Le sfide del XXI secolo: distruzione, privatizzazione e mercificazione della natura, crisi economico-finanziaria ed erosione della democrazia.
Il rapporto uomo-natura è rimasto entro i limiti di compatibilità per millenni, fino alla società dei consumi di massa; dopo si è progressivamente deteriorato.
Ma solo recentemente la pressione sulle risorse naturali ha raggiunto un'intensità e una velocità tali da mettere in pericolo la sopravvivenza della vita sul pianeta.
Siamo di fronte ad una riduzione della capacità dei sistemi naturali di rigenerarsi nella misura e nei tempi dei nostri livelli di prelievo delle risorse, e di assorbire il nostro impatto e i suoi rifiuti.
I disastri ecologici prodotti dall'evoluzione storica di questo modello di sviluppo e gli effetti ad esso connessi, sono ben documentati in letteratura e lo sono da molto tempo, così come è documentato da fonti autorevoli che prevenire i disastri costerebbe molto meno che ripagarne i danni a posteriori.
Ma niente è stato fatto per invertire la tendenza, che anzi si intensifica anno dopo anno; la spiegazione è semplice: quei disastri servono a qualcuno.
Servono a chi decide le sorti del mondo, e può arricchirsi a scapito della natura e dell' umanità “privatizzando la ricchezza e socializzando la povertà”.
A partire dagli anni 1970, con l’incalzare della globalizzazione neo-liberista, i governi occidentali e le grandi multinazionali decisero di rinegoziare l’accordo sul commercio internazionale Gatt, approvato dopo la seconda guerra mondiale.
Con il nuovo accordo Wto del 1995, le grandi imprese hanno realizzato un ulteriore trasferimento di ricchezza dai paesi del Sud verso i loro laboratori, spacciando la brevettazione dei semi, i diritti di proprietà intellettuale sulla biodiversità e i saperi delle comunità locali (così come l’apertura dei mercati agricoli di sussistenza dei paesi del Sud del mondo), per una “liberalizzazione” degli scambi di mercato, che avrebbe portato grandi vantaggi ai poveri, ai lavoratori e all’ambiente.
Ma questi vantaggi non si sono visti e intanto una risorsa vitale come la biodiversità è stata consegnata al profitto privato.
In questo caso, tuttavia, le multinazionali dovettero scontrarsi con i movimenti sociali mondiali, che alla fine del 1999 si dettero appuntamento a Seattle, dove si teneva uno degli incontri del Wto, e questo incontro avviò una nuova stagione di contestazione e di lotte.
Poiché i Governi sono in crisi, si è deciso che i soldi li metteranno le banche e la finanza, cioè gli stessi soggetti responsabili dell'attuale crisi economico-finanziaria e socioecologica.
La tesi secondo cui dare un valore economico ai servizi degli ecosistemi favorirebbe gli investimenti privati destinati alla loro conservazione è assai discutibile, perché questi servizi la natura li offre gratuitamente e perché la loro conservazione avrebbe bisogno di "conoscenza" più che di investimenti.
Gli investimenti ad essi rivolti sono di solito lo strumento per sottrarre gli ecosistemi alle comunità locali che ne sono depositarie, così come è successo con la brevettazione della biodiversità.
Questo modello estrattivo, con differenze anche importanti tra paesi, soprattutto in Cina, richiede molta energia (per ora da fonti fossili in crisi) e abbondanza di minerali e di metalli che si trovano in aree dove vivono comunità locali, spesso indigene, espropriate e condannate alla morte civile, se non anche fisica.
I costi sociali di questo tipo di sviluppo ricadranno tutti sulle comunità locali.
L’economia neoliberista e quella dei beni comuni
I beni comuni naturali sono fondati sulla condivisione e sul legame sociale che, a sua volta, produce legame sociale: la loro privatizzazione rompe pertanto l'intreccio delle relazioni, mette in discussione la coesione sociale e contribuisce alla crescita di società atomizzate dove i singoli consumatori competono uno contro l’altro per l’accesso a risorse “scarse” e a servizi mercificati: la perdita dei beni comuni distrugge i sistemi di sostegno della vita e fa a pezzi la democrazia.
Gestire i beni essenziali come beni comuni significa operare sulla base di valori e regole alternative a quelle che governano l’ordine sociale fondato sul mercato; questi valori e regole alternative costituiscono una parte integrante dei beni comuni, che non sono infatti né pubblici né privati ma appunto ‘comuni’.
Implicano l’auto-regolamentazione e l’auto-governo delle comunità: la cooperazione al posto della competitività, la riunificazione della produzione e del consumo; la difesa della natura e delle condizioni comunitarie di vita.
La gestione collettiva e l’autoregomentazione da parte delle comunità è dunque importante, ma ancora più importante è riconoscere che le comunità esistono e che l’autoregolamentazione è un elemento di "democrazia diretta" inesistente nell’ordine sociale fondato sul mercato.
Il modello dominante non ha mantenuto nessuna delle sue promesse: non ha sanato la povertà, non ha sradicato la fame, non ha creato uguaglianza, non ha assicurato la giustizia sociale né la democrazia reale, non ha ridotto il divario Nord-Sud; ha alimentato la tensione mondiale e ha difeso con la guerra il suo “diritto” ad accaparrarsi le risorse naturali dei paesi del Sud.
Ha saccheggiato la natura e ha identificato la prosperità con il benessere economico, trascurando elementi importanti come una certa sicurezza per il proprio futuro, l’interesse per il benessere di chi ci sta intorno, la condivisione del proprio benessere con gli altri, la partecipazione alla vita della comunità: i valori che sono l’asse portante del paradigma dei beni comuni.
La crescita e il rilancio della crescita sono parole, ossessivamente ripetute, da tutti i soggetti in campo: si continua a proporre infrastrutture, grandi opere e produzioni industriali mature, che hanno creato uno sviluppo insostenibile sia sul piano ecologico che sociale.
Il punto dirimente è l' elaborazione di un progetto di "conversione ecologica" dell’economia che ridimensioni le produzioni che non rispondono più ai bisogni di una società in trasformazione e che avvii un processo di riterritorializzazione dei mercati che valorizzi il locale, le sue risorse e potenzialità.
Un progetto fondato sulle fonti energetiche alternative e sulla efficienza energetica delle produzioni (industriali, agricole e di servizio) e delle costruzioni, (uffici pubblici e abitazioni private); sulla mobilità sostenibile e integrata tra i diversi mezzi di trasporto, sulla produzione agricola biologica a chilometro zero.
Un progetto che sostituisca le economie di scala dei grandi impianti e delle grandi reti con i principi del decentramento, della diffusione e della differenziazione territoriale, dell’integrazione tra produzione di beni ed erogazione dei servizi.
Quello di cui non c’è bisogno è la crescita basata sulla mercificazione e sulla mercatizzazione delle risorse naturali, sulla svendita del patrimonio pubblico e sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali.
I movimenti sociali e quelli ecologici
Movimenti sociali è un'espressione ampia; esiste un movimento sociale ed ecologico globale, al cui interno si articola un numero pressoché illimitato di soggetti grandi e piccoli, che si auto-definiscono movimenti, organizzazioni, associazioni di genere, associazioni di consumatori, sindacati dei lavoratori, associazioni professionali come ad esempio bioarchitetti, contadini, comunità di caccia e di pesca, organizzazioni non governative, singole persone, gruppi di persone, piccole imprese, governi locali, e molti altri soggetti.
Solo alcuni di loro sono associazioni di base ma tutti fanno parte del movimento globale perché "chiunque è libero di partecipare alla lotta per migliorare le proprie condizioni di vita e insieme difendere l’ambiente".
La crisi che stiamo vivendo oggi è diversa da tutte le altre finora attraversate dal capitalismo.
E’ molto profonda, dura da molto tempo, e ha travolto tutte le strutture novecentesche, inclusa la politica e i partiti politici come strumenti di gestione della politica, di mediazione e di partecipazione democratica.
I movimenti sono soggetti plurali, che operano attraverso metodi orizzontali di formazione del consenso.
E’ vero che oggi occorre rifondare i termini della partecipazione democratica ma questo va fatto senza scorciatoie, usando la cultura dei beni comuni per riconquistare gli spazi occupati dal mercato.
I movimenti sociali non pensano sé stessi come partiti politici né operano secondo quella logica.
Hanno incorporato la cultura dei beni comuni perché sono nati da quella cultura: quella delle comunità di base agricole, forestali e della pesca che lottano contro la recinzione dei beni naturali su cui esse vivono.
Gli obiettivi che si propongono, come difendere le proprie condizioni di vita e insieme la natura, non potrebbero essere realizzati in nessun altro modo.
Nonostante la cultura dei beni comuni sia stata sistematicamente negata e ridicolizzata come primitiva e antimoderna nel corso dei secoli passati in tutti i paesi ma soprattutto in Occidente, molto è rimasto sotto traccia.
Quel modello viene oggi rivendicato con forza dai movimenti sociali, attraverso lotte che ne promuovono la difesa e la riproposizione nel momento in cui interessi potenti cercano in tutti i modi di appropriarsene.
Come in passato – e ancora oggi nelle aree rurali e forestali del Sud globale – i “nuovi commons" si oppongono alla pressione di una società mercificata e globalizzata, divisa tra il 99 per cento e l’1 per cento della popolazione, come gli Occupy hanno definito il social divide contemporaneo.
I movimenti sociali rifiutano la delega e il rapporto gerarchico; ciò non significa che siano privi di una struttura orgnizzativa, specie nel caso delle grandi organizzazioni come Via Campesina.
Significa invece che la loro struttura organizzativa è diversa: opera attraverso un comitato di coordinamento di una rete di organizzazioni, che non sottoscrivono un programma comune.
Sono organizzazioni che non costituiscono un movimento nel senso convenzionale del termine, e cioè di militanza in una organizzazione con un leader.
Questi nuovi movimenti sociali si sono intensificati e rafforzati nella globalizzazione neoliberista e nella sua crisi, in "mille/centomila/un milione" di luoghi e modi, là dove emergono i problemi; siano essi direttamente ambientali come la recinzione della terra, la requisizione dell’acqua e lo smaltimento dei rifiuti, o sociali come la povertà, la disoccupazione e l’emarginazione sociale.
Sono organizzazioni che possono durare a lungo o una sola stagione, presenti in tutti i paesi e in tutti i continenti, da Nord a Sud.
Terra e acqua sono ancora oggi, nel XXI secolo, il terreno principale dei conflitti e dunque dei movimenti ambientali: ma lo sono in modo diverso per le comunità rurali e forestali, spesso indigene, dei paesi del Sud, che dalla terra traggono il proprio sostentamento, rispetto al modo in cui si pongono nei paesi del Nord.
La pressione su acqua e terra esiste in entrambi i casi ma assume forme diverse: nel caso dei paesi del Sud, la terra non serve più solo per l’agricoltura ma anche per la monocoltura della soia transgenica e della canna da zucchero (per estrarne etanolo), per costruire grandi infrastrutture come le dighe, e per il land grabbing (furto di terra fertile che i paesi ricchi comprano o affittano nei paesi poveri, specie in Africa).
La terra serve soprattutto allo sviluppo industriale, per il quale è diventata il bene primario non solo per l’insediamento di fabbriche, porti e altre infrastrutture di servizio, ma anche per l'estrazione di metalli, minerali e fonti energetiche fossili, nel sottosuolo di terra e foreste (dove spesso vivono le comunità di base).
Le persone impegnate nei movimenti sociali contemporanei vengono da tutte le categorie sociali: sono contadini e lavoratori dell’industria, lavoratori autonomi, giovani e studenti, disoccupati, donne e popolazioni indigene, scienziati e artisti, esponenti dei governi locali, dei sindacati, del mondo imprenditoriale e di quello accademico.
Sono persone che spesso lavorano in silenzio per proteggere l’ambiente, promuovere la democrazia, difendere i diritti umani e assicurare l’eguaglianza tra donne e uomini; così facendo piantano "semi di pace”.
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