Storicamente, la decrescita nasce dall’incontro tra due correnti di pensiero: l’ecologica politica e la critica dello sviluppo.
tratto da "Dirottare l'economia"; di Federico Demaria.
http://valderasolidale.it/dirottare-leconomia
A differenza dello sviluppo sostenibile, la decrescita non aspira a essere un paradigma universalista, ma una proposta di cambiamento radicale.
Sotto le sembianze di uno slogan provocatorio, la decrescita fornisce un quadro interpretativo (“frame”) per affrontare le molteplici e interconnesse crisi.
In altre parole, la decrescita vuol essere un’alternativa praticabile al binomio crescita-illimitatezza considerati i suoi limiti economici, sociali, ecologici, democratici ed antropologici.
A differenza dello sviluppo sostenibile, che è un concetto basato su un “falso consenso”, la decrescita non aspira a essere un paradigma universalista adottato come obiettivo comune dalle Nazioni Unite, l’OCSE o la Commissione Europea.
L’idea di “decrescita socialmente sostenibile”, o semplicemente decrescita, nasce come proposta di cambiamento radicale.
La decrescita è un tentativo di ripoliticizzare il dibattito sulla trasformazione socio-ecologica, in dissidenza con le rappresentazioni dominanti del mondo attuale e a favore della ricerca di immaginari alternativi.
La decrescita mette in discussione l’immaginario che sostiene il feticcio della crescita presente nel paradigma dominante dello sviluppo economico, che mercantilizza le relazioni tra individui e tra individui e natura.
Contemporaneamente, essa propone altri ideali (o immaginari) sociali, che non siano legati allo sviluppo, come la semplicità volontaria, la frugalità o il godimento della vita (enjoyment of life).
La decrescita è una visione per proporre un nuovo immaginario che implica un cambiamento delle culture e una riscoperta dell’identità umana libera(ta) dalle rappresentazioni economiche.
I due principali pilastri di questo processo di liberazione sono l’anti-utilitarismo e la critica dello sviluppo.
L’anti-utilitarismo si concentra nella critica dell’homo economicus, ovvero delle fondazioni antropologiche della scienza economica che vede la massimizzazione dell’utilità come motore ultimo del comportamento umano.
Questa critica è stata ispirata dal lavoro sul dono dell’antropologo Marcel Mauss negli anni Venti e poi ripresa negli anni ottanta da Alain Caillé ed i membri (incluso Serge Latouche) del MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales).
Altri autori spesso citati sono lo storico sociale ed economico Karl Polanyi e l’antropologo Marshall Sahlins.
La decrescita invita a più ampie visioni, che diano importanza alla convivialità e alle relazioni sociali basate sulla condivisione, il dono e la reciprocità.
La concezione degli esseri umani come agenti economici guidati dal proprio interesse personale (egoismo) e dalla massimizzazione dell’utilità è una rappresentazione del mondo, un costrutto sociale storico che ha meticolosamente nidificato nelle menti di molte generazioni di studenti di economia (e non solo).
Si fonda sulla supposizione che la crescita o il progresso dovrebbero essere in grado di continuare indefinitamente, dando per scontato che ciò renderà il futuro migliore.
Pertanto, è fondamentale comprendere come lo sviluppo (in modo simile all’utilitarismo) sia un concetto costruito all’interno di una particolare storia e cultura e, di conseguenza, una costruzione sociale che deve essere decostruita.
Chi ha il potere di definire quali siano i problemi sociali e come possano essere risolti?
Chi e come detiene lo scettro magico per definire la diagnosi, e poi la prognosi, dei problemi delle nostre società?
Ad esempio, se la questione della povertà viene inquadrata come mancanza di reddito, allora la soluzione diventa la crescita economica (evidente, necessaria e verità universale).
Semplificando all’estremo, potremmo dire che il XX secolo ha visto il passaggio dal colonialismo Europeo all’imperialismo anti-coloniale nord-americano.
Le categorie discorsive sono cambiate dalla relazione colonizzatore/colonizzato a quella sviluppato/sottosviluppato.
In realtà, nella sua essenza, il discorso coloniale si mantiene: il Nord come “avanzato” e “progressista”, mentre il Sud come “ritardatario”, “degenerato” e “primitivo”.
La data simbolica che segna questo cambio di paradigma è il discorso inaugurale del presidente americano Harry S. Truman del 1949 nel quale il ‘sottosviluppo’ viene presentato come una mancanza, e non come una conseguenza di circostanze storiche (ad es. colonialismo e sfruttamento); sottosviluppo per cui, nuovamente, la soluzione diventa: “un nuovo e coraggioso programma per rendere disponibili i benefici delle nostre scoperte scientifiche e del nostro progresso industriale, per il miglioramento e la crescita delle aree sottosviluppate”.
Si fondano le basi di un nuovo imperialismo guidato dagli Stati Uniti che, seppur traballante, domina ancora.
Le diseguaglianze rimangono giustificate e la redistribuzione della ricchezza non è quindi necessaria: attraverso lo sviluppo (inteso come crescita economica) la ricchezza può essere estesa a tutti sulla terra, rendendo così l’ingiustizia solo uno stadio temporaneo.
Si crea una unità di misura quantificabile che è il Prodotto Interno Lordo (PIL).
Per ricapitolare, con questo passaggio discorsivo lo “sviluppo” diventa un eufemismo per “egemonia Occidentale”, ovvero l’instaurazione di un modello unico fondato su un specifico sistema di conoscenza (quello occidentale).
Ora, qualcuno potrà chiedersi: ma come definire “sviluppo”?
La questione è complessa, perché il concetto è diventato una somma di aspirazioni virtuose (benessere, progresso, giustizia sociale…), e quindi difficile da confutare.
È una parola di plastica, o un parolone (buzzword), che non significa più niente se non quello che l’oratore desidera che significhi.
Lo sviluppo è diventato una credenza, ovvero una serie di convinzioni e verità indiscutibili.
Lo sviluppo è pertanto un castello inespugnabile dove il presunto ‘consenso’ sociale non accetta sfide sostanziali, mentre le critiche vengono rapidamente inghiottite con variazioni linguistiche (sviluppo umano, sviluppo sostenibile, etc).
Ma la realtà non cambia.
In natura, un embrione si sviluppa in un adulto maturo, che poi invecchia e muore.
Invece, una premessa delle società liberali moderne è la negazione di qualsiasi fine collettivo, nonché la negazione di qualsiasi cosa che non sia l’elevazione.
Lo sviluppo è permanente e non si raggiunge mai lo stadio della maturità.
Senza referente esterno, lo sviluppo diventa auto-referenziale: sviluppo per il bene dello sviluppo, il dispiegarsi di una predeterminata e non questionabile freccia del progresso senza fine verso l’orizzonte.
Per questo motivo, recuperare la parola ‘sviluppo’ appare impossibile, nonostante svariati tentativi di riattribuirgli un significato che non sia legato alla crescita economica (ad es. miglioramenti qualitativi invece che quantitativi, come propone Herman Daly).
Dobbiamo invece essere coraggiosi, sfidare i “limiti della nostra immaginazione” e proporre discorsi e narrazioni anti-egemoniche.
Il discorso e le sue categorie (come lo sviluppo), infatti, sono diventati una garanzia sufficiente del potere sociale per intervenire, trasformare e governare.
Per il potere costituito, la retorica è sempre preferibile alla violenza coercitiva, se serve al suo scopo di convincere la gente.
Per cui la rilevanza del linguaggio e delle parole non va sottovalutata.
In effetti, è impossibile sbarazzarsi di un mondo senza sbarazzarsi del linguaggio che lo nasconde e protegge, senza mettere a nudo la sua vera natura.
Teoricamente, al posto di decrescita avremmo potuto parlare di “de-sviluppo” (come alcuni attivisti e intellettuali latino americani parlano di ‘des-desarrollo‘).
Le motivazioni di questa nostra scelta sono molteplici e ve ne sono alcune che ci sembra importante menzionare.Primo, nei paesi industrializzati si parla più di crescita che di sviluppo.
Inoltre, la parola decrescita indica chiaramente l’intenzione di voler ridurre la produzione e il consumo.
Ad ogni modo, data la condizione di quasi sinonimi tra sviluppo e crescita, potremmo argomentare che decrescita significa de-sviluppo e viceversa.
In conclusione, la letteratura sulla critica dello sviluppo evidenzia la necessità tanto della decostruzione come della ricostruzione delle categorie discorsive.
In altre parole, bisogna non solo mettere in discussione lo sviluppo, ma anche la colonizzazione mentale che lo accompagna.
L’imperativo risiede nel decolonizzare l’immaginario e accettare la diversità di prospettive culturali.
Successivamente, sussiste la necessità della ricostruzione, il cosiddetto post-sviluppo che apre a un ventaglio di alternative (ad es. decrescita, buen vivir, ubuntu ed eco-swadeshi).
In parole semplici, liberare (o decolonizzare) il campo discorsivo per fare spazio a immaginari alternativi.
Ci sembra, infatti, che tra le sfide contemporanee più importanti ci sia quella di recuperare la libertà e il potere di immaginare e costruire significati e mondi diversi.
La libertà inizia con la decolonizzazione dell’immaginario mentre il potere, che trova nel linguaggio la sua casa, è (con le parole di Enrico Berlinguer) “uno strumento insufficiente ma necessario per realizzare i propri ideali”.
Prendiamo in considerazione la crescita verde e la green economy, come ultima frontiera dello sviluppo (sostenibile).
Prima di tutto, dovremo capire chi ha il potere di ridurre la complessità (ad esempio, di definire cosa sia “verde” o “sostenibile”).
In secondo luogo, comprendere come il potere si riproduce.
In questo quadro, il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni di marketing e di immagine”.
La diversità di spunti offre un buon esempio di come nel movimento della decrescita ci sia un accordo sulla diagnosi (qual è il problema e quali siano i suoi responsabili), mentre la prognosi rimane aperta a una molteplicità di proposte, strategie, attori e alleanze.
L’importante è perdere la paura
Possiamo iniziare a mettere in discussione il linguaggio, ovvero sfidare il potere con l’obiettivo di sovvertirlo.
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