Politica, come dovrebbe essere evidente, non significa soltanto partiti ed elezioni.

tratto da "Una nuova ecologia politica: per tenere insieme giustizia sociale e coerenza individuale"; di Niccolò Bertuzzi. 


Quando si affronta la grande questione dei cambiamenti climatici il caso italiano è piuttosto interessante, per diverse ragioni. 

Tra queste c’è senz’altro l’assenza di un partito ambientalista ben presente sulla scena politica, riconoscibile e riconosciuto. 

Si tratta di una peculiarità, soprattutto a voler guardare quanto accade in altri Paesi europei; ma non di una novità assoluta, se si pensa che i Verdi in Italia hanno avuto un certo peso elettorale soltanto a cavallo degli anni Ottanta-Novanta, sulla scia del disastro nucleare di Chernobyl e di alcuni referendum abrogativi (nucleare e caccia, in primo luogo). 

Tuttavia, da noi i Verdi non hanno mai sfondato alle urne e non sono riusciti a penetrare il tessuto sociale, apparendo anzi spesso come un soggetto marginale che avanzava istanze elitarie e/o secondarie. 

Inoltre, quasi tutti i partiti della Prima e soprattutto della Seconda Repubblica hanno rivendicato un’anima pseudo-ambientalista, il più delle volte senza meglio articolare una proposta politica. 

Politica, tuttavia, come dovrebbe essere evidente, non significa soltanto partiti ed elezioni. 

Le forme di mobilitazione che non si limitano alla delega (o addirittura la rifiutano) sono diffuse da secoli, e hanno notoriamente assunto un ruolo centrale nella seconda metà del secolo scorso. 

Applicato all’ambientalismo, questo discorso ha significato principalmente due cose: da una parte, resistenza contro lo sfruttamento capitalista (estrattivista) della natura e dei territori, e conseguente richiesta di politiche in grado di guardare oltre il vangelo della crescita a qualsiasi costo; dall’altra, stili di vita più attenti al rispetto dei cicli naturali, delle esigenze ecosistemiche, delle altre specie e dell’ambiente in termini generali. 

Con una ulteriore messa a fuoco, questo doppio binario applicato all’Italia può essere tradotto come segue: da una parte, l’opposizione alle grandi opere ritenute inutili e dannose; dall’altra la diffusione di svariate forme di consumerismo politico, da quelle collettive riunite intorno ai Gruppi di acquisto solidale (i cosiddetti Gas) o simili esperienze di economia alternativa, fino a quelle strettamente individuali come l’adozione di una dieta vegetariana o vegana, l’attenzione alla raccolta differenziata, la limitazione degli sprechi e altri simili atteggiamenti virtuosi.

Queste due macro-aree di interesse per l’ambiente sono altresì caratterizzate da numerose differenziazioni al proprio interno. 

Presso i movimenti territoriali, e per estensione presso l’area dell’ecologia radicale, vi sono per esempio alcuni settori più inclini ad approcci antisistemici e altri invece più propensi a richiedere interventi statali in grado di cambiare le politiche e le scelte industriali in termini di abbattimento degli impatti ambientali (oltre a quelli sociali). 

Allo stesso modo, nell’area più legata all’attivismo individuale, si riscontrano approcci più politici e altri più culturali. 

La cosa interessante è che entrambe le macro-prospettive precedentemente evocate – quella del cambiamento sistemico e quella degli approcci (anche) individuali – ammettono l’importanza della crisi ambientale, l’emergenza in cui ci troviamo e la necessità di mettere il tema al centro delle agende politiche, scientifiche e narrative contemporanee, anche con specifico riferimento alla dimensione nazionale. 

Nel nostro Paese, questa dicotomia si è palesata in modo evidente in seguito all’esplosione dei Fridays for Future, il movimento ambientalista giovanile (di massa) ispirato dalla giovanissima attivista svedese Greta Thunberg. 

Ciò si deve in parte alla natura piuttosto «aperta» di questa mobilitazione, che ha alcune parole-chiave radicali, ma che per sua stessa natura lascia molto spazio alle rivisitazioni individuali degli attivisti. 

Al di là di possibili criticità – spesso sollevate in modo improprio dai soloni di turno e legate alla giovane età dei manifestanti – il grande merito di questo movimento è aver dato estrema visibilità alla tematica ambientale, e aver saputo riunire in una battaglia fondamentale per il futuro del pianeta centinaia di migliaia di giovani in Italia, come in altri Paesi, soprattutto europei.

In Italia, d’altra parte, l’anno 2019 è stato particolarmente vivace in termini di manifestazioni di piazza, spesso con l’esplicita volontà e capacità di tessere trame intersezionali in chiave politica, considerando sempre con grande attenzione la questione ambientale. 

Si possono citare le grandi mobilitazioni di area femminista dell’8 e del 30 marzo a Verona contro il Ddl Pillon, ma anche diverse proteste anti-razziste e cortei studenteschi molto partecipati. 

Tuttavia l’«intersezione» più scontata ma anche più rilevante rispetto al movimento transnazionale dei Fridays for Future è stata la manifestazione organizzata il 23 marzo a Roma contro le grandi opere, un appuntamento simbolicamente decisivo per l’area dell’ecologia politica italiana. 

In quell’occasione sono stati proposti pubblici endorsement ai Fridays for Future; allo stesso tempo, durante il secondo e il terzo environmental global strike rispettivamente del 24 maggio e del 27 settembre, nelle piazze italiane diversi esponenti di movimenti territoriali hanno partecipato, spesso con modalità parzialmente più conflittuali rispetto al primo appuntamento del 15 marzo. 

In tutte queste occasioni, l’invito a inscrivere la questione ambientale in un più esteso registro politico è stato particolarmente forte, con l’obiettivo di indurre anche negli attivisti più giovani (oltre che nell’opinione pubblica generalista) la percezione di una battaglia per l’ambiente da non limitare ad approcci riformisti e facilmente sussumibili dalle operazioni di greenwashing compiute da note multinazionali e appoggiate dalle linee guida degli organismi politici nazionali e transnazionali. 

Al medesimo tempo le piazze italiane dei Fridays for Future (e le piazze virtuali dei social media) sono state invase da migliaia di individui, più o meno giovani, che non hanno una storia movimentista, o che al contrario l’hanno avuta presso altri tipi di movimenti, spesso legati ad approcci più individuali e a una forte insistenza sugli stili di vita. 

Si badi bene come questo ventaglio sia piuttosto ampio, andando da membri di storiche associazioni ambientaliste di stampo protezionista come Lav, Wwf o Legambiente (particolarmente focalizzate sulla virtuosità dei comportamenti individuali ma sempre all’interno di dinamiche di mercato incentrate su crescita e sviluppo), fino a soggetti più vicini alle cosiddette lifestyle politics. 

Soprattutto in Italia, negli ultimi anni sta tornando in auge un forte richiamo all’efficacia delle azioni individuali in senso ambientalista. 

Come anticipato, si tratta in parte della prospettiva propugnata dal consumerismo politico piuttosto in voga alcuni anni fa. 

A ciò va aggiunta la centralità assunta dal protagonismo giovanile nelle battaglie ambientaliste degli ultimi tempi. 

Il messaggio radicale di Greta Thunberg, espresso dapprima nel suo ormai famoso intervento alla Cop24 di Katowice e successivamente in diverse altre occasioni pubbliche, non sempre è stato correttamente veicolato a livello mediatico ma – croce e delizia di un movimento massiccio, giovane e destrutturato – è stato interpretato, riletto e declinato in vari modi, molto spesso deprivandolo di alcuni suoi elementi centrali. 

I rischi di queste operazioni di sussunzione sono principalmente due: da una parte, la soppressione di uno dei due poli della questione (il più importante, per altro), ossia quello della produzione, per concentrarsi invece solo su quello del consumo, scaricando dunque spesso il discorso ambientalista sulla buona volontà dei «cittadini consumatori». 

Il secondo pericolo, collegato al primo, è quello di credere nuovamente a una versione aggiornata dello «sviluppo sostenibile», ossia all’idea di quel capitalismo verde supportata da vari attori politici durante numerosi incontri internazionali negli ultimi decenni, a partire dal famoso rapporto Bruntland, passando per il protocollo di Kyoto, le varie Cop (Conferenze Onu sui cambiamenti climatici) e, in buona sostanza, anche i Trattati di Parigi. 

Il punto, qui, è forse più delicato

È bene ribadire che la peculiarità italiana delle lotte riferibili all’environmental justice è quella dell’opposizione alle grandi opere, così come quella di alcuni Paesi nordici è ad esempio legata al fenomeno del fracking. 

Un Green New Deal all’italiana deve dunque assumersi anche la responsabilità di affrontare in modo coraggioso la questione grandi opere, uscendo dallo schema della crescita «senza se e senza ma».

È difficile continuare a sostenere l’argomento per cui stili di vita e modi di consumo vadano completamente omessi dalle pratiche militanti ecologiste, sia per una questione di coerenza sia anche a causa dell’effettivo impatto che comunque gli stili di vita e consumo hanno, seppur in scala ridotta. 

Nel 2018 il consumo di carne in Italia è aumentato del 5%: il dato è piuttosto inaspettato se si considera un certo «sdoganamento» del vegetarianismo anche presso i media mainstream, quantomeno come opzione dietetica una tantum, oltre che gli inviti alla riduzione del consumo di carne provenienti da fonti autorevoli, non da ultimi l’Ipcc (International Panel on Climate Change) e la rivista «Nature». 

L’esempio del consumo di carne è uno, forse il più scontato, ma altri se ne potrebbero aggiungere: l’(ab)uso di mezzi di trasporto individuali, la plastica, i rifiuti ecc. 

L’impronta ecologica media di un cittadino italiano arriva in anticipo di circa un mese e mezzo rispetto a quella media del pianeta: significa che, in media, le attività di ogni singolo cittadino italiano esauriscono la biocapacità a circa 1/3 dell’anno. 

In altri termini, ci vorrebbero tre Italie per sostenere in termini ecologici l’attuale stile di consumo della nostra penisola.

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