Le donne, le lotte per la terra e la ricostruzione dei Commons.

tratto da "DEP-Rivista telematica di studi sulla memoria femminile"; di Silvia Federici. 


La questione dei ‘beni comuni’ (commons) è oggi un tema importante nella letteratura dei movimenti internazionali per la giustizia sociale.

Si dimostra molto utile per estendere il terreno dell’analisi politica al di là dei confini della lotta salariale. 

Questo concetto ci permette di ripensare la storia della lotta di classe, in modo che la resistenza delle popolazioni indigene all’espropriazione coloniale nelle Americhe possa essere associata alla resistenza contadina alle recinzioni in Inghilterra.

Tuttavia, il concetto di Common in sé è stato oggetto di molte manipolazioni e appropriazioni, soprattutto da parte di quelle istituzioni che hanno fatto dell’abolizione della proprietà comune la loro missione. 

La Banca mondiale in Africa ha infatti promosso una serie di riforme dei sistemi di proprietà terriera a base comunitaria che sembrano voler garantire un’allocazione più equa delle terre comuni, ma in realtà promuovono interessi commerciali e riducono le risorse che la popolazione può utilizzare. 

Un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che con l’espandersi dei rapporti capitalistici, i “commons” esistenti sono diventati motivo di molte delle divisioni e disparità che troviamo anche nel resto della società. 

Perciò, i “commons” non devono essere visti come realtà non problematiche, perché possono diventare un terreno di conflitto che le istituzioni finanziarie internazionali sfruttano per i loro fini. 

Quali sono questi conflitti e cosa ci dicono sulla realtà dei “commons”?

Il movimento delle donne per il diritto alla terra, che si è sviluppato negli anni ‘90, ha dichiarato la sua opposizione al possesso consuetudinario delle terre, perché di stampo patriarcale e discriminatorio nei confronti delle donne. 

Le loro lotte dimostrano che l'egualitarismo è per i “commons” una questione di sopravvivenza, poiché l’esistenza di rapporti di potere ineguali spiana la via ad interventi esterni e all’esproprio. 

In particolare, tali conflitti dimostrano che le disparità di genere producono dinamiche che consolidano il dominio del mercato sui rapporti agrari, e indeboliscono la solidarietà tra donne e uomini di fronte all’attacco di cui i “commons” sono oggetto da parte di imprese, stato, ed istituzioni internazionali.

Africa, tuttora la terra dei “commons”

L’Africa è un caso paradigmatico per un discorso sulla proprietà comunale delle terre, (che è il fondamento materiale di ogni altro bene comune come boschi, foreste o acque, ecc…), in quanto è la regione in cui questa forma di proprietà è sopravvissuta più a lungo che in ogni altra parte del mondo, nonostante i ripetuti tentativi di mettere fine a questo “scandalo”. 

Infatti, la maggior parte della popolazione rurale dell’Africa vive nell’ambito di sistemi di proprietà terriera su basi comunali, benché possano anche avere diritti individuali alla terra ai sensi delle leggi vigenti, poiché molti paesi africani hanno regimi legali duali o plurimi.

Tuttavia, i “commons” africani contemporanei assomigliano poco ai modelli “tradizionali”, per quanto possiamo ricostruire dalle testimonianze orali e da ciò che sappiamo delle società africane precoloniali.

Come è documentato da un’ampia letteratura, il passaggio da una coltivazione di sussistenza a colture destinate al mercato e l’introduzione coloniale di regimi di proprietà privata, basati sull’intestazione e la recinzione di patrimoni individuali, hanno minato in misura crescente quello che era stato “un modello egualitario di organizzazione sociale".

La decolonizzazione non ha invertito questa tendenza. 

Che l’obiettivo fosse lo sviluppo capitalistico o socialista, le nazioni africane indipendenti contribuirono a scardinare il sistema delle terre comuni, facendo di tutta la terra una proprietà dello stato, e stabilendo il suo diritto ad appropriarsi della terra per progetti pubblici. 

Il risultato di queste tendenze è stato, già a partire dalla fine degli anni ‘70, un aumento dei senza-terra nelle aree rurali e un’accentuazione delle differenze di classe.

Che siano state le donne a subire i danni maggiori conseguenti a questi sviluppi, tutti lo riconoscono. 

Nella misura in cui la terra ha acquistato più valore ed è diventata più scarsa, si sono adottate nuove regole per limitare l’accesso ad essa, cosa che era sempre stata garantita nei sistemi tradizionali. 

La “crisi del debito” degli anni ‘80 e la conseguente liberalizzazione delle economie politiche africane, rappresentarono un punto di svolta per i rapporti di proprietà. 

La Banca mondiale e altre istituzioni capitalistiche internazionali hanno visto nella crisi un’occasione storica per mettere fine ai sistemi africani di proprietà comunitaria della terra, ai loro occhi l'ostacolo principale allo sviluppo delle relazioni capitalistiche nella regione.

Non sorprende quindi che la privatizzazione delle terre sia stato il primo obiettivo dei Programmi di Aggiustamento Strutturale imposti ai paesi africani dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca mondiale. 

La premessa principale di tutte le ‘condizioni’ imposte da questi programmi – il passaggio da un’agricoltura finalizzata alla produzione di cibo a quella orientata all’esportazione, l’apertura agli investimenti stranieri delle terre africane, la priorità accordata alle coltivazioni a scopo commerciale a scapito dell’ agricoltura di sussistenza – era l’attuazione di un grosso processo di privatizzazione, che avrebbe dovuto formalizzare i rapporti di proprietà terriere mediante l’intestazione e la registrazione individuali.

Tuttavia, questa aspettativa si è realizzata solo in parte. 

Ancora negli anni '90, solo una piccola percentuale delle terre a regime comunitario africane erano state registrate (in alcune aree, meno dell’1%), poiché i piccoli coltivatori non ne vedevano il bisogno, presumendo di possedere già la terra e non essendo disposti a pagare le commissioni e le tasse elevate necessarie per le registrazioni e le assegnazioni dei titoli individuali. 

In seguito a questi esiti, e consapevoli di una crescente mobilitazione contadina, dentro e fuori l’Africa, diretta all’occupazione delle terre, i governi africani e la Banca mondiale, a partire dagli anni ’90, hanno adottato una via meno conflittuale alla privatizzazione. 

In sostanza è stato ideato un sistema a doppio binario, che evita uno scontro frontale con i piccoli coltivatori e consente all’élite capitalistica locale di perseguire i propri interessi e di aprire la via agli investimenti stranieri.

Le nuove riforme agrarie contengono anche disposizioni contro la discriminazione di genere, per esempio attraverso l’estensione del diritto di proprietà ad entrambi i coniugi.

L’eguaglianza di genere è un tema chiave nella promozione ideologica della riforma. 

Tuttavia, le disposizioni adottate non sono state accolte con favore dalle numerose organizzazioni femminili che si sono formate negli anni ‘90 per promuovere il diritto delle donne alla terra. 

Queste organizzazioni lamentano il fatto che ponendo il potere decisionale riguardo alla gestione delle terre nelle mani di gruppi locali e convalidando le usanze locali, queste riforme espongono le donne ad abusi. 

Ciò che queste organizzazioni chiedono, invece, è che il possesso consuetudinario sia sradicato e che si adotti un sistema di diritti basato su riforme giuridiche e legislative in modo che le donne possano acquistare, possedere, vendere e ottenere la proprietà della terra; tutti diritti questi, esse sostengono, che nei regimi consuetudinari le donne possono ottenere solo guadagnandosi la benevolenza degli uomini.

Infatti, attualmente in Africa, l’idea che il consolidamento della proprietà privata possa beneficiare le donne e che la proprietà consuetudinaria possa essere abolita senza serie conseguenze per la sussistenza delle popolazioni rurali e urbane, è una questione ampiamente dibattuta.

Nonostante le differenze, comunque, c’è consenso sul fatto che la discriminazione che le donne subiscono nei regimi consuetudinari, ha meno a che fare con la “tradizione” che con le pressioni esercitate dalla commercializzazione dell’agricoltura e la conseguente perdita delle terre comuni.

Donne, diritto consuetudinario e la mascolinizzazione dei “commons”

Così come accade oggi, anche nel periodo precoloniale il diritto consuetudinario ha privilegiato gli uomini riguardo alla proprietà e alla gestione della terra, in base all’assunto che le donne si sarebbero sposate, avrebbero lasciato la comunità, e che la terra della comunità doveva essere protetta. 

La “proprietà”, comunque, aveva un significato molto diverso da quello che ha nei sistemi legali odierni, poiché il diritto consuetudinario si basava “su un principio di inclusione” piuttosto che di esclusione.

Il proprietario aveva il diritto di tenere la terra in custodia per gli altri componenti della famiglia, incluse le generazioni a venire. 

La proprietà non conferiva la titolarità assoluta o il diritto di vendita, perciò le donne, o attraverso le proprie famiglie o i mariti, avevano sempre campi propri o coltivazioni proprie, controllando i proventi delle vendite dei loro prodotti agricoli.

Le cose sono cambiate con la commercializzazione dell’agricoltura e l’avvio della produzione per il mercato internazionale; di regola, più la domanda di terra è aumentata, più stringenti si sono fatti i “vincoli [posti] all’accesso delle donne ad essa”.
 
Così, la battaglia delle donne africane per i “commons” ha preso anche la forma di una mobilitazione contro la distruzione delle risorse naturali. 

La lotta più eclatante per la sopravvivenza delle foreste ha avuto luogo sul Delta del Niger, dove le paludi di mangrovie erano minacciate dalla produzione di petrolio.

Mentre è in corso una nuova spartizione dell’Africa è evidente che le donne africane non sono osservatrici passive dell’espropriazione delle loro comunità, e che la loro lotta per avere più terra e più sicurezza svolgerà un ruolo strategico nel futuro dei “commons” africani. 

Una conclusione importante che si può trarre dall’analisi di queste lotte è che i regimi comunitari in Africa sono in crisi, indeboliti non solo da forze esterne, ma anche dalle divisioni tra i ‘commoners’, a cominciare dalle divisioni tra donne e uomini e da quelle tra le stesse donne.

Allo stesso tempo, si stanno creando nuovi “commons” e possiamo essere certi che gli sforzi per de-privatizzate le terre continueranno ad aumentare. 

Questo perché, come dimostrano la “crisi alimentare” e le continue catastrofi ecologiche, la riappropriazione delle terre e la creazione di alternative all’economia monetaria e di mercato sono oggi la condizione non solo per l’autonomia personale e collettiva, ma per la sopravvivenza fisica di milioni di persone in tutto il pianeta.

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