Per secoli, tacitamente, la storia dell’ambiente si è intrecciata alla storia delle donne: storie di identità e di dignità negate, di azioni e di meriti occultati, di un protagonismo pubblico insistentemente osteggiato e sconfessato.
tratto da "Donne in rivista Vol 15 (2019)".
https://oaj.fupress.net/index.php/sdd/issue/view/593/104
Potrebbe essere un gesto di umile convenienza chiedersi: per quanto tempo l’uomo avrà la capacità di imporsi sul mondo che lo circonda senza abusare del proprio privilegio di nascita?
O, ancora, quanto impiegherà la natura a consumarla sua vendetta, incarnando la più temuta tra le distopie ambientali: l’annientamento della specie umana.
E osservando gli attuali, poco rassicuranti scenari climatici, sarebbe forse un utile esercizio domandarsi cosa accadrebbe se il disegno distopico si ribaltasse e fosse l’uomo a divorare la natura, estinguendosi, infine, come un dinosauro, con l’unica differenza di interpretare anche il ruolo del meteorite.
Quando si ammetterà che l’ignoranza della relazione storica fra uomo e natura è la più grande distopia della contemporaneità?
Un’epoca votata a coltivare artificialmente la conoscenza, allontanandola dal suo ordinario percorso di crescita, genera un sapere senza passato, che interpreta il mondo circostante con l’arroganza vorace (ma non innocente) del nuovo nato, incline all’unico valore in grado di sopravvivere al difetto storico: il profitto, l’appetito individuale e sociale, cui sacrificare in primis la sostenibilità ambientale.
Per secoli, tacitamente, la storia dell’ambiente si è intrecciata alla storia delle donne: storie di identità e di dignità negate, di azioni e di meriti occultati, di un protagonismo pubblico insistentemente osteggiato e sconfessato.
Un comune destino di resistenza che, come tutte le imprese d’assedio, tedia occupanti ed occupati e, infine, non raggiunge più l’attenzione di alcuno.
La discriminazione rilevata, simmetricamente, ai danni della donna e della natura, non genera oggi coscienza, ma rassegnazione.
Lo sfruttamento ambientale segue il destino di altri temi, da lungo tempo noti e mai risolti, “lavori in corso” permanenti che sterilizzano ogni curiosità e provocano, per stanchezza, l’atteggiamento attuale di ingenua fiducia nella fragile tutela del negozio politico.
Nonostante la “soluzione olistica” della relazione uomo-ambiente sia stata sostenuta da una ricca ed autorevole messe di studi, l’analoga proposta di giovanissime attiviste – quali Greta Thunberg, Anuna De Wever e Kyra Gantois–, ancora prive della maturità culturale e della competenza scientifica richieste per fronteggiare tematiche di così rare difficoltà tecnica e criticità politica, è stata oggetto di reazioni discordanti, alcune delle quali inclini a tacciare di ingenuità i movimenti da loro ideati e guidati.
Un’ingenuità reale, come la freschezza nel contatto con la tematica ambientale e come la propensione ad una critica appassionata ma priva della necessaria pars construens: l’età acerba della sperimentazione cognitiva ed emotiva non può coincidere con la stagione matura della conoscenza e della strategia.
La “domanda” nasce prima della “risposta” e ovviamente non la possiede.
Il legame solidale fra giovani e adulti si rivela, dunque, essenziale: per non esaurirsi in mare, l’onda fresca del cambiamento deve trovare una riva amica che ne accolga lo sfogo naturale, e la "conoscenza" deve offrire alla “coscienza” un’impalcatura resistente alla quale aggrapparsi.
Anti-patriarcalismo come pro-ambientalismo?
Anuna e Kyra hanno meditato e steso il loro programma nel calore di una cucina, in un ambiente storicamente dedicato al femminile: la suggestione è forte.
Due esponenti della “Generazione Z” si sono sedute ad un tavolo di cui quasi certamente ignoravano la storia e l’inganno e, con essi, la plurisecolare destinazione dell’intelligenza, della fantasia e delle capacità all’angustia del focolare domestico, al recinto familiare che la società ha costruito intorno alla donna per limitarne e controllarne l’azione.
La casualità logistica può prestarsi ad alimentare la curiosità intorno ad una questione che è ormai divenuta un classico degli studi di genere: la relazione storica –e gli esperimenti di sintesi scientifica– fra ecologismo e femminismo, con particolare riferimento al fondamentale contributo dell’ecofemminismo,un movimento di pensiero risalente agli anni Settanta del Novecento, le cui molteplici espressioni emergono, su scala globale, da matrici identitarie non sempre accostabili, riflesso necessitato di differenti o antitetiche percezioni del femminile.
Con riferimento alla tradizione sociale, economica e giuridica occidentale, un’idea –accreditata dalla storia, dall’etica e dalla psicologia dell’ambiente– sembra supportare la definizione di un’evoluzione sincrona fra “questione di genere” e “questione ambientale”: l’idea che l’ecofemminismo sia stato, e sia tutt’oggi, una prova di emancipazione da una visione “androcentrica” e patriarcale, un esperimento di riscrittura del binomio donna-natura, per secoli consegnato alla destinazione di entrambe alla sola generazione e conservazione della vita e delle migliori condizioni nelle quali far prosperare la propria discendenza.
La “donna-moglie-madre” è subordinata all’ “uomo-marito-padre”, allo stesso modo in cui la “materia” è soggetta alla “forma”, il “corpo” alla “mente” e la “natura” alla “cultura”: ciò che non concerne il ventre (gestazione, nascita e accudimento), non riguarda convenzionalmente e legittimamente il femminile: il contesto “eso-familiare” è inadatto ad una struttura biologica “imperfetta”, cui non s’addicono, per antica ma sempre viva tradizione aristotelica, l’ambizione civica e l’azione politica.
La rivoluzione scientifica e l’economia di mercato rinsaldano i fondamenti teorici della segregazione delle donne: la “cultura” primeggia sulla “natura”, il soggetto “investigante” si separa prospetticamente dall’oggetto “investigato”, il “meccanico” surclassa l’ “organico”, il moderno «universo della precisione» assorbe l’antico «mondo del pressappoco», gli equilibri di sussistenza sono rotti dalla logica del profitto, e anche il mondo femminile scompare, asservito, dietro il paravento domestico.
Quando la vita attiva scivola quasi del tutto fuori dalla comunità familiare, le donne non possono seguirla, rimanendo ancorate al peso del loro corpo di spose e di madri.
La depressione del naturale provoca la persecuzione del femminile e l’originaria unione vitale muta in alleanza eversiva: le streghe bruciano per il loro legame con un mondo primitivo, reso ormai irrilevante e ostile.
Ma la carta più alta deve ancora calare sul tavolo della storia: la condivisione del destino di sottomissione della donna e della natura come espressione di una ben definita progettualità maschile, destinata a perpetrare nel tempo i suoi schemi, complicando a tal punto la trama da rendere impossibile distinguerne i fili.
“Madre natura”: un modello usato o abusato?
Se il potere della donna scaturisce, storicamente, dalla fertilità del suo grembo e si estende ai luoghi di crescita e di tutela della sua progenie, esso termina con l’esaurimento della capacità riproduttiva e della responsabilità di cura: consumata la sua funzione biologica e assolti i doveri familiari di sostentamento ed educazione della prole, la donna scivola nell’ombra, smarrendo significato e rilievo.
Non diverso destino sembra toccare alla natura, se assimilata alla donna: adempiuto il compito di alimentare e arricchire i figli umani, essa rischia di perdere interesse e valore ai loro occhi.
Possono, dunque, donna e natura, unite nella “cattiva” sorte, collaborare nella “buona”?
Può il successo nella lotta per il protagonismo pubblico femminile fare da volano alla battaglia per la tutela dell’ambiente e/o viceversa, spezzando il binomio (ri)produzione-cura nel quale si rinnovano (e si legittimano) la discriminazione di genere e l’aggressione alle risorse naturali?
La sovrapposizione fra donna e natura comporta l’inevitabile carico delle negatività stereotipiche della prima sulle spalle della seconda: l’immaginario maschile assimila in un’unica entità le due identità, confondendone i caratteri e le particolarità, e ingenerando, nel lungo percorso storico, un disordine concettuale che non manca di far sentire ancor oggi i suoi effetti.
L’amore per la Madre Terra, formato sull’amore ideale, è perfettamente coerente con il modello d’amore convenzionalmente e storicamente proposto in seno alle società umane.
Ne consegue che l’esortazione ad amare la madre, diretta ad un figlio che la raccoglie con il carico di conflitti che naturalmente porta con sé, è tutt’altra cosa dall’invito ad amare la natura, ovvero il modello materno artificiale e socialmente dominante.
Un modello, quest’ultimo, realizzato non sulla madre “carnale”, ma sulla madre “culturale”, cara alla società patriarcale.
Il processo di “femminilizzazione della natura” non sembra, quindi, procurare una concreta via di fuga dall’egemonia maschile e dalla mentalità patriarcale.
E vale la stessa conclusione se si sperimenta il processo inverso, ossia la “naturalizzazione della donna”, aderendo all’idea che la donna sia un essere “più vicino” alla natura.
In buona sostanza il risultato si rivela il medesimo: il legame “simpatico” fra femminile e naturale concorre, infatti, a de-umanizzare la donna, portandola ad identificarsi con l’ambiente che la circonda: “qualcosa” (la donna/natura) che appartiene a “qualcuno” (l’uomo/cultura).
Come rimediare, dunque, agli esiti del dualismo “natura/cultura”?
Catherine Roach auspica l’apertura di una “terza via” per la soluzione della dualità uomo-donna e uomo-ambiente, riconducibile alla bipartizione essenziale natura-cultura: l’ambiente, come la donna, non deve essere considerato come “solo natura” o “solo cultura”, ma come “natura e cultura”, “biodegradando” la dicotomia in una realtà ecologicamente neutra, premiante i rapporti di interrelazione e di interconnessione, che legano umano a umano, non-umano a non-umano e umano a non-umano.
Si segna, così, il passaggio dalla metafora della terra come “madre” alla metafora della terra come “prossimo”, che si prende cura di tutti e di cui tutti sono chiamati a prendersi cura.
Una cura che sfugge alle dinamiche misogine e patriarcali e diviene una divisa etica femminile capace di costruire salde reti relazionali e di sussistenza, inserendosi in una percezione olistica e biocentrica dell’ecosistema, in netto contrasto con l’imperante interpretazione androcentrica.
Se, dunque, l’ecofemminismo vanterà un primato negli anni futuri, lo farà su di un terreno nuovo, quello della coscienza ecologica, al di là del linguaggio metaforico e della consolazione olistica.
Una coscienza forse meno sapiente e più percipiente, improntata a devozione, ossia ad un amore filiale scevro di passione e di egoismo, che segue un unico, salvifico comandamento: “Onora la Madre”.
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