tratto da "Altre modernità"; di Laura Boella.
Oggi si conosce molto, a livello scientifico, sul riscaldamento globale ma non ci si crede.
L’ Antropocene è oggi un fenomeno scientifico, culturale, politico e sociale ad alto potenziale simbolico.
Ha suggerito un nuovo modo di considerare il turbamento causato dagli esseri umani nella dinamica globale del sistema Terra.
Ciò che sta accadendo è un passaggio di fase senza precedenti, una rottura radicale con ogni idea di evoluzione e di progresso nella storia umana e non umana, che rende obsoleta l’espressione “cambiamento climatico” e invita a parlare di “cambiamento globale”.
Tra la miriade di significati e nomi alternativi (Capitalocene, Plasticocene, Misanthropocene, Chthulucene, Wasteocene), che stanno alimentando il dibattito sull’Antropocene, un’unica cosa sembra fuori discussione: l’umanità è arrivata a lasciare, sulle rocce, tracce non più riconducibili al tempo della breve vita umana, ma nemmeno a quello dei monumenti e delle loro rovine millenarie o della conservazione/copiatura attraverso i secoli di stele, tavolette, papiri, codici e manoscritti.
Le tracce dell’Antropocene, assomigliano d’altra parte a quelle del romanzo poliziesco, alle tracce del crimine cercate dal detective esercitando una percezione intensificata per ciò che non si dà a vedere, che è marginale e inappariscente.
L’idea della specie umana come forza geologica è potente e complessa, perché parla di un’orma dell’attività umana pietrificata, sprofondata nella materia e nel tempo, resa irriconoscibile, almeno secondo i criteri dell’agire umano e della conseguente responsabilita'.
Nel caso dell’Antropocene si cerca un’evidenza che congiunga una fine e un inizio.
Quale fine?
Per molti si tratta della fine della natura intesa come realtà esterna al mondo umano – madre, matrigna, dimora/deposito inesauribile di materie prime e di simboli, oggetto di sfruttamento e di nostalgia, di canto e di conoscenza.
La fioritura di libri sulla “fine della natura” ed espressioni come “la natura siamo noi” possono essere interpretate in diversi modi.
Tuttavia il trionfo delle capacità umane, l’ambizione dell’Homo sapiens di lasciare un segno imperituro sulle rocce, sugli oceani e sull’atmosfera, non riesce a cancellare l’oscuro presentimento che l’intreccio indissolubile di uomo e natura non permetterà più di collocarsi in un luogo in cui lo spirito predatorio possa trasformarsi in cura e protezione dell’ambiente (i mantra dell’ambientalismo che trovano dure repliche nell’Antropocene).
La “scienza del sistema Terra” (ESS), fondamentale per l’imporsi dell’idea di Antropocene, parla della Terra come singolo sistema, che comprende sfere “accoppiate” caratterizzate da limiti, punti di non ritorno, feed back loop e altre forme di dinamica non lineare.
Da sfera di roccia addormentata coperta da una pelle sottile, passiva e inerte, la terra è diventata un sistema contrassegnato dal cambiamento e dall’interazione tra atmosfera, oceani, suolo, biota e attività umane.
Ciò non può che significare la presa d’atto di una pluralità di forze in gioco, umane, animate e inanimate, che rendono particolarmente imprevedibile il cambiamento in atto nel sistema ibrido natura/cultura.
Il “brutale paesaggio” della crisi climatica
Nonostante la ricerca sia aperta in sede scientifica, il termine Antropocene funziona a livello etico-politico, come mobilitazione, come una sorta di password o "umbrella term" che rischia di essere utilizzato come nuovo strumento di depoliticizzazione, affidato a slogan buoni per tutti gli usi (resilienza, solidarietà).
Oggi si sa molto a livello scientifico del riscaldamento globale, ma non ci si crede.
Accanto alle politiche negazioniste, è sotto gli occhi di tutti la difficoltà di reggere tale tipo di conoscenza a livello di senso comune.
La crisi climatica sfida l’immaginazione a livello conoscitivo e morale perché pone di fronte a scarti spaziali e temporali.
Se ammettiamo che l’Antropocene sia in atto, le sue scale variano dai nanometri ai pianeti, dai picosecondi agli eoni.
Esso coinvolge miriadi di agenti, molecole di metano, plutonio radioattivo e metalli rari, campi magnetici, smartphone e zanzare.
Il nostro senso morale non è predisposto a tenere insieme la scelta ecologica individuale di usare lampadine a LED o di abbassare il termostato, con il fatto che l’impatto sul clima delle emissioni di CO2 è cumulativo, incide sull’atmosfera nel tempo e si distribuisce in maniera geograficamente diseguale.
A proposito dell’Antropocene si usa quindi un vocabolario che ricorda i trabocchetti delle fiabe che dischiudono palazzi sontuosi, anfratti terrificanti e case degli spiriti, delizie e crudeltà.
Parole familiari come petrolio o scioglimento, diventano perturbanti; si usano aggettivi come: wicked (perverso), uncanny (sconcertante), weird (strano, magico), chaotic (caotico), dizzyingly (vertiginoso), dazzling (accecante).
Nonostante il profluvio di metafore sulla scena dell’Antropocene, manca ancora un nuovo linguaggio, che aiuti a pensare l’impensabile, come ha osservato Amitav Ghosh.
In mezzo ai dati statistici sull’aumento della temperatura globale e agli imperscrutabili volumi sulla fusione dei ghiacci, mancano le parole per descrivere l’esperienza quotidiana di una natura innaturale.
I media veloci e il flusso continuo di informazioni, rendono invisibili gli eventi i cui effetti sono lenti e a lungo termine, come le carestie e le siccità.
Di qui la deresponsabilizzazione e il senso di impotenza dominanti, nonostante la retorica del "problem solving e della governance".
Glenn Albrecht ha proposto un nuovo termine, “solastalgia”, che rovescia l’immagine consueta di chi, in esilio, ha nostalgia della patria lontana.
Il filosofo ambientalista australiano stava studiando gli effetti a lungo termine della siccità e dell’attività di escavazione su larga scala sulle comunità del New South Wales, e si accorse che non c’era una parola per descrivere l’infelicità di persone che vivevano la trasformazione dei loro paesaggi in qualcosa che sentivano remoto, pur stando nello stesso luogo.
Un’improvvisa sensazione di estraneità, di fuori controllo, una sorta di esilio in casa propria, di oltraggio e perdita coesistente con ciò che è familiare.
La parola “solastalgia” è frutto della combinazione di solacium (conforto) al cospetto di forze inquietanti, la cui radice rinvia a solus e desolare, alla solitudine e all’abbandono.
La pena, il dolore (algos) di questa esperienza vissuta derivano dal fatto che, a differenza della nostalgia per la patria lontana, qui non c’è ritorno; si è già a casa, una casa diventata però irriconoscibile, inospitale.
Naomi Klein è una delle esponenti più ascoltate e combattive della tesi che l’attuale crisi climatica si saldi alle contraddizioni del sistema economico capitalistico e neoliberale fondato sulla crescita, e in particolare che sia strettamente connessa a guerre, povertà, razzismo e disuguaglianze.
Il suo potenziale rivoluzionario deriva dal fatto che la destabilizzazione del sistema Terra mette a nudo le contraddizioni dell’attuale ordine politico e sociale, la violenza, il potere e le discriminazioni, in una parola, il prezzo umano e non umano pagato per la “nuova epoca dell’Uomo” .
Casi di “colonialismo verde” nelle Americhe
I paesaggi naturali sono stati trasformati in riserve in cui è vietato agli indigeni cacciare o pescare, persino vivere.
Il fenomeno della “compensazione” per le emissioni di carbonio vede protagoniste le ONG ambientaliste, che si accaparrano le foreste per compensare le emissioni di carbonio, compiendo una sorta di “violazione verde” dei diritti umani.
Tutto questo ha molto a che fare con il cambiamento climatico, per esempio, il “sacrificio” di luoghi e persone, l’allontanamento dei meno potenti dalla loro terra, dalla loro cultura, dalla loro famiglia, per far posto alle miniere di carbon fossile, all’estrazione di sabbie bituminose, al fracking o alle perdite di petrolio nel delta del Niger.
Questo è il “brutale paesaggio della crisi climatica” descritto da Klein.
Le bombe seguono il petrolio, i droni seguono la linea dell’aridità, della mancanza di acqua; le barche dei profughi seguono entrambe.
La militante Naomi Klein mostra come non basti sovrapporre al riscaldamento globale le vicende del capitalismo e del neoliberismo, e nemmeno tradurre l’intreccio di tutte le forme di vita in una teoria generale della realtà per la quale le montagne, gli strati geologici, i batteri e il DNA sono “oggetti” ad un tempo sociali e fantasmatici.
Il riscaldamento globale sfida l’immaginazione perché mette alla prova la percezione sensibile, presentandosi come effetto di accumulo e insieme geograficamente sparpagliato.
Sappiamo ma non crediamo, perché grandi sono i limiti del linguaggio quotidiano, nonostante gli sforzi letterari e poetici, per esprimere l’esperienza inedita di una natura diventata innaturale: un mondo che ha ruotato il suo asse.
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