Nelle profonde trasformazioni che hanno investito il rapporto tra cittadinanza e sovranità, è la stessa figura del cittadino a essere messa in discussione.
tratto da "La trasformazione del capitalismo e gli spazi per una politica del diritto"; di C. Giorgi.
https://www.academia.edu/40808789
Embedded liberalism
Ad accomunare i vari stati europei a partire dal secondo dopoguerra era stata la formula di una organizzazione economica e politica definita "embedded liberalism", capace di garantire per tutti gli anni Sessanta alti tassi di crescita economica nei paesi a capitalismo avanzato.
Le linee di tendenza di questa “fase” sono riassumibili in politiche di redistribuzione, controlli sulla libertà di movimento del capitale, ampliamento della spesa pubblica, creazione e crescita del welfare, interventi attivi dello Stato in economia, un certo grado di pianificazione dello sviluppo, applicazione di politiche fiscali e monetarie keynesiane.
Il quadro comincia a mutare e il patto sociale a sfaldarsi, nei primi anni Settanta a fronte di un acceso conflitto sociale, di un eccessivo “peso” della forza lavoro organizzata, del pericolo di un’alternativa non capitalistica alla stessa riorganizzazione produttiva, a fronte al contempo di una grave crisi di accumulazione di capitale.
A questo punto la formula dell’embedded (o del capitalismo addomesticato in senso keynesiano), nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale e della grande depressione degli anni Trenta, entrò in crisi a partire dalla stessa necessità per il capitale di ricreare le condizioni ottimali di una efficace accumulazione.
Le limitazioni della forma dell’embedded liberalism non sembrarono più accettabili: «le classi più alte dovevano muoversi con decisione, se volevano evitare di essere annientate politicamente ed economicamente».
In questa ottica la neoliberalizzazione – nata, nel contesto della crisi di accumulazione degli anni Settanta, come controffensiva (neoliberale) allo sviluppo del Comune stesso, appare come un vero e proprio progetto politico teso a ristabilire le condizioni necessarie all’accumulazione di capitale; un progetto mirante alla restaurazione del potere di classe.
Al di là della retorica sulla fine dello Stato, esso ha avuto e ha un ruolo chiave nella riorganizzazione neoliberista, muovendosi da un lato tra interventi repressivo/autoritari, politiche nazionaliste e iniziative a favore delle imprese; dall’altro soggiacendo sul piano discorsivo ai valori dell’individualismo, della competizione e alle logiche della deregolamentazione.
Nella redistribuzione dal basso verso l’alto di ricchezza e reddito, proprio lo Stato (neoliberalizzato) ha rivestito un ruolo di primo ordine.
La lunga riforma neoliberista è passata per il trasferimento all’economia di mercato di funzioni storicamente svolte dallo Stato, per la privatizzazione delle funzioni pubbliche, per la crisi dello Stato fiscale e l’imporsi di regimi debitori.
Uno Stato i cui meccanismi ordinari vengono sempre più permeati da «logiche imprenditoriali»; uno Stato del quale vanno indagate compromissioni e allineamenti al capitale, così come rintracciati gli attori che si nascondono sotto le sue mentite spoglie.
Le possibilità della trasformazione
Processi e logiche di estrazione, estraneazione e di accumulazione per espropriazione, fondati sull’appropriazione privata della ricchezza comune prodotta, fondamentali per la nascita del capitale, non sono mai stati dismessi e piuttosto vengono rafforzati oggi più che mai tramite gli strumenti ben noti delle enclosures (le quali oggi «attraversano anche la conoscenza e la vita, operano nello smantellamento dei sistemi di welfare, assumono forma astratta nel funzionamento di dispositivi finanziari come i mutui subprime»).
Il riemergere della centralità della rendita (il divenire rendita del profitto nella felice formulazione di Vercellone) e dei rentiers, insieme ai finanzieri pronti a spremere «linfa vitale dal capitale industriale produttivo» e soprattutto dal sangue dei lavoratori e delle lavoratrici, ne sono uno degli effetti cruciali, accanto alla perdita di diritti ottenuti con le lotte del passato, accanto allo strappo di quelle coperture protettive conquistate con decenni di conflitti (e tollerate o consentite dall’embedded liberalism), alle quali si sostituiscono forme di protezione del/per il capitale contro ogni forma di opposizione sociale.
Il punto di inizio della svolta è situato in coincidenza della crisi degli anni Settanta e l’emersione, situata negli anni Ottanta, della controrivoluzione neoliberale, peraltro rafforzata dall’89.
In questa congiuntura storica si colloca la dissoluzione di quello che è stato chiamato il "matrimonio imposto" al capitalismo e alla democrazia dopo la seconda guerra mondiale, la fine della tensione tra l’uno e l’altra.
La «de-democratizzazione del capitalismo attraverso la de-economizzazione della democrazia», ripiegatasi sempre più «sul laissez-faire dell’economia di mercato».
1) Il passaggio dal regime keynesiano a quello neohayekiano;
2) la «rivolta del capitale nei confronti della mixed economy del secondo dopoguerra»;
3) la liberazione del capitale dai vincoli imposti nel ’45 per renderlo sostenibile;
4) la neutralizzazione della democrazia sociale.
Inizia così la rivitalizzazione neoliberista della dinamica di accumulazione capitalistica, sostenuta da politiche statali volte a far riguadagnare tempo al sistema capitalistico tramite l’inflazione prima, l’aumento del debito pubblico poi e infine, una disinvolta concessione di credito all’economia privata, nel segno di una legittimazione di massa del progetto sociale neoliberista.
Il capitale «come attore politico» inizia, in questo arco di tempo, il suo percorso di liberazione dal compromesso sociale dei Trenta gloriosi.
Il processo si inscrive in una dinamica di «malessere del “capitale” nei confronti della democrazia» e giunge oggi ad una incolmabile frattura tra capitalismo neoliberale e quest’ultima.
A mutare sono dunque le forme di quel capitalismo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, retto dalla presenza di uno Stato interventista capace di assicurare legittimità e legittimazione al capitalismo stesso trovatosi, dopo il ‘45, su una posizione difensiva in più parti del mondo, grazie ad una forte classe operaia.
Negli anni Settanta si ebbero contemporaneamente un rallentamento della crescita economica e un livello di conflittualità inedito.
A questo punto il compromesso sociale precedente si sfaldò: da un lato aumentarono le istanze e le rivendicazioni della classe lavoratrice e di altre soggettività politiche (eccedenti) e dall’altro, e per reazione, il capitale iniziò ad organizzarsi per uscire dal contratto sociale del secondo dopoguerra.
Alla ristrutturazione postfordista dei processi produttivi si accompagnò progressivamente la «tendenza a investire i profitti sui mercati finanziari per realizzare rendite».
La via di uscita venne quindi trovata nel mercato: l’economia capitalistica venne liberata dal controllo politico precedente, libertà di mercato e deregolamentazione iniziarono a sostituire onerose politiche sociali e pubbliche, ripristinando così margini di profitto adeguati.
La finanziarizzazione dilagante e onnivora comporta crescenti processi di distruzione, spoliazione, espulsione.
Se estraneazione e spossessamento caratterizzano il capitalismo contemporaneo, che sempre più vive di disuguaglianze generalizzate e abnormi, andrebbe rimesso in campo un progetto di trasformazione radicale e complessiva, capace di prospettare l’alternativa, di praticare forme altre di vita e di costruzione del comune (di istituzioni del comune), di re-immaginare e riarticolare il nesso tra libertà/uguaglianza, di espandere la democrazia, di farsi generativo di lotte intersezionali.
È il futuro che va riconquistato, «abolito dal tempo del neoliberismo», dal cosiddetto presentismo.
La possibilità di trasformare il mondo in cui viviamo proviene dalle potenzialità del conflitto, dall’imprevisto della politica, dall’agire stesso dei soggetti immersi nella logica dinamica del cambiamento, in un futuro che è già presente.
La sfida è aperta: progettare l’alternativa per una possibile trasformazione; per una “utopia concreta”.
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