La decisione su chi ha la facoltà di definire il mondo e chi no, sta al cuore della crisi planetaria.
tratto da "Bruti: riflessioni sul falso mito dei silenti"; di Amitav Ghosh.
Chi è bruto e chi pienamente umano?
Oggi, raramente la parola bruto viene utilizzata come in passato.
Nessuno impiega questo aggettivo né per gli animali né, a maggior ragione, per riferirsi a persone o etnie.
Eppure, nonostante il suo significato originario sia ormai andato perduto nell’uso comune, i suoi derivati, come brutale e brutalità, sono diventati onnipresenti su internet, nei giornali e sugli striscioni che i manifestanti brandiscono per le strade sotto il grido di “Black Lives Matter!” – contro l’abuso di potere della polizia che è, chiaramente, il cuore pulsante delle proteste.
L’attuale ubiquità della parola brutalità non fa più riferimento al selvaggio o al semi civilizzato; si riferisce invece al meccanismo repressivo dello Stato e, prima ancora, della polizia.
Questa inversione di significato crea una parabola che lega la crisi planetaria direttamente ai processi di colonizzazione, schiavismo e guerra biopolitica.
Con il passare dei giorni emergono, dalla nebbia del passato, sempre più rapporti di correlazione storica che legano, ad esempio, l’attuale violenza della polizia a quella delle pattuglie che presidiavano le piantagioni nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo.
Ogni giorno vedo riferimenti al 1619, anno in cui i pirati Inglesi portarono la prima nave carica di schiavi in Virginia.
Ogni giorno le notizie parlano di statue di mercanti di schiavi e di generali di Stati Confederati d’America abbattute.
Guardo con ammirazione i filmati di una protesta a Bristol, in Inghilterra, la quale finisce con il lancio in mare, nello stesso mare dal quale le sue navi salparono, della statua di un mercante di schiavi, responsabile di aver schiavizzato più di ottantaquattromila africani.
Assisto alla decapitazione della statua di Cristoforo Colombo e mi torna in mente la furia omicida del secondo viaggio ai Caraibi dell’Ammiraglio, quando le sue truppe erano sbarcate ed avevano poi ucciso indiscriminatamente, come per sport, qualsiasi animale e uccello e Nativo Americano che incontravano, "saccheggiando e distruggendo tutto ciò che trovavano", come Fernando, figlio dell’Ammiraglio, ha descritto con inquietante spensieratezza.
Mi ricordo anche che questo viaggio portò il virus dell’influenza nelle Americhe e che Colombo stesso si ammalò, sull’isola di Hispaniola.
Mentre era a letto malato, i suoi soldati scatenarono la loro furia omicida la quale, insieme alla malattia, uccise più di cinquantamila isolani.
Una volta ripresosi, Colombo riunì diverse migliaia di truppe armate, la cavalleria e molti cani addestrati all’attacco.
Il suo esercito avanzò occupando la campagna, incombendo sulle masse assembrate di nativi malati e disarmati, trucidandone migliaia.
Sono anche affascinato dai filmati di una protesta, organizzata insieme dai movimenti Black Lives Matter e “Rhodes Must Fall”, diretta alla rimozione della statua di Cecil Rhodes da un college dell’Università di Oxford.
Il rettorato aveva precedentemente liquidato queste richieste sostenendo che quella statua fosse “una testimonianza delle complessità della storia e dell’eredità del colonialismo” – una posizione assurda, poiché la statua stessa riduce la complessità della storia alla figura di un colonizzatore.
La protesta di Oxford è partecipatissima, molto più del previsto, così come lo sono altre proteste che reclamano la rimozione di statue simili.
Ciò sembra confondere alcuni opinionisti, anche i più simpatizzanti, poiché faticano a comprendere come le proteste contro la polizia siano sfociate nella distruzione delle statue.
Perché invece non concentrarsi sui “risultati delle politiche”?
Perché scomodarsi per dei relitti del passato?
Come fa la storia a importare così tanto? Rimuovere una statua, dicono alcuni critici, non cambierà nulla.
Ciò che i critici non vedono è che le lotte riguardo le statue sono lotte di significato e, cambiare il significato che si attribuisce a qualcosa, significa cambiare tutto – proprio perché gli esseri umani non sono dei bruti.
A prescindere da ciò che il movimento Black Lives Matter otterrà o meno in futuro, è già riuscito a rendere manifesta la pressante attualità del passato.
Ci ha mostrato che l’indifferenza verso la storia, che un tempo era considerata una caratteristica propria della cultura americana, non è altro che un falso mito elitario.
I Nativi Americani e gli Afroamericani non sono mai stati indifferenti verso il passato; a maggior ragione poiché hanno dovuto fare i conti con questa violenza sistemica nel loro quotidiano.
Ogni protesta è una rivendicazione di come la crisi planetaria affondi le sue radici nel passato e, dunque, di come quest’ultimo sia la lente attraverso la quale è necessario guardarla al fine di comprenderla davvero.
La “Storia”, lungamente utilizzata come strumento di assoggettamento, è straripata fuori dagli argini delle aule di scuola e dei musei ed è dilagata nelle strade.
Ironicamente, è lo stesso razzismo insito nella stilatura della Storia, come evidenziava Immanuel Wallerstein, che ne è la causa.
La Storia intesa come cronaca dell’ascesa trionfante dell’uomo occidentale, ha fornito lei stessa la leva per il suo proprio ribaltamento.
È la prova che l’umanità possiede la capacità di rigenerarsi attraverso la comprensione empatica.
In questo frangente, alla vista della parabola che ha portato l’umanità sull’orlo di una catastrofe planetaria, siamo obbligati a riconoscere che la nostra attuale condizione è diretta conseguenza del modo in cui una piccola minoranza, di fatto, ha deliberatamente silenziato altre, facendole passare per bruti, per creature la cui presenza sulla Terra è puramente materiale.
Ma i bruti hanno cominciato a “debrutizzarsi”.
Un’amara ironia vuole che questo processo evolutivo da bruto ad essere umano, da parte delle classi medie non occidentali, sia avvenuto ripetendo, e addirittura esasperando, il processo di riduzione degli umani a bruti che aveva caratterizzato le conquiste coloniali dell’Europa.
In India, negli ultimi tre decenni, i credi, le pratiche e mezzi di sostentamento delle popolazioni delle foreste sono finiti sotto attacco come mai visto prima.
In una grottesca imitazione degli orribili trattamenti riservati alle popolazioni indigene da parte dei coloni, sempre più foreste sono state sacrificate alle industrie minerarie e del turismo; a volte con il sostegno complice di conservazionisti discriminatori, i quali si schierano a favore della rimozione coatta degli abitanti delle foreste nel nome dell’ecologia.
Le montagne sacre a questi abitanti sono state sconsacrate, le loro terre sono state invase da dighe e i loro credi e rituali ridotti a “superstizioni primitive”, esattamente come usavano dire gli amministratori delle colonie, gli scienziati e i missionari dell’epoca.
Nel replicare le pratiche dei colonialisti, si è arrivati addirittura a togliere i bambini alle loro comunità native, spedendoli in collegi.
Ma altri esseri viventi e altre forze del pianeta – batteri, virus, ghiacciai, foreste, correnti d’aria – si sono anch’esse manifestate, conquistandosi la nostra attenzione con un clamore tale da non poter più essere ignorate o trattate come attributi di una terra inerte.
Gli alberi popolano la Terra da molto più tempo degli esseri umani, e la durata della loro vita, molto spesso, è di gran lunga maggiore rispetto a quella umana: alcuni vivono per migliaia di anni.
Visto con un’altra lente temporale, diventa altrettanto concepibile che siano gli alberi a coltivare gli umani.
O magari le cose non stanno affatto così...
Dopotutto, tra alberi e umani non v’è – o quantomeno non soltanto – concorrenza per lo spazio vitale.
Sono anche legati da innumerevoli forme di cooperazione.
Forse l’errore sta già nel concetto della singola specie.
È ormai noto che il corpo umano contiene un vasto numero di micro-organismi di varie tipologie; i biologi stimano che il 90% del nostro corpo sia costituito da batteri, piuttosto che cellule umane, e un microbiologo ha anche affermato che, visto al microscopio, il corpo umano somiglia a una barriera corallina, “un insieme di forme di vita che coesistono”.
“Sempre più spesso”, afferma un team di biologi, “la simbiosi sembra essere la ‘regola’, non l’eccezione…
Sembra che la natura stia selezionando le ‘relazioni’ piuttosto che i singoli individui o i genomi”.
Molti organismi nascono sprovvisti dei batteri di cui avranno bisogno per raggiungere la maturità; serve, perciò, che li incontrino nel mondo – e senza questi incontri non possono realizzare appieno il loro potenziale.
Non potremmo affermare anche di Homo sapiens, che la presenza di certe altre specie, in determinate occasioni, ci ha permesso di trascendere i nostri limiti?
Milioni di buddisti ritengono da tempo che un incontro interspecie, in uno specifico momento storico, è stato fondamentale per l’Illuminazione di un essere umano in particolare, il principe Siddhartha Gautama.
Tra gli esseri umani, è sempre esistita la consapevolezza della possibilità di simili incontri interspecie; basti pensare a San Francesco d’Assisi e alla storia del lupo mangiauomini di Gubbio.
Il modo di ragionare attuale richiede che chiunque affermi di aver comunicato con esseri non umani fornisca le prove di queste interazioni: se non è qualcosa di utile né di verificabile è "solo una storia.”
Ne consegue, quindi, che se queste voci non umane devono essere riportate allo stato che a loro spetta, questo deve accadere, in primo luogo, proprio attraverso il mezzo delle "storie".
Come tutte le più importanti imprese artistiche nella storia umana, questo compito è allo stesso tempo estetico e politico e adesso, a causa dell’enormità della crisi che affligge il pianeta, è caricato della più pressante urgenza morale.
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