tratto da "L'era degli scarti" (cap. III); di Marco Armiero.
Il Wasteocene è fatto di carne, materia, corpi.
Tanto l'Antropocene appare astratto e globale, quanto il Wasteocene ci riorienta sempre verso le specificità di luoghi, storie e persone.
Tuttavia il Wasteocene è un fenomeno profondamente planetario, nella sua portata come nei contenuti, che riesce meglio di altre narrazioni a rivelare la misura in cui le questioni globali sono intrecciate a corpi, ecologie e vicende particolari.
Napoli è da tempo considerata una delle tante porte che introducono al Wasteocene, una città dove esso viene odorato e respirato.
Negli ultimi due secoli, Napoli è stata un grande laboratorio a cielo aperto per le analisi di scienziati e intellettuali, nonché sede di esperimenti sociali e politici.
Le epidemie sono sempre state evidenti irruzioni nel Wasteocene: gridavano forte e chiaro come corpi, potere e rifiuti fossero collegati da precise relazioni socioecologiche.
Irruzioni come le epidemie nella normalità del Wasteocene, possono far scoprire la verità sulla normalità delle "wasting relationships".
Le epidemie di colera del 1884 del 1973 furono altrettante epifanie del Wasteocene, momenti rivelatori che confermavano non soltanto la sporcizia della città ma anche la sua profonda alterità.
Dopo l'epidemia del 1884, Matilde Serao descrisse quello che chiamò il "ventre di Napoli" come un luogo che affondava nei rifiuti, dove tutte le moderne barriere che separano gli umani e i loro spazi quotidiani da ciò che è impuro, erano cancellate.
Il colera è un indice infallibile di destituzione e squallore, di abitazioni sovraffollate, di incuria sanitaria, di reti fognarie che non funzionano e di mani non lavate.
Le epidemie, come ogni altra emergenza spettacolare, offrono una visione speciale del Wasteocene, perché, mentre lo scarto abituale di persone e di luoghi è normalizzato e reso invisibile, le situazioni eccezionali impongono di cercare "soluzioni".
Ma queste soluzioni ambiscono soltanto a ripristinare la norma del Wasteocene, piuttosto che a cambiarla completamente; non è molto diverso dal discorso dell'Antropocene e della reificazione delle emissioni di CO2: "cercare soluzioni alla cosa non significa smantellare le relazioni socioecologiche che per prime l'hanno creata".
L'epidemia di colera del 1884 è un esempio da manuale di questo discorso.
Come sempre con il Wasteocene, dare la colpa alle vittime è fondamentale per controllare l'emergenza, mantenendo intatta la norma sottostante.
I poveri di Napoli facevano parte delle ecologie contaminate che generavano le epidemie; la sporcizia tutt'intorno ne permeava i corpi e le anime, producendo comunità degradate, malate ben oltre l'effettivo contagio biologico.
Il problema non era recedere dalle wasting relationships ma controllarle, per essere sicuri che l'ordine alterizzante che dovevano imporre non esplodesse, cancellando i confini fra le discariche sociali designate e il resto della città.
La politica di sanificazione seguita all'epidemia del 1884, prese di mira soprattutto la popolazione subalterna che viveva nelle aree più degradate della città: queste persone e le loro case cadenti dovevano andarsene, per fare spazio ai moderni edifici della classe media.
Con oltre 35.000 indigenti espulsi dai quartieri sanificati, la politica che seguì all'epidemia di colera del 1884 fu una deportazione su scala massiccia: le misure dovevano ristrutturare le wasting relationships, nascondendone le crude conseguenze.
Le wasting relationships avevano prodotto luoghi e persone di scarto, dividendo lo spazio urbano tra i quartieri puliti e salubri delle classi medio-alte e gli ambienti inquinati e malati dei poveri: lo sventramento di Napoli fu una restaurazione dell'ordine del Wasteocene, più che un suo radicale cambiamento.
Lo conferma il fatto che, dopo il colera del 1884, la città subì altre epidemie.
Era il 1973 e Napoli, di nuovo, era teatro di un'esplosione del morbo, dimostrando ancora una volta l'incerta appartenenza della città al mondo moderno e immunizzato.
Ancora una volta l'epidemia portò alla luce l'invisibilizzazione e la normalizzazione delle relazioni del Wasteocene, rivelando strutture sistemiche e persistenti: era la punta di un iceberg di relazioni socioecologiche ingiuste, che producevano persone e luoghi di scarto.
Un tipo di violenza lenta e difficile da tracciare, perché le conoscenze scientifiche sono incerte e le diseguaglianze di potere rendono tutto ancora più complicato, dal momento che le comunità coinvolte non hanno il genere di risorse necessarie a dimostrare le connessioni causali tra le specifiche fonti di tossicità e i problemi di salute.
Tuttavia, non dovremmo mai sottovalutare il significato di una violenza che, mentre potrebbe sembrare invisibile alla maggioranza delle persone, è estremamente presente nella vita di coloro che la subiscono.
E non dovremmo sottovalutare neppure il legame tra la violenza lenta delle ingiustizie socioecologiche strutturali e l'aperta violenza della repressione delle forze di polizia.
Collegamento niente affatto arbitrario, che esprime l'ingiustizia ambientale incarnata dai corpi: senza un apparato repressivo sarebbe impossibile, infatti, imporre alle comunità marginali una distribuzione diseguale dei rischi.
Si chiede alle persone di dimenticare le violenze subite, mentre nei tribunali si giudica la violenza di coloro che si ribellano; questo è emblematico della logica del Wasteocene: normalizzare le relazioni socioecologiche ingiuste, giustificare la violenza della repressione e nascondere la violenza lenta del sistema.
Come le epidemie anche le crisi dei rifiuti mettono in luce una brusca interruzione nella consueta coreografia del Wasteocene.
Le crisi rendono visibili i rifiuti, portandoli nel cuore della vita sociale della città, nei suoi quartieri centrali e residenziali.
I flussi solitamente invisibili della materia di scarto smettono di funzionare come "devono", distruggendo i confini che proteggono il "noi pulito" dagli "altri sporchi".
Questo processo di visibilizzazione dei rifiuti e lo spasmodico tentativo di ristabilire i confini interni del Wasteocene, hanno però anche un altro effetto: "mobilitano le comunità situate all'estremità ricevente del flusso di rifiuti".
La crisi rappresenta allora un'opportunità per re-instaurare i rapporti di potere preesistenti o liberarsene del tutto.
Il paradigma della resilienza suggerisce che una comunità è forte quando ha la capacità di tornare alla condizione precedente la crisi, ma questo non sempre è un risultato desiderabile.
Se le relazioni socio-ecologiche ingiuste hanno prodotto il Wasteocene, creando discariche sociali, dovremmo davvero tornarvi?
I diari del Wasteocene a Napoli parlano non soltanto delle ingiustizie che continuamente (ri)producono discariche sociali, ma anche della resistenza a quelle ingiustizie: le crisi dei rifiuti hanno contribuito alla politicizzazione dei problemi e degli attori coinvolti, come mai era accaduto prima.
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