L''ecologia è sovversiva, poiché mette in discussione l'assunto fondamentale secondo cui il nostro orizzonte è il continuo aumento della produzione e dei consumi.

tratto da "La scommessa della decrescita" (Introduzione); di Serge Latouche.

Sembra ormai chiaro che oggi viviamo nell'epoca della sesta estinzione delle specie; la quinta, che si è verificata nel Cretaceo 65 milioni di anni fa, aveva visto la fine dei dinosauri e di grandi altri animali, probabilmente a causa dell'impatto della terra con un asteroide, ma era avvenuta in un arco di tempo ben più lungo rispetto a quello delle catastrofi attuali.

Dopo decenni di frenetico spreco, siamo entrati in una zona di turbolenza, in senso proprio e figurato.
L'accelerazione delle catastrofi naturali (siccità, inondazioni, cicloni) è già in atto; ai cambiamenti climatici si accompagnano le guerre del petrolio, del gas (alle quali seguiranno quelle dell'acqua), ma anche pandemie e catastrofi biogenetiche.

Stiamo andando dritti contro il muro, restano da calcolare solo la velocità con cui ci stiamo arrivando e il momento dello schianto.
Proseguire con questa dinamica di crescita ci metterà di fronte alla prospettiva di una scomparsa della civiltà così come la conosciamo, non fra milioni di anni o qualche millennio, ma entro la fine di questo secolo.

La causa di tutto ciò è il nostro stile di vita fondato su una crescita economica illimitata; malgrado ciò il termine "decrescita" suona come una sfida o una provocazione, e nel nostro immaginario la forza della religione della crescita dell'economia è tale, che parlare di decrescita risulta letteralmente blasfemo, e chi si rischia a farlo è quantomeno considerato iconoclasta.

È inutile stilare la lista delle catastrofi ecologiche già in atto o preannunciate, lo scenario è fin troppo noto, il problema è che non riusciamo ad afferrarne la portata: la catastrofe è inimmaginabile fino a quando non si è realmente prodotta.
Siamo anche perfettamente consapevoli di ciò che sarebbe necessario fare, ovvero cambiare orientamento, ma in pratica non facciamo nulla.
Si continuano a mantenere i medesimi orientamenti, addirittura perseguendoli con maggior forza; ma la crescita è davvero l'unica via d'uscita alla crisi della crescita?

Crescita! crescita! crescita!

È una posizione conforme alla più stretta ortodossia economica; secondo l'economista Beckerman è evidente che, per quanto la crescita economica sia, abitualmente e in un primo tempo, causa di degrado ambientale, in fin dei conti per la maggior parte dei paesi, il modo migliore e probabilmente l'unico, per avere condizioni ambientali decenti è arricchirsi; questa posizione filo crescita è ampiamente condivisa.

Tuttavia, così facendo, si elude la questione del suo contenuto qualitativo (chi si è migliorato?), o della sua ripartizione, e soprattutto si eludono anche questioni relative alla sua reale identità che, se dovessero essere rese note, rischierebbero di indebolire la religione dei tassi di crescita.

Solo poche voci discordanti propongono una "decelerazione della crescita"; anche se si tratta di una posizione che, pur partendo da buone intenzioni, si rivela in fin dei conti inefficace, poiché ci priverebbe dei vantaggi della decrescita: "ridurre la velocità ma non invertire la rotta", la decelerazione consiste esattamente in questo.

La scommessa della decrescita è in realtà il progetto di una società autonoma ed economa, che ritrova linfa dalla fine degli anni '60 grazie al contributo di teorici come Illich, Gorz e Castoriadis.

Il fallimento dello sviluppo nel Sud del pianeta e la perdita di punti di riferimento nel Nord, hanno portato molti analisti a rimettere in discussione la società dei consumi e le sue basi immaginarie: il progresso, la scienza, la tecnica.
La presa di coscienza della crisi ambientale introduce una dimensione nuova: l'idea di decrescita nasce dunque sia dalla consapevolezza della crisi ecologica, che dalla tradizione della critica della tecnica e dello sviluppo.

La decrescita non è un concetto, almeno non nel senso tradizionale del termine, è improprio parlare di teoria della decrescita, come gli economisti hanno fatto per le teorie della crescita.
Decrescita non è il termine simmetrico di crescita, ma uno slogan politico con implicazioni teoriche: è un termine esplosivo che mira ad interrompere la cantilena dei "drogati del produttivismo".
Decrescita è una parola d'ordine che significa abbandonare radicalmente l'obiettivo della crescita per la crescita, un obiettivo il cui motore non è altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale e le cui conseguenze sono disastrose per l'ambiente.

Bisognerebbe parlare, più che di de-crescita, di a-crescita; così come si parla di ateismo poiché si tratta di abbandonare una fede e una religione: quella dell'economia, della crescita, del progresso e dello sviluppo.
Decrescita è uno slogan che raccoglie gruppi e individui che hanno formulato una critica radicale dello sviluppo e sono interessati ad individuare gli elementi di un progetto alternativo per una politica del dopo-sviluppo.

È dunque una proposta per riaprire lo spazio dell'inventiva e della creatività, dell'immaginario bloccato dal totalitarismo economicista e sviluppista.

I limiti della crescita sono definiti, nel contempo, sia dalla quantità disponibile di risorse naturali non rinnovabili sia dalla velocità di rigenerazione della biosfera per le risorse rinnovabili.

Storicamente, nella maggior parte delle società, queste risorse erano considerate essenzialmente beni comuni che, nella maggioranza dei casi, non appartenevano a nessun singolo individuo; ciascuno poteva goderne nei limiti delle regole d'uso della comunità.
Perlopiù, l'assenza di mercificazione sistematica dei beni naturali, e i "costumi", limitavano i prelievi a un livello che non ne comprometteva la riproduzione; la rapacità dell'economia moderna e la scomparsa dei vincoli comunitari, quelli che Orwell chiamava "decenza comune", hanno trasformato l'uso di queste risorse in saccheggio sistematico.

In definitiva si prescinde dall'ambiente, lo si pone al di fuori della sfera degli scambi mercantili e nessun dispositivo si oppone alla sua distruzione; in realtà la concorrenza e il mercato, che ci forniscono il cibo alle migliori condizioni, hanno effetti disastrosi sulla biosfera.
Nulla interviene a limitare il saccheggio delle risorse naturali, la cui gratuità permette di abbassare i costi; il saccheggio dei fondali marini e delle risorse alieutiche sembra irreversibile, e la dilapidazione di minerali prosegue in modo irresponsabile.

Gli indiani della British Columbia, costa occidentale del Canada (kwakiutl, haida, ecc...), hanno invece dato un buon esempio di rapporti armoniosi tra uomo e biosfera: pensavano che i salmoni fossero esseri umani come loro che vivevano in tribù in fondo al mare, dove avevano le tende, e d'inverno decidevano di sacrificarsi per i loro fratelli terrestri, rivestendo le loro sembianze di salmoni e dirigendosi verso le foci dei fiumi.

Nella stagione in cui risalivano il fiume, gli indiani accoglievano il primo salmone come un ospite importante e lo mangiavano durante una cerimonia; il suo sacrificio era tuttavia considerato un prestito provvisorio e ne riportavano in mare lo scheletro e i resti, permettendo così la rinascita dell'ospite precedentemente mangiato; in questo modo si perpetuava un'armoniosa convivenza fra salmoni e uomini.

Con l'arrivo dei bianchi e l'insediamento, a ogni estuario, di industrie conserviere, la corsa al profitto ha portato ad un prelievo eccessivo; secondo gli indiani, i salmoni sono scomparsi perché i bianchi non hanno rispettato il rituale...
Chi potrebbe loro dar torto?

La relazione di queste tribù con la natura, come quella della maggior parte delle società tradizionali, si fonda su un armonioso inserimento dell'uomo nel Cosmo.

Queste concezioni implicano rapporti di reciprocità tra uomini e resto dell'universo: gli uomini sono pronti a darsi alla terra così come la terra si è data a loro; eliminando la capacità di rigenerazione della natura, riducendo le risorse naturali a una materia prima da sfruttare invece di "attingerne", la modernità ha eliminato questo rapporto di reciprocità.

Il problema è che continuiamo a parlare di ecologia senza invertire radicalmente la rotta; a questo si aggiunge che, per abitudine o incoscienza, le istituzioni tendono a incoraggiare ogni forma di inquinamento (pesticidi, concimi chimici) con esenzioni fiscali, e continuano a finanziare progetti che distruggono l'ambiente dei paesi del Sud con il pretesto della lotta contro la povertà.

Si è addirittura arrivati a pensare che l'unico rimedio alla tragedia della scomparsa di numerosi beni comuni fosse la loro completa eliminazione; i convinti sostenitori della "deregulation" affermano che solo l'interesse privato e la rapacità degli individui potrebbero limitare la sua dismisura: bisognerebbe privatizzare l'acqua e l'aria, ma anche i pesci degli oceani e i batteri delle foreste tropicali per "salvarle dai predatori".

È esattamente quanto fanno le società transnazionali, con il sostegno degli stati nazionali e delle istituzioni internazionali, contro le quali le popolazioni insorgono in tutto il pianeta; la gestione dei limiti della crescita è diventata una questione intellettuale e politica.

È dunque necessario precisare in cosa il progetto di una società della decrescita si distingua, per coglierne la specificità e la relativa novità.

Il carattere durevole che l'espressione "sviluppo sostenibile" ha reso di moda, non riguarda lo sviluppo realmente esistente, ma la riproduzione; la riproduzione sostenibile ha regnato sulla Terra all'incirca fino al XVIII secolo ed è ancora possibile trovare esperti di riproduzione sostenibile tra gli anziani dei paesi del Sud del mondo.

Gli artigiani e gli agricoltori che hanno conservato gran parte dell'eredità dei modi ancestrali di fare e pensare, vivono generalmente in armonia con il loro ambiente; non sono predatori della natura, e ancora nel XVII secolo, negli editti sulle foreste, si possono osservare misure che andavano contro la logica mercantile, perché si trattava di mantenere un patrimonio e non di trarne profitto.

Ecco lo sviluppo sostenibile, si dirà; allora bisogna dirlo anche di tutti quei contadini che piantavano ulivi e fichi di cui non avrebbero mai visto i frutti pensando alle generazioni successive, senza esservi costretti da alcun regolamento ma semplicemente perché i loro genitori, i loro nonni e tutti coloro che li avevano preceduti avevano fatto lo stesso.
Riproduzione sostenibile non significa "immobilismo conservatore": la società vernacolare è stata durevole, afferma Goldsmith, poiché ha adattato il proprio modo di vita all'ambiente; mentre la società industriale non può sperare di sopravvivere dal momento che si è sforzata, al contrario, di adattare l'ambiente al proprio modo di vita.

Oggi, non possiamo più permetterci questa saggezza degli antichi; la riproduzione in termini "identici" del nostro sistema produttivo, una sorta di stato stazionario, non è più possibile: la situazione attuale implica un vero cambio di civiltà, per ritrovare un modo di funzionare davvero sostenibile e durevole.

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