progressiva diffusione delle fonti rinnovabili e dell’efficientamento energetico, contando sul fatto che ciò porti automaticamente all’esautoramento e alla dismissione degli impianti, delle attrezzature e dei progetti legati allo sfruttamento dei fossili. 

Senza il blocco degli impianti e dei progetti indissolubilmente legati a questa fase storica – estrazione, trasporto, raffinazione, distribuzione e utilizzo dei fossili - il ridimensionamento dei fabbisogni energetici dei paesi dai consumi già saturi non potrà affermarsi. 

Tanto più che permettere di valorizzare i giacimenti di gas naturale in esercizio o appena scoperti come asset quotati in borsa, non può che indurre a mantenere lo stesso atteggiamento verso le riserve di petrolio o di carbone.

Ma l’esigenza di interrompere la catena del valore legata ai combustibili fossili riguarda necessariamente anche i comparti che si trovano a valle.

Gran parte delle infrastrutture di trasporto legate a una circolazione delle merci e dei passeggeri, non avrà più ragione di esistere, come tante cosiddette Grandi Opere a cui vengono affidate le prospettive di uno ‘sviluppo’ sempre più incerto e problematico: tunnel, ponti, autostrade, aeroporti, alta velocità e megastores (peraltro già in crisi), indissolubilmente legati alla mobilità automobilistica; ma anche attività come crociere, voli low cost, viaggi e vacanze internazionali. 

Purtroppo, oggi come negli anni a venire, il blocco di quei fattori di degrado dell’ambiente continuerà a venir perseguito quasi solo a livello locale, e per aver successo dovrà essere sostenuto e accompagnato dallo sviluppo di una cultura adeguata. 

Piccolo è necessario

L’economia e l’era dei combustibili fossili sono indissolubilmente legate alle grandi 
dimensioni: grandi siti estrattivi; oleodotti e gasdotti di migliaia di chilometri; flotte 
carbonifere, petrolifere e metanifere imponenti; grandi impianti di raffinazione, di generazione, di utilizzo, di distribuzione delle miriadi di prodotti ricavati dai fossili;  grandi emissioni di gas climalteranti, di inquinanti, di perdite e scarti di processo; grande produzione di rifiuti che vanifica le pretese di instaurare un’economia circolare. 

Grandi impianti richiedono grandi capitali e grandi capitali comportano centralizzazione delle decisioni e concentrazione del potere e della ricchezza. 

L’era dei fossili ha prodotto una società più autoritaria, diseguale e gerarchica. 

Anche le fonti rinnovabili spesso riproducono questo gigantismo e sono gestite con la stessa logica: gran parte degli incentivi che i governi italiani hanno dedicato alle rinnovabili, e soprattutto al fotovoltaico, non sono stati destinati alla proliferazione dei piccoli impianti distribuiti là dove l’energia viene consumata, ma a enormi distese di pannelli solari che ricoprono intere vallate collegate esclusivamente alla rete nazionale. 

Ma le fonti rinnovabili consentono anche – cosa che non succede con i fossili – una generazione decentrata, differenziata nelle fonti, distribuita tra gli utenti, commisurata alle esigenze locali e alle loro priorità.

Consentono una governance democratica e partecipata, come dimostrano le molte Comunità Energetiche, largamente ostacolate in Italia da una gestione centralizzata della rete e delle autorizzazioni, ma diffuse in Germania a riprova della loro replicabilità.

Riconquistare la filiera del cibo

Lo stesso vale per la filiera del cibo: l’Unione europea, ma anche le altre potenze economiche del pianeta, e persino i paesi marginali, largamente sottomessi alle logiche dei mercati mondiali, continuano a promuovere e sussidiare agricolture, allevamenti e sistemi di pesca e itticoltura industriali, spesso fondati su una chimica di origine bellica, che avvelena e impoverisce suoli, acque e aria e contribuisce, con un consumo esponenziale di sostanze e processi di origine fossile, all’effetto serra, compromettendo la salute umana e animale attraverso catene alimentari sempre più pericolose. 

Suoli e ambienti compromessi possono ancora essere risanati e rigenerati, ma solo da un’agricoltura, un allevamento, una pesca e una forestazione ecologiche, affidate ad aziende di piccole dimensioni, di prossimità, possibilmente multicolturali e multifunzionali, e da ‘comunità del cibo’ che leghino, fino al limite a farli coincidere, chi lo produce e lo trasforma e chi lo consuma. 

Riportando così, almeno in parte, entrambe queste funzioni anche all’interno dei centri abitati per restituire alla vita cittadina un contatto diretto con il ruolo insostituibile del suolo e delle acque, e persino con la vita selvatica, che può tornare a popolarne le zone ‘verdi’ e disinquinate. 

Rifiuti zero

L’economia circolare, ultima versione, in larga parte propagandistica, di un sistema 
produttivo che non sa più come legittimarsi, è incompatibile con l’obsolescenza programmata, che è il perno intorno a cui ruota gran parte della ‘crescita’ economica, affidata in misura sempre più ampia ai mercati di sostituzione. 

Obsolescenza programmata significa non solo limitare a pochi anni, mesi o giorni 
(gli imballaggi!) la funzionalità dei prodotti messi in circolazione, ma anche e soprattutto adoperarsi - a questo viene piegata gran parte della ricerca tecnica e scientifica - per rendere non più appetibili i prodotti superati dall’innovazione. 

L’economia circolare non è la “Legge del ritorno” al suolo e alla Terra, propugnata da Vandana Shiva, così come la "green economy", che risponde esclusivamente a convenienze immediate, non è la conversione ecologica. 

È solo recupero di quanto è ancora disponibile nei rifiuti generati da una economia fondata sulla produzione ininterrotta di scarti, sia materiali che ‘umani’, e che senza produrli non potrebbe sopravvivere. 

Una vera economia circolare affronta invece il problema alla fonte, con una cultura e una pratica a ‘Rifiuti zero’ fondate sull’ecodesign: cioè anticipando, nella concezione e nella progettazione, sia la durata dei prodotti messi in circolazione che il recupero integrale di materiali e componenti alla fine della loro vita utile. 

È chiaro che una comunità locale ha solo un potere limitato di intervenire sulla sequenza che va dal progetto iniziale al recupero finale; ma intanto può cominciare, come già molti fanno, a promuovere la riduzione degli acquisti inutili, la valorizzazione dell’usato, la raccolta differenziata degli scarti, sia del 
consumo che dell’industria e il loro riciclo, e una cultura che premi le produzioni che 
promuovono o facilitano il recupero e penalizzi quelle che lo ostacolano. 

La globalizzazione irresponsabile, incurante delle condizioni di sopravvivenza della vita, umana e non, si fonda su un elefantiaco sviluppo del trasporto di uomini e merci. 

La logistica è l’attività più diffusa nel mondo di oggi, perché costituisce l’essenza stessa della globalizzazione, così come si è andata configurando nel corso dell’ultimo mezzo secolo. 

Restituire iniziativa e autonomia alle comunità non può che comportare una progressiva "ri-territorializzazione" delle produzioni, in tutti i campi in cui risorse 
locali, tecnologie e soluzioni organizzative lo consentono; soprattutto laddove le produzioni globali presentano vantaggi competitivi solo grazie alle ‘esternalità’, che scaricano sui territori più diversi; una pratica che solo lo sviluppo dell’iniziativa locale può ostacolare. 


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