La struttura di potere e dei modi di pensare costruita durante il colonialismo non è un dato del passato: i suoi effetti perdurano ben oltre la fine delle amministrazioni coloniali.

tratto dall'introduzione di Gennaro Avallone al libro di R. Grosfoguel "Rompere la colonialita'".

https://www.academia.edu/36188936

L’eredità coloniale continua ad influenzare le relazioni sociali a livello mondiale e all’interno delle diverse aree nazionali e regionali, attraverso la sua capacità di classificare le popolazioni fondata sulla combinazione di diverse gerarchie: razziali, religiose, di genere, di classe, spaziali ed epistemologiche.

Questa eredità è viva nelle pratiche e nei discorsi che governano le società attuali, ed è particolarmente evidente nel caso delle migrazioni, con effetti di riproduzione dei rapporti di dominio/subalternità, che convivono con processi di conflitto orientati in direzioni divergenti; come evidenziano in diverse parti del mondo, le lotte delle persone in fuga e quelle dei popoli indigeni.

La costruzione dei rapporti di forza su base razziale nella modernità, attraverso l’intersezione con altre articolazioni del dominio, è stata influenzata da una cornice epistemologica che ha classificato gerarchicamente i saperi delle differenti popolazioni, contrapponendo quelli definiti come universali agli altri considerati particolaristici, dunque inferiori.

La colonialità come modalità gerarchica di conoscenza del mondo

Il punto di partenza dell’analisi risiede nella ridefinizione dei caratteri attribuiti alla modernità; riconoscendone come costitutivi, e non semplici accidenti accessori, i rapporti di colonialità che ne esprimono l’altra faccia, il lato oscuro.

La colonialità agisce ai diversi livelli della vita sociale e politica: è uno degli elementi costitutivi e specifici del modello mondiale di potere capitalistico. 

Si fonda sull’imposizione di una classificazione razziale/etnica della popolazione del mondo ed opera in ognuno dei piani, ambiti e dimensioni, materiali e soggettive, dell’esistenza quotidiana e a scala societaria.

Essa costituisce un principio che continua ad operare sui soggetti e gli spazi sociali nel sistema-mondo, strutturando i rapporti di potere a scala globale così come nelle singole società e regioni locali, oltre l’esistenza storica degli imperi e stati coloniali. 

La colonialità non si limita ad agire al livello sociale e politico, ma investe anche le strutture epistemologiche, cioè l’organizzazione dei modi di conoscere e pensare il mondo. 

La sua affermazione storica è stata alimentata da quattro epistemicidi che si sono intrecciati tra loro, all’origine della modernità, attraverso la distruzione dei saperi: 

1) di musulmani ed ebrei nella conquista di Al-Andalus;

2) dei popoli indigeni nel continente americano e in Asia;

3) degli africani ridotti in schiavitù;

4) delle donne perseguitate ed accusate di stregoneria in Europa. 

Il mondo si è organizzato, sin dalle origini della modernità, mediante l’esperienza coloniale, che ha costituito specifiche relazioni sociali di potere e specifici modi di pensare, che si sono diffusi andando oltre la stessa realtà storica del colonialismo. 

La colonialità, cioè l’organizzazione del mondo maturata all’interno della storia dei rapporti coloniali, non si è esaurita con la conclusione delle dominazioni coloniali, ma è sopravvissuta ad esse in ogni dimensione della vita associata, da quelle socio-politiche e socio-ecologiche a quelle epistemologiche, relative cioè alle categorie ed alle classificazioni attraverso le quali si pensa, si struttura e si tende a riprodurre il mondo.

La critica di queste relazioni, che si esprimono non solo nella colonialità del potere, ma anche nella colonialità del sapere, nella colonialità dell’essere e nella colonialità della natura, è stata centrale nella costruzione della proposta decoloniale. 

Rompere con il principio di colonialità è necessario per andare definitivamente oltre le relazioni di dominio di tipo coloniale, dunque per decolonizzare il mondo, le sue strutture di potere e di pensiero.

Perché ciò accada bisogna riconoscere quanto questo principio sia stato pervasivo nella modernità.

All'origine di questo principio ordinatore sono la conquista dell’America, iniziata nel 1492, e quella di Al-Andalus completata nello stesso anno.

Con la vittoria definitiva della Monarchia spagnola a Granada, si impose l’imperativo dell’uni (uni-versale, uni-voco, uni-tario) – uno Stato, una identità, una religione – antagonista a qualunque pluriversalismo.

Le affermazioni politiche e militari del 1492 diedero avvio a processi densi di profonde conseguenze culturali, epistemiche, socio-ecologiche e socio-economiche, che costruirono una civiltà. 

Ma se l’analisi si concentrasse solo sul capitalismo, si perderebbe la complessità della modernità: una civiltà la cui matrice (coloniale) di potere non si è esercitata solo nell’ambito dei rapporti socio-economici ma ha costituito un sistema-mondo "capitalistico/patriarcale", "occidentalocentrico/cristiano-centrico", "moderno/coloniale”. 

L’assunzione della teoria del sistema-mondo elaborata da Wallerstein, Hopkins ed Arrighi e, insieme, della critica del capitalismo nei termini dell’analisi marxiana dei rapporti di sfruttamento e della tendenza al divenire globale del mercato e dei suoi specifici rapporti di produzione capitalistici, viene considerata necessaria ma non sufficiente. 

In altre parole, la matrice di potere attraverso la quale i rapporti sociali si sono dispiegati negli ultimi cinque secoli, comprende i rapporti capitalistici ma non si riduce ad essi. 

Questi ultimi si sono combinati con ulteriori rapporti di dominazione e specifiche tassonomie gerarchiche, che hanno organizzato le popolazioni del pianeta secondo la “differenza coloniale”: un dispositivo capace di classificare le popolazioni in base alle loro carenze ed ai loro eccessi, individuati con riferimento ad un modello universale, corrispondente a quello eurocentrico.

Il mondo è organizzato gerarchicamente e questo si dispiega su diversi livelli: dai modi di pensare ai contenuti della conoscenza, dai generi alle razze, dai territori alle religioni. 

È in questo senso che la colonialità, cioè il principio di classificazione gerarchica dei popoli e dei saperi, prosegue oltre la vigenza storica delle colonie e del colonialismo e richiede, se si vuole andare verso un mondo definitivamente decolonizzato, di assumere un approccio pluriversale, oltre gli universalismi provinciali, in modo da "ripensare il sistema-mondo moderno da vari luoghi e diverse esperienze".

In un contesto strutturalmente bloccato nei vincoli della colonialità, la decolonizzazione è un’opportunità politica ed epistemologica. 

I conflitti e le molteplici lotte agite da diverse popolazioni in molteplici aree geografiche – dai popoli indigeni, soprattutto in America Latina ed Africa; dai migranti, specialmente dentro ed attorno allo spazio europeo; dalle cosiddette minoranze etniche e razziali, soprattutto negli Stati Uniti, ad esempio con il movimento Black lives matter; dalle popolazioni locali in ambito socio-ecologico contro le politiche estrattiviste ed in opposizione alle pratiche di espropriazione in tutti i continenti; da studenti e docenti per università decolonizzate, come nel caso del movimento sudafricano Rhodes must fall, sono esempi di come, da tempo, il principio di colonialità sia in discussione. 

Queste lotte stanno dimostrando che i subalterni possono parlare e, anzi, stanno parlando da tempo, costruendo una metodologia di resistenza alle diverse forme di dominazione.

Le conquiste, così come gli studi decoloniali, hanno tracciato una strada, che ha avuto, negli ultimi tre decenni, successi ed insuccessi; mentre lo stato del mondo, attraversato dalla vigenza di rapporti razzisti, sessisti e classisti e di strutture epistemologiche discriminanti, rende evidente quante sfide ci siano ancora davanti per costruire una prospettiva di liberazione dallo schema coloniale dei rapporti di potere strutturatosi lungo la modernità.


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