tratto da "Riflessioni intorno alla svolta ontologica in antropologia"; di M.Benadusi.
Negli ultimi anni il dibattito antropologico intorno a “come i nativi pensano” e “ciò che è possibile pensare rispetto a umano e non-umano" si è andato arricchendo di vari contributi, sia teorici che etnografici.
Il tratto principale che unisce questi lavori è il tentativo di inquadrare i diversi modi di identificazione e relazione che legano i collettivi umani a un mondo non-umano di cui fanno parte animali, piante, agenti spirituali, risorse energetiche e tecnologie moderne, per citare solo alcuni dei possibili gruppi di esistenti.
Un dibattito animato non solo da esigenze conoscitive, ma anche da istanze etiche e politiche nate in risposta all’intensificarsi di crisi ambientali e disastri “naturali” nel mondo e alla recrudescenza delle disuguaglianze sociali dovuta al neoliberismo.
Già sul finire degli anni Novanta del XX secolo, in ambito antropologico sono emersi vari tentativi di decolonizzare il pensiero occidentale modernista, il cui carattere “antropocentrico” si era esplicitato mediante dualismi concettuali duraturi e pervicaci come quelli tra natura e cultura, natura e società, oggetto e soggetto.
Tra i maggiori protagonisti di questo dibattito compaiono autori quali Philippe Descola, Bruno Latour, Eduardo Viveiros de Castro, che in modo diverso hanno proposto un allargamento dello sguardo antropologico “oltre” i confini conoscitivi legati al mondo umano.
L’antropologia ha cercato così di rilanciare l’interesse verso tutti quei collettivi concepiti e formati grazie alle relazioni tra l’uomo e gli altri agenti nel globo, documentando modi di abitare il mondo dove il rapporto ontologico tra natura e cultura prendeva forme non dicotomiche, a seconda dei casi definite “sostanzialiste”, “relazionali”, “simmetriche”, per loro natura “ibride”.
La svolta al plurale
Philippe Descola, Viveiros de Castro e Bruno Latour.
Una delle più note e dibattute proposte di un’antropologia delle relazioni tra umano e non-umano in seno alla cosiddetta svolta ontologica è associata al nome di Philippe Descola, che ha messo a confronto i modi in cui le popolazioni indigene sviluppano identificazione e relazione rispetto a piante e animali con le concezioni occidentali inerenti il mondo non-umano, proponendo di andare al di là delle distinzioni categoriali summenzionate (Natura/Cultura, Natura/Società).
Nello specifico, in "Oltre natura e cultura" (2014) Descola identifica quattro modelli ontologici – animismo, totemismo, naturalismo e analogismo – che permettono di descrivere le strutture dell’esperienza alla base dei principali sistemi cosmologici presenti sulla Terra.
L’autore attinge a un ricco repertorio di materiali etnografici, dalle «foreste lussureggianti dell’Amazzonia alle lande ghiacciate dell’artico canadese», per mostrare il carattere relativo e storicamente determinato della moderna
cosmologia naturalista.
La logica dualista su cui si sorregge il naturalismo occidentale viene così ridimensionata nella sua aspirazione all’universalità e posta al fianco di altri modelli ontologici, altrettanto strutturati e degni di attenzione, che non si fondano su una netta demarcazione tra umani e non umani, ma anzi poggiano su molteplici forme e gradazioni di continuità tra gli esistenti (inerenti tanto la loro fisicità quanto l’interiorità).
Viveiros de Castro, dal suo canto, grazie a una ricca analisi della metafisica cannibale da lui chiamata “perspettivismo”, aiuta a definire i modi attraverso cui le popolazioni amerindie attribuiscono proprietà soggettive (soprattutto l’intenzionalità) oltre che agli animali e agli spiriti anche a ciò che si manifesta come “oggetto” agli occhi di tanti Occidentali.
Nel comparare in maniera contrastiva la cosmologia popolare moderna e quella amerindiana, Viveiros de Castro mostra come esse siano informate da epistemologie radicalmente differenti: “costruzionista” quella dei moderni, secondo cui è il punto di vista a creare l’oggetto perché conoscere è oggettivare, e di tipo “sciamanico” quella delle popolazioni amerinde, dal momento che, in questo caso, conoscere equivale a soggettivare; perché il punto di vista crea il soggetto, non l’oggetto della conoscenza.
Sintetizzando, non è più praticabile un’antropologia che stabilisca in anticipo un singolo problema “naturale” (o universale), indagando poi quali soluzioni “culturali” (o relative) siano state proposte per risolverlo ai diversi angoli del mondo; bensì solo un’antropologia che metta in relazione problemi e soluzioni differenti nel gestire le relazioni tra umani e non umani, un’antropologia che l’autore definisce “multi-naturalista”.
All’interno della cosiddetta svolta ontologica, accanto agli approcci di Descola e Viveiros de Castro, una posizione centrale ricopre anche la prospettiva etico-politica di Bruno Latour.
Da intellettuale eclettico qual è, Latour cerca di ritracciare i “modi di esistenza” che, di volta in volta, vengono a svilupparsi tra il mondo umano e non-umano quando sono in gioco le cosiddette “politiche della natura”, che – sempre più marcatamente influenzano la vita sulla Terra all’epoca dell’Antropocene.
Praticando una sorta di antropologia critica di Noi moderni (Latour 2009, 2013), Latour prende di mira soprattutto l’economia capitalista e la fede nel progresso tecnologico, suggerendo di “ecologizzare” la pluralità degli esistenti come antidoto alla modernizzazione.
La sua proposta tende a concettualizzare in senso ecologico le molteplici forme di esistenza e agentività presenti sul globo.
Quasi in una sorta di “teologia politica”, il compito dello scienziato sociale coinciderebbe, secondo Latour, con un’azione di ricomposizione capace di mettere nuovamente insieme, “pezzo per pezzo”, le possibili associazioni tra umani e non umani nel mondo, proprio come farebbe una formica (qui l’autore gioca con la parola inglese ant, che coincide con l’acronimo dell’Actor-Network-Theory), piccolo essere senziente che procede lungo sentieri faticosi, senza scorciatoie.
In sostanza, affinché la nostra relazione con la Terra non si perda nella distanza, in una discontinuità progressiva tra umani e non umani, Latour propone di operare un riavvicinamento concettuale basato sui metodi dell’ANT: senza lasciarsi travolgere dalla scala dei problemi ambientali cui siamo chiamati a rispondere e dalla frammentarietà degli strumenti a nostra disposizione, demiurghi tra gli altri dovremo collaborare a una politica della natura intesa come costruzione di un “mondo comune”.
Conflitti ontologici
Alcuni protagonisti del dibattito sulla svolta ontologica in antropologia hanno espresso negli anni l’esigenza di superare quello che considerano un limite attribuibile soprattutto al pensiero di Philippe Descola: la sua tendenza a rimuovere la dimensione politica che si manifesta negli incontri tra sistemi ontologici diversi.
Una dimensione che invece non può essere elusa quando sul campo gli antropologi si confrontano con conflitti economici e sociali per l’uso di risorse naturali o con rivendicazioni in difesa di luoghi e territori alienati o seriamente minacciati.
È sotto gli occhi di tutti che alcune aree del mondo sono particolarmente provate dall’avanzata dello sfruttamento neoliberista, da manovre di land e green grabbing, da progetti di estrazione petrolifera e mineraria, a volte di riconversione industriale, oppure da colossali interventi di sviluppo che portano a sradicare foreste, costruire infrastrutture, ponti, dighe, delocalizzare popolazioni, distruggere soggetti reattivi come esemplari di flora e fauna per commercializzarli su scala globale.
Entriamo qui nell’ambito dei “conflitti ontologici” che vedono coinvolti una serie di antropologi, specialmente di area latinoamericana, nello studio di gruppi indigeni che rivendicano la valenza politica dello loro “ontologie”, alle quali vorrebbero fosse riconosciuta non solo un’innegabile diversità, ma anche un potenziale oppositivo rispetto a visioni del mondo egemoni che cercano di imporsi dall’esterno.
Un dibattito troppo ricco e complesso per essere ricapitolato con sufficiente pienezza in questa sede e, beninteso, animato anche grazie alle reazioni critiche e a volte propositive degli autori ai quali per primi è associata la svolta ontologica.
D’altronde, lo stesso Descola riconosce che la diversa organizzazione degli schemi di identificazione e relazione con la realtà possa essere il prodotto della dominanza di uno di questi (in particolare il naturalismo) sugli altri o della loro compresenza a volte non paritetica in alcune zone del pianeta.
Così come bisogna ricordare che a questo dibattito, talvolta dai toni accessi, hanno preso parte anche antropologi disallineati rispetto ai filoni di pensiero finora menzionati: Tim Ingold, Kim Fortun, Annemarie Mol, Eduardo Kohn, solo per citare alcuni nomi.
Al di là delle occasioni di dialogo che si sono verificate tra l’insieme di queste figure, bisogna convenire che dietro la sbandierata svolta ontologica si derubricano oggi approcci non sempre compatibili, alcuni dei quali mettono seriamente in discussione la possibilità di “ricomporre un mondo comune”.
Per alcuni questa sfida sarebbe minacciata dalle relazioni asimmetriche di scambio e di potere che si sono andate a produrre nelle diverse società nel corso del tardo industrialismo; altri arrivano perfino a sostenere che le distinzioni natura/società e soggetto/oggetto sono troppo significative dal punto di vista politico-economico, e troppo resistenti dal punto di vista ontologico, per potere essere liquidate con facilità.
D’altronde, sentimenti di biasimo verso la svolta ontologica per aver suscitato un movimento di “rinuncia alla critica” non sono per nulla sporadici tra gli antropologi.
In particolare l’antropologia “biosociale” di Ingold, i cosiddetti Science and Technology Studies nelle recenti declinazioni proposte da Fortun sull’ambientalismo informatico, e al campo “cosmopolitico” aperto dagli studi andini di Marisol de la Cadena.
La relazione umano/non-umano, insieme a questioni ecologiche come il cambiamento climatico, i disastri “naturali”, lo sfruttamento capitalistico di fonti energetiche e risorse alimentari, la radioattività, la riduzione della biodiversità, l’ingegneria genetica e la desertificazione sono questioni ecologiche che interessano in maniera sempre più pressante il pianeta.
Un novero di problemi immancabilmente legati a strategie politiche e stili di governo responsabili della nostra progressiva de-responsabilizzazione rispetto al futuro della vita sulla Terra.
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