Beni Comuni Territoriali ed Economia Civile: giunto all’apice del distacco dalla comunità, l’uomo-individuo ha finito col diventare la prima vittima della modernità.

tratto da "Le economie del territorio bene comune"; di Stefano Zamagni.

https://oajournals.fupress.net/index.php/sdt/article/view/8589

Dell’individualismo libertario

Sappiamo da tempo che i beni comuni – sintagma che corrisponde all’inglese commons – sono soggetti alle situazioni note come “The tragedy of commons”.

L' espressione fu coniata da Garrett Hardin nel 1968 per dare il titolo al suo celebre saggio, che bene dà l’idea del dilemma sociale alla base della questione dei commons (un dilemma sociale è un conflitto radicale tra interesse individuale e interesse collettivo).

Per comprendere cosa c’è all’origine della “tragedia” chiediamoci qual è la natura di un bene comune. 

Un modo spedito per rispondere è quello di porre a confronto un bene comune con un bene pubblico. 

Quest’ultimo è un bene che non è né escludibile, né rivale nel consumo; un bene perciò l’accesso al quale è assicurato a tutti, ma la cui fruibilità da parte del singolo è indipendente da quella di altri. 

Si pensi a quel che accade quando un individuo percorre una strada pubblica: il vantaggio che questi trae dall’uso non è legato a quello di altri soggetti che pure percorrono la medesima strada. 

Comune, invece, è il bene che è rivale nel consumo ma non è escludibile; ed è tale che il vantaggio che ciascuno trae dal suo uso non può essere separato dal vantaggio che altri pure traggono da esso. 

Come a dire che il beneficio che il singolo ricava dal bene comune si materializza assieme a quello di altri, non già contro (come accade col bene privato) e neppure a prescindere (come accade col bene pubblico).

Cosa allora rende problematica la gestione di un bene comune? 

Per un verso, il comportamento da free rider, che è quello di chi vive sulle spalle altrui; per l’altro, l’atteggiamento da altruista estremo, che è quello di chi annulla o nega se stesso per avvantaggiare l’altro. 

Al contrario, cosa favorisce la gestione di un bene comune? 

Il comportamento reciprocante: ‘ti do o faccio qualcosa affinché tu possa a tua volta dare o fare qualcosa, in proporzione alle tue capacità, ad un terzo o, se del caso, a me’. 

Il principio dello scambio di equivalenti recita invece: ‘ti do o faccio qualcosa a condizione che tu mi restituisca l’equivalente di valore’. 

La reciprocità, dunque, è un dare senza perdere e un ricevere senza togliere.

La cultura contemporanea si è talmente dimenticata della categoria di reciprocità che ad essa neppure viene il sospetto che una gestione efficace dei beni comuni mai potrà essere di tipo privatistico e neppure di tipo pubblicistico, ma solo di tipo comunitario – una gestione cioè fondata sul principio di reciprocità.

Giunto all’apice del distacco dalla comunità, l’uomo-individuo della modernità ha finito col diventare la prima vittima di essa. 

Ossessivamente ripiegato sulla propria soggettività l’uomo contemporaneo è proiettato verso un’autonomia e una separatezza del tutto inospitali, dimentico di ogni relazione con l’altro che non sia funzionale al perseguimento della propria funzione obiettivo. 

L’idea della società come sistema di bisogni da soddisfare, quando viene sposata al racconto di un individuo autoreferenziale, il cui fondamentale problema è quello di massimizzare una qualche funzione obiettivo sotto vincoli, produce esiti distruttivi. 

L’individualismo è la posizione filosofica secondo cui è l’individuo che attribuisce valore alle cose e alle relazioni interpersonali. 

Ed è sempre l’individuo il solo a decidere cosa è bene e cosa è male, quel che è lecito e illecito. 

Non esistono valori oggettivi per l’individualismo, ma solo valori soggettivi. 

La radicalizzazione dell’individualismo in termini libertari, e quindi antisociali, ha portato a concludere che ogni individuo ha ‘diritto’ di espandersi fin dove la sua potenza glielo consente.

È la libertà come scioglimento dai legami l’idea oggi dominante nei circoli culturali. Poiché limiterebbero la libertà, i legami sono ciò che deve essere sciolto. 

Equiparando erroneamente il concetto di legame a quello di vincolo, si confondono così i condizionamenti della libertà – i vincoli – con le condizioni della libertà – i legami appunto. 

Il che ha contribuito ad accreditare un duplice errore: che la sfera del mercato coincida con quella dell’egoismo, con il luogo in cui ognuno persegue i propri interessi individuali e, simmetricamente, che la sfera dello Stato coincida con quella della solidarietà, del perseguimento degli interessi collettivi. 

È su tale fondamento che è stato eretto il modello dicotomico Stato/mercato: un modello in forza del quale lo Stato viene identificato con la sfera del pubblico e il mercato con la sfera del privato. 

Cos’è l’economia civile?

L’economia civile non accetta l’idea, oggi sempre più diffusa, che il mercato sia qualcosa di radicalmente diverso dal civile, retto da principi diversi: l’economia è civile, il mercato è vita in comune; condividono la stessa legge fondamentale: la mutua assistenza. 

L’economia civile ricorda che ci sono esigenze, riconducibili al principio di fraternità, che non possono essere eluse, né rimandate alla sola sfera privata e alla filantropia in particolare.   

L’idea centrale è quella di vivere l’esperienza della socialità umana all’interno di una normale vita economica, né a lato, né prima, né dopo. 

Essa ci dice che i principi ‘altri’ dal profitto e dallo scambio di equivalenti possono trovare posto dentro l’attività economica. 

Tutte le società hanno bisogno di fare leva su tre principi diversi per potersi sviluppare in modo armonico ed essere quindi capaci di futuro: lo scambio di equivalenti, la redistribuzione della ricchezza, la reciprocità; anche se è vero che due soli di questi principi sono stati, volta per volta, incorporati nei modelli di ordine sociale storicamente succedutisi nel corso degli ultimi secoli. 

Con esiti sempre insoddisfacenti. 

Cosa succede infatti quando uno dei tre principi viene a mancare? 

Se si elimina la reciprocità si arriva al modello di ordine sociale basato sulla dicotomia stato/mercato: il mercato produce e lo Stato benevolmente ridistribuisce secondo un qualche canone di equità. 

Se si elimina la redistribuzione ecco il modello del capitalismo compassionevole (il welfare capitalism dell’esperienza americana). 

Ebbene, l’idea centrale dell’economia civile è quella di mirare ad un modello di ordine sociale nel quale tutti e tre i principi possano coesistere simultaneamente.

Si è così cominciato a capire che le persone non hanno solo bisogno di merci, ma anche di relazioni umane. 

Relazionale è il bene il cui vantaggio per il soggetto che lo consuma o lo usa dipende anche dal tipo di relazione che instaura con l’altro. 

L’amicizia, la fiducia, una certa organizzazione del lavoro sono altrettanti esempi di beni relazionali. 

Le proprietà intrinseche del bene che vado a consumare valgono a definire l’utilità che ne traggo; ma il bisogno insopprimibile di felicità che ciascuno si porta appresso può essere soddisfatto solo dalle relazioni intersoggettive che riesco a intrecciare con gli altri, con il mio ‘prossimo’. 

Ciò che le società umane ipertrofiche di questo scorcio di secolo stanno distruggendo non è il nostro pianeta, non è la terra; […] è piuttosto l’ambiente dell’uomo, il territorio, vale a dire il prodotto culturale del nesso inscindibile fra le comunità insediate ed il loro contesto locale.


Della gestione dei beni comuni territoriali

Riusciamo ora a comprendere perché né la gestione privatistica, né quella pubblicistica, dei beni comuni sono in grado di sortire gli effetti desiderati. 

Consideriamo, dapprima, la soluzione privatistica. 

Come noto, questa si appoggia sul meccanismo di mercato per giungere ad una allocazione ottimale del bene che si considera. 

Ma tale meccanismo presuppone che vi sia libertà di scelta sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta. 

Ora, nel caso di beni essenziali – si pensi all’acqua, all’aria, alle sementi, ecc. - mentre vi è libertà di vendere non vi è un’ analoga libertà di acquistare, ciò per l’ovvia ragione che i beni essenziali alla vita non hanno sostituti. 

Ne deriva che rendere artificialmente privati beni che sono comuni mina alla radice il funzionamento del mercato. 

In buona sostanza, la trasformazione dei commons in commodities, che il processo di privatizzazione comporta, non risolve affatto il problema, perché la tragedia dei commons non è un problema di diritti di proprietà, come si continua erroneamente a ritenere. 

Piuttosto è un problema di fallimento della governance, riguarda cioè l’allocazione dei diritti di controllo. 

Né la presenza di eventuali autorità pubbliche di controllo e di regolazione modificherebbe il giudizio. 

Che dire della pubblicizzazione? 

Nonostante le apparenze, anche questa è una via impervia, perché trasformerebbe un bene comune in un bene pubblico, stravolgendone la natura. 

La letteratura sui ‘government failures’ ci ha insegnato che l’ente pubblico, centrale o locale che sia, è afflitto nella sua azione da due morbi specifici: la burocrazia e il rent-seeking, cioè la ricerca della rendita. 

Sono questi fenomeni a rendere inefficiente la via della statizzazione, a prescindere dalle difficoltà di finanziamento. 

Ecco perché la soluzione comunitaria è quella che offre le maggiori chances di uscita dalla “tragedia dei commons”. 

Cosa manca, infatti, alle soluzioni privatistica e pubblicistica? 

L’idea di comunità. 

Se le persone che fruiscono del bene comune non riconoscono che esiste tra loro un legame di reciprocità, né il contratto sociale hobbesiano che affida al Leviatano il compito di scongiurare il rischio dell’escludenza, né l’individualismo libertario che affida alla coscienza dei singoli il compito della autolimitazione, potranno mai costituire soluzioni soddisfacenti al problema dei beni comuni; i quali sono a titolarità diffusa nel preciso senso che tutti devono poter accedere ad essi. 

Ne deriva che accesso e proprietà sono categorie affatto distinte – talvolta in conflitto tra loro – e ciò a prescindere dal fatto che la proprietà sia privata o pubblica. 

L’idea di base allora – per prima rigorosamente esplorata da Elinor Ostrom (1990) – è quella di mettere all’opera la creatività della società civile per inventare forme inedite di gestione comunitaria.

Il modello di gestione deve essere congruente con la natura propria del bene di cui si tratta: se questo è comune, anche la gestione deve esserlo.

Ebbene, adoperarsi, con una pluralità di azioni, affinché il territorio possa venire trattato alla stregua di un bene comune locale, è sicuramente un modo serio per contribuire a rimediare ai tanti danni  arrecati al nostro paese.

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