Il più grave crimine ambientale, dal punto di vista delle generazioni future, sarà non aver agito nei confronti del cambiamento climatico.

tratto da "Cambiamento climatico e green criminology"; di L. Natali e R. Cornelli.

https://doi.org/10.7347/RIC-022019-p156

La "green criminology" studia i danni all'ambiente commessi da attori istituzionali dotati di potere – governi, multinazionali, apparati militari – e da persone comuni.

Studia, inoltre, le varie forme di (in)giustizia che emergono dalla relazione tra l’uomo e l’ecosistema.

La green criminology suggerisce di alzare lo sguardo verso l’ecosistema in cui ciascuno di noi è immerso e, così facendo, apre uno spazio capace di ospitare anche i complessi legami tra criminologia e riscaldamento globale. 

Alzare lo sguardo significa innanzitutto confrontarsi con l’indicazione di un ecosistema prossimo al collasso e, con riferimento al cambiamento climatico, come fenomeno che più di altri è in grado di esprimere la connessione tra il senso di un’imminente “fine del mondo”, per citare un concetto caro a Ernesto De Martino, e le azioni dell’uomo. 

Il progressivo e sempre più rapido riscaldamento terrestre ha un’estensione che produce effetti sull’intero globo mai vista precedentemente.

Di fronte all’inesorabilità di ghiacciai che fondono, mari che s’innalzano, desertificazione, erosione delle coste, salinizzazione delle falde acquifere e i loro effetti sulle forme dell’agricoltura, dell’allevamento e della pesca, sul turismo, sui processi di impoverimento e sugli spostamenti di popolazioni, il richiamo a fare qualcosa si fa impellente, estremo e al limite del possibile. 

La criminologia dovrà riflettere tenendo conto che una delle questioni più scottanti riguarda certamente il fatto che stiamo “interagendo con un sistema ad elevata complessità, pieno di effetti di retroazione” per la maggior parte impossibili da prevedere.

Riscaldamento globale e sapere criminologico green.

Il global warming può essere descritto efficacemente come una trasformazione globale e progressiva, che si compie nel tempo. 

Dal punto di vista delle generazioni future, agire o, viceversa, non agire nei confronti del cambiamento climatico, rappresenterà molto probabilmente il più grave dei crimini ambientali transnazionali.

Pur avendo una portata globale, tale fenomeno colpirà in maniera differenziata le popolazioni a seconda della zona geografica in cui vivono, dell’appartenenza sociale e di genere e della posizione che occupano nel quadro dell’economia politica globale. 

Un caso peculiare di vittimizzazione ambientale relazionata al cambiamento climatico è quello che interessa la popolazione e il territorio delle Maldive. 

In questa zona geografica, l’aumento del livello del mare associato al cambiamento climatico sta mettendo a serio rischio le condizioni di vita e l’economia delle comunità locali. 

È questo un caso di impatto diseguale del cambiamento climatico su popolazioni e territori spesso già poveri – ciò che si definisce “vittimizzazione ambientale differenziale”. 

In tali contesti, il fenomeno della sofferenza sociale (social suffering) finisce spesso per combinarsi con quello della sofferenza ambientale (environmental suffering), aggravando il divario tra ricchi e poveri.

Una delle questioni rilevanti all’interno di una prospettiva criminologica, riguarda la possibilità che le multinazionali e gli stessi Stati vengano ritenuti giuridicamente responsabili – secondo il diritto internazionale – per i danni che le comunità di pescatori dell’isola stanno subendo e di cui non sono responsabili.

Guardando ai crimini che possono essere relazionati al cambiamento climatico si possono individuare, in linea generale, tre categorie: 

1) i crimini ambientali che contribuiscono al fenomeno (inquinamento dell’aria o riduzione degli habitat naturali, per esempio); 

2) le condotte devianti che possono originarsi dalle sue conseguenze;

3) gli illeciti riguardanti la violazione di norme finalizzate a rispondere a tale fenomeno.

Rispetto a quest’ultimo punto, si suggeriscono in particolare tre ambiti per la ricerca criminologica: 

1) biosicurezza, sicurezza nazionale e risoluzione dei conflitti: come nel caso di crimini ambientali connessi alla produzione e al consumo di cibo o in riferimento ai fenomeni migratori indotti dal cambiamento climatico; 

2) norme (e soprattutto la loro applicazione) che riguardano il cambiamento climatico: per esempio, la regolamentazione e l’uso di acqua e di energia; 

3) strategie volte alla riduzione del fenomeno: dentro questa ampia cornice di analisi, un esame delle modalità con le quali i grandi poteri economici hanno risposto al riscaldamento globale evidenzia l’impiego di specifiche strategie volte a minimizzarlo: mettere in dubbio la scienza che studia il cambiamento climatico, enfatizzare i costi economici necessari per affrontarlo o influenzare direttamente i negoziati che se ne occupano attraverso azioni di lobbying.

Le più autorevoli istituzioni scientifiche internazionali hanno ormai riconosciuto che il riscaldamento globale esiste, sta crescendo a ritmi accelerati negli ultimi anni ed è con alta probabilità prodotto prevalentemente dalle attività umane.

Una rilettura critica dei modelli produttivi e di consumo oggi dominanti, sarà senza dubbio ineludibile.

Coerentemente con questa lettura del fenomeno, alcune possibili azioni da intraprendere nel campo dei crimini ambientali relazionati al cambiamento climatico sarebbero le seguenti: 

  • indebolire i processi di diniego e normalizzazione che spesso ne occultano le conseguenze dannose; 

  • impegnarsi in posizioni di attivismo, al fine di sostenere i movimenti sociali nelle loro lotte contro il potere delle multinazionali; 

  • favorire la mitigazione degli effetti del cambiamento climatico promuovendo, da un lato, nuove visioni del rapporto uomo-natura e dall’altro, differenti rapporti tra istituzioni politiche ed economiche;

  • fornire un aiuto scientifico alle istituzioni internazionali che si occupano di regolare e controllare il riscaldamento globale; 

  • sviluppare maggiormente, anche all’interno del campo green, approcci di “public criminology”, creando le condizioni per comunicare i risultati conoscitivi a un pubblico più esteso di quello esclusivamente accademico. 

Il cambiamento climatico come "general accident"

È possibile sostenere che la tecnologia presenti una connaturata ambivalenza: da un lato porta molti benefici, dall’altro produce inevitabili rischi e incidenti – la cui analisi e gestione sono tradizionalmente delegati alla scienza e alla politica. 

Come sappiamo benissimo, però, nello scenario della contemporaneità i rischi non sono più facilmente localizzabili e delimitabili.

Per rendere evidente questo passaggio, ci si sofferma su una specifica innovazione tecnologica relazionata con il problema ecologico dell’assorbimento di carbonio: la motosega alimentata a benzina. 

Questa tecnologia, facilitando la rimozione degli alberi più imponenti ha, progressivamente, avviato uno slittamento monumentale nelle economie di scala che riguardano la trasformazione delle foreste, grazie anche alla contestuale invenzione di altre tecnologie, come i bulldozer e i camion a rimorchio, che hanno consentito la costruzione di strade in zone fino a poco prima impenetrabili. 

I cambiamenti radicali così introdotti hanno fatto sì che le foreste diventassero veri e propri ambienti tecno-industriali e che i loro paesaggi peculiari venissero irrevocabilmente alterati. 

Mentre le tecnologie precedenti (come l’ascia per tagliare la legna) potevano produrre solo incidenti estremamente circoscritti, come la migrazione o la perdita di determinate specie di quel territorio, l’invenzione della motosega ha inaugurato incidenti di portata ben differente, capaci di trasformare gradualmente mondi interi. 

Le foreste hanno così iniziato a essere ridotte a unità economiche e i loro complessi ritmi ecologici a essere letteralmente “tagliati via” dai mondi sociali e naturali. 

In tale prospettiva, la conversione dei “tempi delle foreste” nei “tempi industriali” ha avuto un ruolo decisivo nella riduzione dei depositi di carbonio (“carbon density”).

In breve, l’insieme di queste trasformazioni complesse e cumulative ha contribuito a generare quel general accident che conosciamo con il nome di “riscaldamento globale”.

De-industrializzare il nostro sguardo sulla natura: i disastri ambientali tra natura e cultura.

Sebbene i disastri ambientali siano spesso inquadrati come “incidenti” e non come “crimini”, definiti come “naturali” piuttosto che “innaturali", essi sollevano importanti questioni legate alla colpevolezza, alla responsabilità e all’ingiustizia che anche i criminologi dovrebbero prendere in seria considerazione. 

La storia non è certo arida di simili esempi, che rappresentano i tragici effetti del turbolento punto di intersezione e con-fusione tra natura e presenza umana. 

Uno dei concetti più utili e fecondi per questi livelli di analisi è quello di "blaming", o attribuzione di colpa, elaborato dall’antropologa Mary Douglas. 

Quando un disastro naturale si impone all’opinione pubblica, infatti, l’attribuzione di responsabilità e la ricerca del colpevole diventano inevitabilmente oggetto di un dibattito al cui interno i vari gruppi sociali lottano per definire i limiti morali della vita collettiva. 

A tali processi partecipano i mass media, l’opinione pubblica, le autorità politiche e i movimenti collettivi. 

Un automatismo funesto consiste nel traslare la colpa per omissione – che vale per chi avrebbe dovuto e potuto agire ma non lo ha fatto – su un capro espiatorio che potrà essere, di volta in volta, Dio, la Natura o la Tecnica. 

Il mondo è in transizione continua, e noi con esso, incessantemente. 

Diventa pertanto decisivo educare la nostra attenzione, il nostro pensiero e il nostro sguardo alla lettura di quelle pieghe a volte graduali, impercettibili e “silenziose” – come nel caso del riscaldamento globale –, a volte più drastiche e improvvise – come avviene per le catastrofi e le calamità naturali –, che trasformano drammaticamente il nostro ambiente.

Nell’ambito di quella che consideriamo una criminologia green “d’elaborazione”, ossia che elabora domande e produce concetti, ci chiediamo: come possiamo trasformare lo scenario ambientale attuale in modo tale che esso si orienti progressivamente in senso favorevole alla “cura” del mondo? 

Una via utile sembra quella di intervenire discretamente a monte, ossia “al livello delle condizioni”, più che a valle, ossia “nella spettacolarità dell’azione e nell'urgenza della riparazione”, cosa peraltro difficilmente realizzabile in campo ambientale.

D’altra parte, se siamo già dentro al male significa anche che possiamo ribellarci ad esso e lottare contro i suoi effetti. 

Uno dei modi per farlo è quello di demitizzare il male, che significa disancorare l’idea di “disastro naturale” dalle narrazioni consolatorie che lo inseriscono in un disegno più ampio e inevitabile. 

Così facendo, il problema del “male” si inserisce a buon diritto nella dimensione della nostra libertà e delle nostre ragioni, anziché in una "sfera metafisica" inappellabile e inaccessibile.

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