I Beni Comuni incorporano un sistema di relazioni sociali basato sulla cooperazione e sulla partecipazione; l’esatto contrario dell’individualismo proprietario competitivo, su cui si fonda il sistema capitalista.

tratto da "I beni comuni e la crisi, il pensiero di Elinor Ostrom"; di Giovanna Ricoveri.                                                        

https://sindacalmente.org/content/i-beni-comuni-e-la-crisi-g-ricoveri-il-pensiero-di-e-ostrom-nobel-20091

Elinor Ostrom ha dimostrato che le comunità, intese come l’insieme degli appropriatori e degli utilizzatori delle risorse collettive sono in grado, ‘in certe condizioni’, di gestire essi stessi le risorse naturali in modo soddisfacente per se stessi e duraturo nel lungo periodo per le risorse.

Per “certe condizioni”, Ostrom si riferisce alla conoscenza, alla fiducia e alla comunicazione tra i componenti di una comunità; alla esistenza di sistemi di regole o istituzioni già consolidate sul territorio; e alla non interferenza di un’autorità esterna come lo Stato. 

La Ostrom fuoriesce dagli aspetti dogmatici e totalizzanti del modello dell’homo oeconomicus e dell’individualismo proprietario. 

Nella seconda metà del secolo scorso, quando la Ostrom si affacciava sulla scena, l’approccio dominante in materia di teoria dell’azione collettiva e di beni comuni corrispondeva a quello descritto da Garrett Hardin, il biologo statunitense, nel saggio pubblicato nel 1968 sulla rivista Science, “The tragedy of the Commons”. 

La tragedia era il degrado dell’ambiente, che per Hardin era inevitabile quando molti individui utilizzano in comune una risorsa (l’esempio da lui fatto è un pascolo, dove i pastori portano le pecore a pascolare). 

Hardin concludeva il suo ragionamento sostenendo che l’unico modo per evitare la tragedia era la privatizzazione della risorsa o la sua proprietà pubblica, nel solco della contrapposizione novecentesca Stato-Mercato, che si stava spostando – quando la Ostrom ha iniziato il suo lavoro – a favore del mercato, come si evince dalla nota frase del Presidente Usa Ronald Reagan: “lo Stato è il problema, non la soluzione”. 

La critica principale che la Ostrom muove a Hardin è che i beni comuni naturali (i commons) non sono spazi e risorse in regime di libero accesso, ma spazi e risorse ben definite, auto-gestite da un gruppo limitato di persone, sulla base di precise regole o istituzioni derivanti dal diritto consuetudinario, che la Ostrom ha studiato e descritto in grande dettaglio (nel quarto capitolo di Governare i beni collettivi).

Regole o istituzioni, che i membri della comunità conoscono e sono in grado di fare rispettare da tutti i componenti del gruppo, applicando sanzioni predefinite a coloro che non le rispettano.

La critica alla tesi di Garrett Hardin, continua la Ostrom, è suffragata dagli studi di caso documentati in letteratura già allora, una parte dei quali da lei raccolti e analizzati nel libro citato.

Questi studi dimostrano che in tutti i paesi e in tutte le culture esistono istituzioni collettive, e cioè insiemi di regole condivise, che hanno permesso alle comunità locali di auto-gestire sistemi di risorse ambientali complessi, in modo efficiente e sostenibile per periodi molto lunghi, talvolta per millenni; molti di questi sistemi sono ancora operanti.

Il secondo modello che la Ostrom presenta e contesta, è ‘il dilemma del prigioniero’. 

Nella versione più semplice il modello prevede che due persone accusate dello stesso reato seguano entrambe una strategia difensiva non cooperativa, che è razionale dal loro punto di vista individuale ed è invece irrazionale e perdente dal punto di vista di entrambe le persone. 

Di fronte alla scelta di tradire o cooperare, e in assenza di comunicazione, il prigioniero razionale non può che tradire, mentre sarebbe meglio cooperare: entrambi i prigionieri denunciano l’altro, e sono pertanto entrambi condannati. 

La principale critica della Ostrom, in questo caso, si incentra sulla mancanza di comunicazione tra i prigionieri, e infatti la comunicazione tra i componenti di una comunità è una delle regole più importanti per la buona riuscita dell’autoregolamentazione.

Il terzo modello è quello del free ride, secondo cui “gli individui che fanno parte di un gruppo con interessi comuni non agiscono volontariamente in modo tale da favorire tali interessi” perché sono dominati dall’egoismo e incapaci di comportamenti razionali. 

Agiscono invece come free riders, sfruttando gratuitamente gli sforzi collettivi degli altri, senza contribuirvi. 

La Ostrom ammette che alcuni membri di un gruppo possano comportarsi in modo egoistico, ma nega che questo sia necessariamente vero per tutti i membri di un gruppo, e lo nega anche in base alla osservazione ricavata dagli studi empirici dai quali emerge che la realtà è molto più varia di quanto i modelli possano esprimere.

A conclusione dell’analisi sugli studi di campo, la Ostrom è arrivata a definire Otto Principi Progettuali, che non sono “leggi”, ma le coordinate dell’auto-gestione cooperativa delle risorse naturali collettive. 

  1. Chiara definizione fisica dei confini della risorsa collettiva; 

  2. Congruenza tra le regole di appropriazione e di fornitura e le condizioni locali; 

  3. Metodi di decisione collettiva; 

  4. Controllo dei sorveglianti sia sulle condizioni d’uso della risorsa collettiva che sul comportamento degli appropriatori;

  5. Sanzioni progressive; 

  6. Meccanismi di risoluzione dei conflitti; 

  7. Riconoscimento del diritto ad organizzarsi da parte degli appropriatori, e cioè la non interferenza di autorità governative esterne; 

  8. Organizzazione su più livelli dell’uso di risorse collettive facenti parte di sistemi più grandi, in modo di ridurne la complessità e permettere che gruppi relativamente piccoli di persone possano auto-gestire il problema: è più facile infatti risolvere un problema quando ci si conosce di persona e si ha fiducia reciproca.

“Invece di una sola soluzione a un solo problema, sostengo che esistano molte soluzioni per far fronte a molti problemi diversi tra di loro. 

Le soluzioni istituzionali ottimali non possono essere progettate facilmente e imposte a basso costo da autorità esterne; la ‘messa a punto delle istituzioni’ è un processo difficile, lungo e conflittuale…che richiede informazioni affidabili sulle variabili temporali e ambientali, nonché un vasto repertorio di regole accettabili dal punto di vista sociale e culturale”.

Se realizzata, la strada da lei tracciata risolverebbe in larga parte il problema del sovrasfruttamento delle risorse comuni, modificando l’impianto teorico e pratico del sistema dominante, che è gerarchico e burocratico. 

In quanto gerarchico, non tiene conto delle persone “senza potere e senza proprietà” che considera incapaci, e questo pone un grande problema di democrazia reale. 

In quanto burocratico, spreca le risorse naturali, quelle umane e quelle economiche e provoca così un aumento ingiustificato di spesa pubblica a carico dei cittadini, pur non essendo in grado – molto spesso - di risolvere i loro problemi.

I beni comuni e la crisi 

Negli ultimi due-tre decenni, e in particolare dopo Seattle e l’emergere del movimento dei movimenti, i beni comuni sono riemersi dalla notte dei tempi, dopo due-tre secoli di ostracismo praticato dai governi di tutto il mondo per cancellarli, perché considerati un retaggio del passato che ostacola la “modernizzazione” dell’economia e della società. 

In risposta al neoliberismo e all’enfasi sull’individualismo avido e narcisista dell’ arricchitevi,  la voglia di comunità e di condivisione è ritornata: la crisi finanziaria ha favorito questo ritorno, perché è diventato chiaro alla maggioranza della popolazione – anche se non ai governanti né alla maggioranza degli economisti - che dalla crisi del sistema dominante non si esce né con meccanismi di ingegneria finanziaria, né con politiche di austerità, né con il rilancio della crescita basata sull’economia dei consumi di massa. 

I beni comuni incorporano un sistema di relazioni sociali basato sulla cooperazione e sulla partecipazione, che è l’esatto contrario dell’individualismo proprietario competitivo, su cui si fonda il sistema capitalista: ma solo i beni comuni naturali sono “sistemi di sostegno della vita” (life support systems), che nessun laboratorio può produrre o riprodurre. 

Se la terra fertile scompare perché cementificata e inquinata - come sta avvenendo a un ritmo sempre più veloce - la sicurezza alimentare è a rischio e con essa l’esistenza della vita sulla terra. 

Avere trascurato il vincolo della natura, soprattutto in questa fase storica di crescita sostenuta della popolazione mondiale e di forte pressione sulle risorse naturali, ha permesso alle grandi multinazionali – e ai governi e alla finanza che le sostengono - di realizzare un modello di produzione e di consumo che massimizza il profitto, mentre saccheggia la natura e depotenzia i lavoratori, rendendoli dipendenti dal salario e quindi dalle scelte delle imprese. 

Le comunità - che sono il soggetto diverso nel tempo e nello spazio, interessato e capace di usare le risorse naturali senza distruggerle - hanno perso ogni diritto, a cominciare dal “diritto ad avere diritti” per usare una frase famosa coniata da Hannah Arendt .

La natura e le comunità sono state negate ma non per questo sono scomparse. 

La loro negazione ha prodotto tuttavia conseguenze molto pesanti, cresciute in modo esponenziale con l’aumento dei consumi di massa e con la crisi ecologica. 

Conseguenze che consistono nel sovrasfruttamento e nello spreco legalizzato delle risorse naturali da parte delle multinazionali, protette dalla forza della legge e dagli Stati, e nella rottura del legame sociale, che è alla base della convivenza. 

Il saccheggio della natura sta distruggendo la terra, la nostra casa comune; mentre la destrutturazione del legame sociale favorisce l’imbarbarimento della vita sociale. 

La cosiddetta modernità svela così la sua faccia nascosta di sopraffazione e di violenza, rivelandosi per quel che è veramente, un pregiudizio progressista. 

Come sostiene Elinor Ostrom, il dilemma dei beni collettivi può essere affrontato - e in buona parte risolto – lasciandone la gestione alle comunità, e cioè alle persone che usano quelle risorse e che sono quindi interessate a non distruggerle. 

Ma questo è possibile solo a ‘certe condizioni’, quali il riconoscimento delle comunità e la non ingerenza dello Stato, che si sovrappone alle persone appropriandosi di scelte che non è in grado né di fare né di far rispettare.


Commenti