Il mondo non si interpreta né si rappresenta come una macchina, bensì come una rete.

tratto dalla recensione di E. Leonardi e A. Barbero al libro di Fritjof Capra e Ugo Mattei: "Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni".

Occorre cambiare "visione del mondo"

"Da un mondo interpretato come una macchina a un mondo inteso come rete di comunità ecologiche".

Il nodo fondamentale da mettere in discussione è quello di una visione della natura dalla quale possiamo prelevare (predare) all’infinito; una natura che ci è totalmente esterna
Un paradigma che propugna il dominio dell’uomo sulla natura, postulando il concetto di “leggi di natura”, perfettamente oggettive e stabili nel tempo.
Questo si traduce, dal punto di vista giuridico, in una definizione della società come un "aggregato di individui distinti", e della proprietà come un "diritto individuale garantito dallo stato"
Secondo gli autori, proprietà e sovranità
sono i due concetti intorno ai quali si organizza tutta la visione moderna del diritto.
In questo senso il modo di produzione capitalista ha provocato una deriva storica fondamentale per la quale si è passati da "una situazione di abbondanza di beni comuni e scarsità di capitali, a quella odierna, per la quale si ha un eccesso di capitale e una carenza di beni comuni".
Tutto questo è un fatto di tipo culturale anche se, all’opposto, viene letto come naturale, privando così le persone del potere. 
I punti fermi del paradigma ruotano intorno a pochi concetti: "la sovranità dello stato e la proprietà privata alimentata dal denaro" (un’astrazione giuridica concentrata nelle mani di grandi gruppi bancari).

L’auspicato cambio di paradigma giuridico dovrà insistere sull’impellenza di una visione relazionale, da istituzionalizzare in coerenza con i principi che sostengono la vita in questo pianeta. 
La natura sostiene la rete della vita attraverso "principi generativi e non estrattivi". 

Gli autori affrontano la problematica di una documentazione storica delle "trasformazioni ideologiche che hanno portato ad abbracciare una chiave di lettura della realtà di tipo meccanicistico, a partire dalla scienza".
Con Galileo Galilei si è privilegiata la quantificazione spesso a scapito di elementi qualitativi, con Cartesio una visione del mondo materiale funzionante in modo simile ad una macchina, per di più esterna alla mente.
E se sovranità dello stato e proprietà privata individuale furono i pilastri della modernità giuridica, il merito andrebbe anche a Locke, in compagnia di Hobbes, in un'operazione parallela che accompagna una delle principali "fasi di accumulo del capitale". 
Intorno ai secoli XVI e XVII si attuò la 
piena convergenza tra scienza, diritto ed economia. 
Siamo di fronte a un mondo caratterizzato da abbondanti risorse comuni come foreste o risorse ittiche, alle quali fanno riscontro altrettante istituzioni comunitarie quali, per esempio, le gilde professionali. 
Istituti quali la proprietà privata individuale, le società per azioni e gli stati sovrani (nonché la libertà contrattuale in generale e la responsabilità per colpa), furono creati per "trasformare alcuni beni comuni in concentrazioni di capitale". 

Il diritto è così divenuto uno strumento del dominio dell’uomo sulla natura.

Il meccanismo sotteso a tutta questa serie di operazioni era connesso ad una lettura per la quale tutte le creature, eccetto gli umani, sarebbero vissute in uno “stato di Natura”.
È in questo contesto che si afferma il concetto della libertà di mercato, che si articola con la funzione dello stato come elemento regolatore.
Questa contingenza è, addirittura, ritenuta una "legge di natura". 
D'ora in poi la visione economica sarà una visione "distorta, di breve termine, lineare, riduzionistica e quantitativa". 
L’idea stessa di sviluppo è di tipo quantitativo e fa riferimento al concetto di “miglioramento” che risale anch’esso al XVII secolo. 
Stato e mercato sono elementi derivati del diritto creato dagli uomini (la specie umana), ma appaiono come elementi naturali.

Negli ultimi trent’anni, in ambito scientifico, si è cominciato a imporre un paradigma completamente diverso, di tipo olistico e relazionale; in questo ambito la comprensione della vita avviene tramite relazioni e modelli.
Occorre dunque un approccio di tipo sistemico: la vita è sostenuta attraverso processi di tipo generativo e non estrattivo. 
L’intero pianeta è un "sistema complesso in grado di autoregolarsi" e di comportarsi di fatto come un essere vivente. 
Il meccanicismo applicato all’evoluzione ci aveva restituito una natura in perenne lotta competitiva per l’esistenza, nascondendo così quegli elementi dimostratisi trainanti, quali la creatività e il costante emergere della novità.

Anche se il pensiero sistemico è in questo momento la punta più avanzata della ricerca scientifica, l’ambito economico-giuridico è invece solidamente ancorato al pensiero meccanicistico, che ci restituisce una visione della realtà a corto raggio incentrata sull’individuo, proprietario astratto e atomizzato. 
Questo “atomo” può godere del diritto individuale di proprietà della Terra, "estraendo valore dai beni comuni a scapito degli altri". 

Il diritto non è un corpo avulso e preesistente dai comportamenti che esso regola, il diritto dovrebbe essere sempre un processo di “commoning”. 
Gli elementi costitutivi del diritto saranno allora i beni comuni all’interno di una rete relazionale, non i singoli individui.

Se la scienza di avanguardia ha ormai abbracciato un modo di pensare sistemico, il modo di pensare “meccanico” è ancora, nel pensiero comune, il modo "giusto" di pensare.
Dimenticandosi che la scienza tutta opera per modelli, cambiandoli e adeguandoli, costruendoli intorno a ipotesi interpretative dei fenomeni, spesso si pensa che questi ultimi si manifestino in termini puri e non comunicanti. 
In realtà "tutti i fenomeni naturali sono interconnessi e le loro proprietà non sono intrinseche, ma derivano dal rapporto dei singoli fenomeni con gli altri". 
Anche parlare di "singolo fenomeno" sarebbe in definitiva un'astrazione.

Credenza assoluta era che un qualsiasi fenomeno complesso potesse essere spiegato riducendolo alle più piccole parti che lo compongono. 
Percorso questo che, nello stesso tempo, fa anche il pensiero giuridico, che "si sposta da un terreno consuetudinario ad uno promulgato e codificato", creando di pari passo gli esperti ai quali viene delegato lo sviluppo e l’interpretazione di leggi "sovrapposte al sapere frutto dei comportamenti reciproci che la comunità aveva intessuto". 
Relazioni per le quali le decisioni venivano prese in vista di quelle ulteriori che si potevano intraprendere in un ipotetico futuro e proiettate verso il bene comune.

Qui la connessione con la proprietà privata individuale diventa pregnante con un procedimento apparentemente sottile. 
Privata poteva essere quella proprietà che non apparteneva a nessuno (res nullius), non le cose appartenenti a tutti (res communes) come l’acqua, l’aria, oppure il mare, né le cose appartenenti alla città (res publicae). 
Ma tutto questo non era ben definito e le "terre bene comune" intorno alle città poterono essere progressivamente privatizzate da grandi aziende agricole schiavistiche. 
Il concetto di res nullius distinto da res communes permise questa appropriazione. 
In questo gioco delle parti, «al fine di legittimare l’appropriazione di terreni, schiavi e risorse, ben presto si affermò l’idea che la terra senza un privato proprietario non appartenesse a nessuno, piuttosto che essere di tutti». 
In questo contesto si innestano le polemiche sulle enclosures che segneranno la trasformazione del paesaggio agrario dell’Europa dal tardo Quattrocento, e dell’Inghilterra in particolare, dove il bisogno di recintare i pascoli per la produzione di lana da lavorare nelle prime fabbriche, sottrasse ai contadini le terre comuni, convertendo gli stessi in lavoratori salariati o in "esercito di riserva" della forza lavoro, in favore del capitale nascente.

Questa Rivoluzione affermò la totale sincronia tra concezione scientifica e diritto ed economia. 
Ma lungo il percorso di sviluppo dei modelli scientifici di descrizione dei fenomeni fisici ed organici, ad un certo punto, si presenta un paradosso
Per il "secondo principio della termodinamica", in un sistema isolato l’entropia (la misura del disordine) non decresce nel tempo. 
I processi fisici, cioè, si svolgono in una sola direzione, dall’ordine al disordine.
Questo presuppone un universo che si muove verso un disordine crescente, mentre le osservazioni evoluzionistiche nell’ambito della biologia ci restituivano sistemi sempre più ordinati e complessi. 
Ilya Prigogine si rese conto che la seconda legge si riferiva a sistemi chiusi, mentre i sistemi biologici sono sempre aperti a flussi di energia e materia. 
In biologia si afferma che gli organismi viventi sono realtà complesse non comprensibili tramite il solo studio delle loro parti: derivano il loro comportamento dalle interazioni e relazioni tra le parti stesse; si va dunque dagli oggetti alle relazioni, sconvolgendo così il paradigma dominante. 
Proseguendo nella ricerca emergono concetti quali "reti, flussi, sistemi non lineari". 
Sempre Prigogine parla di “strutture dissipative”; stabilità e mutamento di fatto coesistono, tanto che «la creatività – cioè la generazione di nuove forme – è una proprietà chiave di tutti i sistemi viventi» .

Ci si aspetterebbe, a questo punto, un adeguamento paradigmatico del diritto 
alla nuova visione sistemica e reticolare, ma "l’impostazione meccanicistica è di fatto profondamente correlata al modo di produzione capitalista", al quale rende un servizio prezioso. 
Il diritto si professionalizza eliminando ogni possibile residuo che faccia riferimento a elementi consuetudinari provenienti dal basso, producendo "l’esproprio di un bene comune importante, quello del proprio ordine giuridico".  
L’assurdo sta nel fatto che l’esito di un 
conflitto legale non è determinabile con certezza, come afferma invece la visione 
meccanicistica.
È in gioco un "dispositivo del consenso basato su crescita, innovazione, modernizzazione", dove la ricchezza è misurabile soltanto attraverso il denaro. 
Per questo si accetta di lavorare “sodo” e vendere il proprio tempo per ottenere un salario con il quale partecipare ai processi di accumulo e di consumo. 
Secondo tale concezione, per esempio, "il lavoro domestico di cura dei bambini e degli anziani o la produzione del proprio cibo, la realizzazione artigianale dell’abbigliamento o la costruzione del proprio tetto non contano come produzione; non creano ricchezza né contribuiscono al prodotto interno lordo, poiché si verificano al di fuori di una transazione di mercato"
Tradotto in altri termini, diventa un'occasione offerta al capitale per "mettere sul mercato il lavoro di riproduzione, come servizio dal quale riuscire ad estrarre ancora profitto".

Cosa si dovrebbe fare?

Gli autori cercano e propongono delle risposte: «separare il diritto dal potere e dalla violenza, far diventare le comunità sovrane e rendere la proprietà generativa».
Il diritto dovrebbe essere, per esempio, considerato un "processo continuamente negoziato di creazione di connessioni culturali". 
Servirà fare resistenza con il boicottaggio e l’elaborazione di nuove dottrine della responsabilità; lottare contro la proprietà intellettuale e recuperare beni in degrado, anche tramite strutture giuridiche quali i community land trust.
«Il diritto di proprietà può essere strutturato in maniera tale per cui i proprietari assenteisti perdano i propri diritti a favore di occupanti che coltivino attivamente la terra». 
Bisognerà infine rovesciare certi assunti, dichiarando che: "lo stato è un'istituzione legittima nella misura in cui è in grado di proteggere la comunità dall’uso estrattivo della proprietà privata". 


tratto da "Il Comune e il Capitale"; per una bibliografia ragionata di ecologia politica.


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