Ripoliticizzare le questioni socioecologiche e ribadire la matrice capitalistica, razzista, coloniale e patriarcale della crisi ecologica.

tratto da "Quaderni geografici"; intervista di V. Bini a M.Armiero.


Ripoliticizzare le questioni ecologiche implica quella ossessiva ricerca di “chi vince e chi perde” che accompagna tutte le narrazioni di ecologia politica; il rifiuto di una narrazione anestetizzata delle contraddizioni socioecologiche, tipica del mainstream, e la ricerca di una narrazione controegemonica. 

L'ecologia politica è una "community of practices" riconoscibile da un certo stile narrativo; una comunità che reagisce contro quella che Robbins ha definito l’ecologia "apolitica".
L’ecologia politica è quel campo di ricerca "indisciplinato" dove si guarda alle relazioni socioecologiche senza nascondere il potere e le diseguaglianze.
Le scienze umane dell'ambiente, o Environmental Humanities (EH), sono per molti aspetti simili all'ecologia politica: si tratta di un campo di studi che va al di là delle discipline tradizionali e che invita studiosi con background diversi al dialogo su "questioni" piuttosto che su teorie o metodi. 
Una collaborazione e ibridazione tra EH ed ecologia politica sarebbe molto auspicabile: una sorta di "iniezione di classe/razza/genere" in un campo di ricerca che a volte sembra essere meno incline a riconoscere le relazioni di potere e il bisogno di liberazione che invece l’ecologia politica ha posto al centro della sua analisi. 

Un importante merito delle Environmental Humanities sta nell’aver posto la questione del non-umano, che non contraddice ma al contrario arricchisce l’agenda di una "ripoliticizzazione della crisi socioecologica". 
Lo sfruttamento dell’umano e del non umano vanno di pari passo, ma questo non vuol dire sposare una retorica di specie che annulli le differenze di classe, genere, razza o storia. 
Lo sfruttamento del non umano sta dentro le logiche di estrazione del valore e di espropriazione che hanno disegnato la modernità del capitalismo razzista e patriarcale. 

Secondo Joan Martinez Alier l’ecologia politica studia i "conflitti ecologici redistribuitivi" generati dall’espansione del metabolismo umano. 
Cosa sono se non conflitti ambientali le lotte contro le enclosures, quelle per la difesa dei commons, o le tante rivendicazioni urbane ed operaie? 
I conflitti ecologici investono la questione della redistribuzione dei rischi e dei benefici ambientali; hanno quindi una base fortemente materialista, fatta di flussi di tossine, appropriazione di risorse, relazioni metaboliche tra corpi e ambienti, consumo di acqua, suolo o terra. 
Ma proprio in questa loro radicale materialità i conflitti ambientali sono anche (sempre) conflitti intorno a narrazioni contrapposte, a saperi contrastanti, al diritto al riconoscimento di un torto subito che non si esaurisce in una compensazione monetaria. 
Sopra l’ingiustizia ambientale si monta una "infrastruttura narrativa tossica" che la normalizza, naturalizza o invisibilizza, per arrivare poi a colpevolizzare le vittime dell’ingiustizia subita. 
Basti pensare al discorso sugli ‘stili di vita’ (che sempre arriva) laddove ci sono situazioni di contaminazione estrema: "non solo ci si ammala perché vittime di un sistema di produzione di ricchezza basato sul sacrificio dei subalterni, ma si è anche accusati di ammalarsi perché non moderni e sani abbastanza". 

Dal punto di vista della produzione del sapere, il conflitto ambientale produce sempre un conflitto di saperi, perché è molto difficile che il danno o il rischio ambientale siano riconosciuti da tutte le parti in causa. 
Stabilire un nesso causale diretto e certo tra un problema ecologico e una malattia subita è estremamente difficile, tanto più considerando le diseguaglianze di potere e la disparità dei mezzi a disposizione delle parti in causa: la scienza non è gratis e nemmeno sempre così disinteressata. 
Grandi corporations e comunità subalterne non dispongono degli stessi mezzi e spesso le ricerche sono estremamente complesse e dispendiose. 

L’ecologia politica non può ignorare una dimensione narrativa dei conflitti ambientali che cancella l’ingiustizia subita, che la normalizza trasformando le vittime in colpevoli.
Stefania Barca ha parlato di una narrative justice, una "giustizia narrativa", come una componente fondamentale delle lotte per la giustizia ambientale, mentre io ho più volte proposto l'idea di una "guerrilla narrativa" contro le narrative tossiche mainstream. 

Bisogna ripoliticizzare i saperi che traducono i conflitti ambientali in dati scientifici, nessi causali, verità o dubbi.

Negli ultimi anni è cresciuto il dibattito sul cosiddetto “Antropocene” e sulle sue alternative (Capitalocene, Technocene, Chthulucene, ecc…). 
L’Antropocene è ovunque; come è noto, la tesi è semplice: gli esseri umani sono diventati una forza geologica in grado di modificare i cicli bio-geo-chimici dell’intero pianeta. 
Insomma, saremmo entrati in una nuova era geologica: l’Antropocene, ma scienziati sociali, artisti e studiosi di scienze umane hanno manifestato da subito le loro perplessità.
Gli umani sarebbero i responsabili della crisi ecologica attuale, tutti, senza distinzioni; per questo sono stati proposti altri nomi che evocassero con maggiore chiarezza le diverse responsabilità della crisi. 
"Capitalocene" è il nome che ha riscosso maggior successo, perché rimanda chiaramente ad un particolare sistema economico e sociale, rifiutando la logica “di specie” dell’Antropocene. 
Altrettanto interessanti sono le proposte di quanti insistono sulla matrice coloniale e razzista della crisi ecologica, suggerendo concetti come "Plantationocene"

In un volume recentemente pubblicato ho proposto l’idea di un "Wasteocene": un’era dominata non tanto dai rifiuti in quanto tali ma da un insieme di wasting relationships che producono continuamente luoghi e persone di scarto. 
Il Wasteocene parla di tossicità e luoghi incontaminati, perché ogni "gated community" ha la sua discarica.
Parla di narrazioni tossiche e guerrilla narrativa, perché dentro ogni storia mainstream si agitano mille (narr)azioni di sabotaggio.
Parla delle emergenze che rendono visibile il Wasteocene e delle soluzioni che provano solo a riprodurre le wasting relationships piuttosto che cambiarle. 

Tuttavia, non credo che il nome cambi la cosa; credo sia più interessante ribadire la matrice capitalistica, razzista, coloniale e patriarcale della crisi ecologica.
È interessante cosa si dice di questa crisi ecologica più di come la si chiami; per questa ragione ogni attrezzo narrativo, come una chiave inglese, può servire a mettere insieme i pezzi alla catena di montaggio, oppure a sabotare e magari inventarsi qualcosa di nuovo.
Abbiamo bisogno di saperi indisciplinati perché è nel conflitto che si genera ciò che prima non c’era; la mia proposta di storia ambientale è quella di una "tenda accogliente nel deserto accademico fatto da appartenenze disciplinari asfissianti". 
Chiunque è benvenuto/a, chi intenda fare insieme solo un pezzo di strada e chi invece decida di stabilirsi in quella tenda che tuttavia rimane, pur sempre, una tenda mobile e agile, nomade e senza ambizioni di fortificarsi. 


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