L' illusione dello sviluppo: non sono i Paesi ricchi a "sviluppare" i Paesi poveri, ma i Paesi poveri a "sviluppare" quelli ricchi, e lo stanno facendo dalla fine del XV secolo.
tratto da "The Divide" (cap.1); di J. Hickel.
Harry Truman era stato appena rieletto alla casa Bianca per un secondo mandato e il 20 gennaio 1949 sarebbe dovuto salire sul palco per il suo discorso di insediamento.
Il discorso fu seguito da 10 milioni di telespettatori, diventando il singolo evento più visto fino a quel momento.
"Più della metà della popolazione mondiale vive in condizioni prossime alla miseria", sentenziò Truman, "la loro alimentazione è inadeguata, sono vittime di malattie, la loro vita economica è primitiva e stagnante".
Poi proseguì: "ma c'è una speranza; per la prima volta nella storia, l'umanità possiede la conoscenza e la capacità per alleviare la sofferenza di queste persone.
Gli Stati Uniti sono al primo posto tra le nazioni per sviluppo di tecniche industriali e scientifiche, le nostre imponderabili risorse di conoscenze tecniche sono in crescita costante ed inesauribili".
Poi l'affondo: "dobbiamo intraprendere un programma nuovo e audace per mettere i benefici delle nostre scoperte scientifiche e del nostro progresso industriale a disposizione del miglioramento e della crescita delle aree sottosviluppate; dovrà essere uno sforzo mondiale per il raggiungimento della Pace, della prosperità e della libertà".
Finita la seconda Guerra Mondiale, la situazione cominciava ad assestarsi: l'imperialismo europeo era al collasso e il mondo iniziava a delinearsi come un insieme di nazioni uguali e indipendenti.
L'unico problema era che in realtà non erano affatto uguali: c'erano enormi differenze in termini di potere e ricchezza, dato che i Paesi del Nord del mondo godevano di una qualità della vita molto elevata, mentre quelli del Sud, la maggioranza della popolazione mondiale, erano intrappolati in una povertà debilitante.
Il discorso di Truman offriva una narrazione accattivante: i Paesi ricchi dell'Europa e del nord America erano sviluppati, erano la "punta avanzata della Grande freccia del progresso" ed ottenevano risultati migliori perché erano migliori; più intelligenti, più innovativi e più operosi.
Avevano valori migliori, istituzioni migliori e tecnologie migliori; i Paesi del Sud invece erano poveri perché non avevano ancora scoperto i giusti valori e le giuste politiche, erano ancora "sottosviluppati".
Per gli americani si trattava di un'immagine lusinghiera; li faceva sentire bene, orgogliosi dei propri risultati e del proprio posto nel mondo: i Paesi sviluppati sarebbero diventati fari di speranza, ancore di salvezza per i Paesi poveri.
Avrebbero teso la mano e offerto generosamente una parte delle loro ricchezze per aiutare i Paesi "primitivi" del Sud a seguire la loro strada verso il successo; sarebbero diventati eroi, il battistrada di un mondo di pace e prosperità senza precedenti.
La narrazione forniva, in un colpo solo, una spiegazione soddisfacente dell'esistenza della disuguaglianza globale e offriva una soluzione.
Ora che stavano abbandonando le colonie, Gran Bretagna e Francia avevano bisogno di una nuova spiegazione per giustificare la diseguaglianza macroscopica che esisteva fra loro e le popolazioni che avevano governato così a lungo.
La storia dello "sviluppo" permetteva loro di declinare ogni responsabilità per lo stato miserevole in cui versavano le colonie ed era una storia più digeribile delle teorie dichiaratamente razziali a cui si erano affidate in passato.
Permetteva inoltre alle potenze coloniali di cambiare ruolo agli occhi del mondo: rinunciando benignamente al potere imperiale, si sarebbero trasformate in benefattrici dell'umanità.
La narrazione dello sviluppo, che ci suona tanto familiare, è l'esatto contrario della realtà.
La storia dello sviluppo seduce così tanto perché è incentrata su una visione di successo: "grazie al generoso aiuto dei Paesi ricchi, abbiamo fatto passi da gigante nella lotta contro la povertà nel mondo e il bisogno umano sarà presto relegato nella pattumiera della storia".
Secondo una linea di pensiero che deriva direttamente dal discorso di Truman, se i Paesi sono ricchi il merito è del loro talento e dei loro sforzi; se i Paesi sono poveri possono prendersela soltanto con se stessi: un "nazionalismo metodologico", che analizza il destino di ogni nazione senza mai gettare lo sguardo oltre i suoi confini.
Presentando le sorti dei Paesi poveri come distinte e scollegate da quelle dei Paesi ricchi, si cancellava con un colpo di spugna la lunga e densa storia di intrecci fra l'Occidente e il resto del mondo; compresi i violenti interventi americani nei paesi dell'America Latina dove, negli anni Venti e Trenta, l'esercito americano aveva invaso e occupato Honduras e Cuba su mandato delle compagnie bananiere e dello zucchero statunitensi.
Naturalmente le potenze europee controllavano vaste regioni del Sud del mondo sin dal 1492; in effetti la rivoluzione industriale in Europa fu possibile solo grazie alle risorse che gli europei ricavavano dalle loro colonie.
L'oro e l'argento estratti dalle montagne dell'America Latina fornirono il capitale per investimenti industriali ed acquisto, dall'Oriente, di beni ad uso intensivo di terreno; questi capitali permisero inoltre di spostare, nei paesi europei, i lavoratori dall'agricoltura all'industria.
Poi gli europei iniziarono a fare affidamento sullo zucchero e sul cotone, importati via mare dalle loro colonie nel Nuovo Mondo, sul grano dell'India coloniale e sulle risorse naturali delle colonie africane: energia e materie prime di cui gli europei avevano bisogno per garantire il loro predominio industriale.
Lo sviluppo dell'Europa non sarebbe mai potuto avvenire senza il saccheggio delle colonie, ma per le colonie le conseguenze furono devastanti.
La razzia dell'America Latina si lasciò dietro 70 milioni di indigeni morti; in India sotto il dominio britannico, morirono di fame 30 milioni di persone.
In India e in Cina il tenore di vita medio, che prima del periodo coloniale era uguale a quello della Gran Bretagna, precipitò, così come la loro quota del PIL mondiale, che scese dal 65 al 10%, mentre quella dell'Europa triplico'.
Per la prima volta nella storia, la povertà di massa divenne un problema, mentre il capitalismo europeo, guidato dagli imperativi della crescita e del profitto, privava le popolazioni della loro terra e distruggeva le loro capacità di auto-sostentamento.
Lo sviluppo per alcuni significò il sottosviluppo per altri.
Se reinquadriamo l'analisi in un'ottica storica, l'interpretazione della disuguaglianza globale comincia ad assumere una sfumatura molto più complessa: l'idea che i Paesi ricchi siano i salvatori dei Paesi poveri comincia a sembrare qualcosa di più di una semplice ingenuità.
Il problema non è che i Paesi poveri abbiano difficoltà a salire la scala dello sviluppo; il problema è che si sta facendo di tutto per impedirglielo.
La povertà non è qualcosa che semplicemente esiste: la povertà è stata creata.
Sono i Paesi poveri ad essere creditori netti dei Paesi ricchi, esattamente il contrario di quello che diamo per scontato abitualmente.
Per esempio, quando negli anni '80 e '90 furono imposti Programmi di Aggiustamento Strutturale ai Paesi del Sud del mondo, questi persero circa 480 miliardi di dollari l'anno in termini di PIL potenziale: quasi il quadruplo della cifra che oggi viene stanziata ogni anno per gli aiuti.
La perdita più significativa è quella che ha a che fare con lo sfruttamento che viene perpetrato attraverso gli scambi commerciali.
Dall'inizio del colonialismo fino all'era della globalizzazione, l'obiettivo principale del Nord è sempre stato quello di ridurre forzatamente il costo del lavoro e delle merci acquistate dal Sud.
In passato le potenze coloniali erano in grado di dettare direttamente le condizioni alle loro colonie; oggi il commercio è tecnicamente libero, ma i Paesi ricchi riescono comunque a imporre la loro volontà perché hanno molto più potere contrattuale.
Come se non bastasse, gli accordi commerciali spesso impediscono ai Paesi poveri di proteggere i propri lavoratori adottando gli stessi sistemi di cui si servono i Paesi ricchi.
I Paesi poveri sono costretti a gareggiare fra loro spingendo verso il basso i costi; il risultato di tutto ciò è che esiste un divario enorme fra il valore reale del lavoro e dei beni che i Paesi poveri vendono e i prezzi che gli stessi ricevono per essi; è quello che gli economisti chiamano scambio ineguale.
A metà degli anni '90, a causa di questo fenomeno, ogni anno il Sud perdeva fino a 266 miliardi di dollari.
Le multinazionali guadagnano ogni anno circa 138 miliardi di dollari dai Paesi in via di sviluppo sotto forma di esenzioni fiscali; è una cifra che supera da sola il bilancio complessivo di tutti i fondi destinati agli aiuti allo sviluppo.
Il punto è semplice: i fondi destinati agli aiuti allo sviluppo sono esigui, quasi ridicoli, se confrontati con le perdite strutturali e i flussi in uscita a danno dei paesi del Sud del mondo; alcuni di questi danni sono causati dagli stessi gruppi che gestiscono gli aiuti, come la Banca Mondiale, che trae profitto dal debito del Sud del mondo.
I meccanismi di estrazione del valore che provocano attivamente l'impoverimento del Sud del mondo ne impediscono uno sviluppo reale; il paradigma della beneficenza oscura le vere questioni in gioco: fa sembrare che l'occidente stia sviluppando il Sud del mondo quando in realtà sta avvenendo esattamente il contrario.
Il problema quindi non è solo che la narrazione degli aiuti fraintende i motivi reali alla base della povertà: li capovolge.
Gli aiuti sono una sorta di propaganda che mira a rappresentare i beneficiari come benefattori e maschera il funzionamento reale dell'economia globale; solo alcuni aiuti contribuiscono a migliorare la vita delle persone e non compensano neanche lontanamente i danni inflitti proprio da chi questi aiuti dispensa.
Lo sviluppo, è diventato un'industria enorme, che vale centinaia di miliardi di dollari, più di tutti i profitti di tutte le banche degli Stati Uniti messe insieme.
Frantz Fanon, filosofo della Martinica il principale teorico della lotta di liberazione anticoloniale in Algeria, lo ha espresso meglio di tutti: "La ricchezza dei Paesi imperialisti è anche la nostra ricchezza; l'Europa è letteralmente la creazione del terzo mondo e le ricchezze che la soffocano sono quelle che sono state rubate ai popoli sottosviluppati.
Perciò questo aiuto deve essere la consacrazione di una duplice presa di coscienza: da parte dei colonizzati che ciò è loro dovuto, e delle potenze capitaliste che effettivamente esse devono pagare".
Fanon riconosceva che la povertà del Sud del mondo non era una condizione naturale, così come non lo era la ricchezza dell'Occidente: "Alla base, la povertà è l'inevitabile risultato degli attuali processi di saccheggio, di cui beneficia un gruppo relativamente ristretto di persone a spese della stragrande maggioranza dell'umanità".
Il paradigma degli aiuti consente ai paesi ricchi e ai singoli individui di fingere di aggiustare con una mano ciò che distruggono con l'altra, dispensando cerotti mentre infliggono ferite profonde, e rivendicando al tempo stesso una "superiorità morale".
Nel frattempo la diseguaglianza è esplosa e l'edificante storia ufficiale che contribuisce da molto tempo a garantire al sistema esistente il consenso della gente sta crollando, e quando i miti crollano scoppiano le rivoluzioni.
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