In che modo potremo sottrarre le dimensioni comuni del nostro vivere urbano, come parchi, strade e piazze, ad un progressivo assorbimento nel processo di valorizzazione?

tratto da "Urbanizzazione planetaria e covid-19: nuove geografie per convivere con la natura?"; di Luca Bertocci, Giordano Panosetti, Tommaso Pirone, Giacomo Spanu.

www.documentigeografici.it/index.php/docugeo/article/view/226

DIRITTO ALLA CITTÀ    

Recenti studi hanno evidenziato come l'estensione planetaria delle interconnessioni e delle mobilità rappresenti sia un'opportunità per pensare nuove forme societarie, che un vettore epidemico.

Attualmente, a seguito della diffusione del  Covid-19 ed al fine di contenere  l'infezione, su scala mondiale si è resa necessaria l'imposizione del distanziamento sociale quotidiano e di zone rosse.  

Da una parte, dunque, una gestione contingente e stringente dell'emergenza secondo il paradigma dell'isolamento, dall'altra il sorgere di molti quesiti: come coniugare salute e spazio urbano sul medio e lungo periodo?  

Che aspetto avranno le nostre città e come ne potremo fare esperienza? 

Col presente contributo, suggeriamo di rispondere a queste domande oltre e senza la città, provando a pensare  l'urbanizzazione nella "rete  della vita".  

La nostra ipotesi è che non ci sia alcun bisogno della città, né come concetto ideologico, né come tipo specifico di insediamento determinato per separazione da ciò che ne sta fuori.

Urbanizzarsi nella rete della vita: dopo la città, ovvero oltre la natura come esterna

In due suoi recenti saggi, lo storico Jason Moore, propone un'indagine critica della  modernità occidentale e suggerisce un'inedita comprensione del  sistema-mondo capitalista attraverso una  metodologia che chiama Ecologia-mondo.  

Moore invita a pensare l'attuale crisi ecologica come "fine della natura-come-esterna(external nature) e prodotto a buon mercato(cheap  nature)".  

Con questa formula, l'autore si riferisce al modo storicamente determinato di  pensare e co-produrre “Natura”, sviluppato a partire dalla seconda metà del '500 da  élite di commercianti e attori politici  proto-capitalisti operanti in una rete di centri urbani europei articolata tra Olanda,  coste mediterranee e atlantiche.

La crisi ecologica, afferma in sintesi Moore, si verifica perché la frontiera dell'accumulazione ai fini  dell'appropriazione (scoperte geografiche) è venuta sempre più a coincidere con quella dell'appropriazione per capitalizzazione (schiavitù, sfruttamento ed estrazione).  

Il metodo Ecologia-Mondo pone un fondamento geografico alla base della dialettica di "dentro e fuori" su cui si fonda la legge del valore: il rapporto oppositivo (fisicamente definito) tra città e campagna.  

Da qui si evince un corollario, che ci porta nel solco della nostra riflessione: se finisce la natura come esterna, con lei finisce anche la città come interna.  

Ovvero  l'idea che “città” possa coincidere con il suo “concetto ideologico”, cioè quel modello spaziale definito, contenuto e protetto da mura, circondato da un fuori naturale.  

E se la fine della natura come esterna e l'estendersi planetario della città (quindi la sua scomparsa) fossero insieme stati  dell'arte, sintomi di una crisi epocale della  modernità capitalista e, di conseguenza,  un'opportunità?  

E se il virus ponesse esattamente questa  domanda? 

I processi di zoonosi (salto di specie) all'origine del contagio da Covid-19 sarebbero causati dall'utilizzo predatorio  delle risorse naturali.  

È dunque utile concentrare l'attenzione sui  grandi paesaggi operazionali che stanno  alla base dell'agribusiness e che sono  necessari per la vita metropolitana. 

Ovvero sulle grandi distese di piantagioni, coltivazioni intensive e aree estrattive. 

La  pandemia segnerebbe dunque un  problema: l'idea, moderna e capitalista, che la “Natura” in quanto oggetto misurabile si trovi e preesista al di fuori della Società, ai suoi margini, ed in quanto tale possa essere impunemente sfruttata.  

Perciò l'attuale contagio da Covid-19  sarebbe da collocare "dentro" la crisi ecologica poiché, come sintomo di una rottura epocale, mostra che la natura è tutt'altro che esterna ed immobile.  

Se dunque è tra noi, come dobbiamo ripensare le forme e le infrastrutture  sociali affinché considerino questa inedita internità?  

Cosa succede alla città se anche il virus ne rade al suolo le “mura”? 

A proposito di sconfinamento della città,  già nel 1970 Lefebvre avanzava l'idea  secondo la quale la società si sarebbe  completamente urbanizzata.  

A partire da questa ipotesi, alcuni studiosi suggeriscono che l'urbano non sia un tipo  specifico di insediamento ma un "processo" a sua volta non omogeneo e irregolare.

Di questo processo, che implica momenti dialettici di implosione ed estensione,  fanno parte anche le infrastrutture logistiche, le zone estrattive e le grandi aree utilizzate per la produzione agricola industriale.  

Per queste ragioni, non è più possibile definire l'urbano attraverso il suo fuori.   

A patto però di ripensare la convivenza  con la natura in senso vero e non posticcio, non una fase, ma piuttosto  come una nuova ecologia-mondo.  

Può sembrare una provocazione, o addirittura uno scenario distopico: non è così.  

Per cogliere questa simbiosi pensiamo  però siano necessari  - come andiamo ora  a mostrare - modelli pratici per pensare la produzione dello spazio socio-naturale in termini non binari. 

Giustizia spaziale e common urbani

Nel tipo storicamente determinato  di  urbanità che abitiamo, la dicotomia pubblico-privato è segnata dalla posizione  di subalternità attribuita alle donne e alla riproduzione sociale, ruolo a più riprese contestato e le cui condizioni di esistenza sono state messe in discussione.

Lo spazio pubblico è il  nodo centrale

Cosa implica, allora, guardare «in direzione di un mondo con più aria e più spazio per noi»? 

Le dimensioni comuni sono il risultato di uno scontro perpetuo tra gruppi sociali che ne stabiliscono l'utilizzo e la destinazione. 

Attraverso questo processo vengono prodotti common il cui accesso può essere, o ristretto a piccoli gruppi (ad  esempio i quartieri elitari, spesso green, dove vivono le classi agiate nei distretti  urbani), oppure essere allargato ad ampie  fette di popolazione che li attraversano e li vivono, determinando così nuove forme di spazio (come, ad esempio, parchi pubblici o mercati di quartiere all'aperto).  

Numerosi studiosi delle trasformazioni  urbane hanno sottolineato come negli ultimi decenni le città siano state caratterizzate da processi di normalizzazione fondati sulla pianificazione di  carattere politico-economico volta, prioritariamente,  al profitto.  

Il progressivo consolidarsi del modello  neoliberista ha dato infatti forma agli spazi delle nostre città secondo la ragione  dell'accumulazione di capitale, privilegiando pratiche di privatizzazione  e  concentrazione nell'ottica di massimizzare i guadagni. 

La necessità che poniamo, ovvero quella di ripensare lo spazio pubblico post-Covid19, deve dunque fare i conti con questo contesto. 

Due nodi sono fondamentali:  

il primo riguarda la ratio con cui è stato pensato il pubblico in opposizione al privato; il secondo attiene alle forze sociali e agli interessi che lo determinano.  

Salvaguardare dalla logica del profitto le caratteristiche di spaziosità e ariosità di cui abbiamo bisogno per vivere sicuri ci sembra di non prorogabile importanza.  

In questa necessità collochiamo un'altra sfida del momento: pensare lo spazio pubblico come la sede dove iniziare a vivere - e ad urbanizzarsi - secondo quella convivenza con tutte le nature (dunque anche i virus) suggerita da Moore. 

Andando così a ri-determinare, attraverso questo movimento, la natura, le forme ed il valore simbolico e materiale degli  spazi privati.  

In quest'ottica proponiamo di riflettere sul problema della giustizia spaziale e sociale.  

Se è vero che gli spazi e i beni comuni potrebbero contribuire in maniera sempre più determinante al benessere di ciascun individuo, nel re-immaginare i processi di produzione dello spazio socionaturale, la  destinazione dei commons non può non rappresentare uno degli aspetti centrali. 

A partire dalla definizione di spazio come il prodotto delle relazioni sociali, possiamo allora chiederci: in che forme ritorneremo ad occupare, attraversare e muoverci nello spazio pubblico quando l'emergenza Covid-19 sarà rientrata? 

David Harvey scriveva che l'unica forma di resistenza è il movimento; il movimento e la mobilità sono ovunque ed ovunque in relazione a qualcuno o a qualcosa.  

La mobilità impregna la nostra vita quotidiana ed è presente nei nostri atti routinari, dal momento in cui ci alziamo al mattino e ci muoviamo per andare al lavoro o all'università.  

Camminare può arrivare anche ad assumere un significato politico, prendiamo ad esempio le manifestazioni.  

La mobilità è una «struttura  particolare  di  sentimento» che mette in relazione le persone, gli oggetti e i luoghi; si caratterizza come una maniera di comunicare un senso.  

Piuttosto che immaginare smart, gated  and safe cities, sulla base di recenti studi, avanziamo la necessità di sviluppare infrastrutture, servizi per la cura e la salute, forme societarie plurali  e globalmente connesse nella rete della vita. 

Commenti