I tratti coloniali e razzisti del potere economico mondiale non sono affatto scomparsi nel corso dei secoli ma si annidano oggi nelle nostre società postindustriali.
1) la classificazione delle popolazioni di tutto il mondo in base alla razza;
2) la presunta inferiorità naturale della donna rispetto all'uomo;
3) il rapporto che l'uomo occidentale intrattiene con l'ambiente in cui vive.
L'epoca moderna non è stata inaugurata dalla "scoperta delle Americhe", ma da uno dei più grandi genocidi della storia dell'umanità: lo sterminio delle popolazioni che abitavano il continente americano prima che l'uomo bianco vi mettesse piede.
È stata proprio la conquista del nuovo continente, e lo sfruttamento delle sue materie prime, a consentire alla vecchia Europa di espandersi in tutto il mondo tramite colonie e commercio, e di dare il via alla costruzione del potere economico mondiale così come lo conosciamo ora.
Un'altra pesante eredità dell'epoca moderna è la posizione di inferiorità della donna all'interno della società contemporanea occidentale.
Sebbene si possa riconoscere come la situazione della donna occidentale sia migliorata in tempi recentissimi, si può altrettanto verosimilmente affermare che la posizione che ricopre all'interno delle più avanzate società occidentali sia ancora molto lontana da quella che si potrebbe definire paritaria rispetto all'uomo.
L'uomo moderno ha visto la natura (e la donna) come qualcosa da cui difendersi e da dominare!
Questo atteggiamento, questo considerare l'umano come unica espressione animale davvero degna di sopravvivere, tanto che qualsiasi altra specie vivente sul pianeta può essere sacrificata per scopi umani, potrebbe oggi portarci all'autodistruzione.
Il finalismo con cui siamo abituati a ragionare da qualche secolo a questa parte, non funzionerà per cercare di comprendere i delicati e complessi equilibri che rendono possibile la vita sul pianeta.
Ciononostante l'uomo occidentale continua a comportarsi come se funzionasse, ed è questo a provocare i danni peggiori.
Una tesi, tipica della modernità, sostiene che le popolazioni non moderne rappresentino, nella storia dell'umanità, tappe precedenti al raggiungimento della condizione moderna.
Questa tesi parte dal presupposto che l'umanità sia diretta verso un fine ultimo comune e che l'uomo bianco occidentale rappresenti l'apice di tale decorso storico ed evolutivo.
L' oggettivazione della natura da parte dell'uomo occidentale è stata invece un'operazione contingente e niente affatto necessaria.
La classificazione ontologica occidentale infatti, non è meno arbitraria di quelle che si possono osservare nelle popolazioni escluse dalla sfera di influenza del potere economico capitalista mondiale.
Partendo dunque dal presupposto che la prassi in cui gli esseri umani si ritrovano a vivere, abbia conseguenze dirette anche sul pensiero che questi esseri umani sono in grado di generare (e viceversa), si comprenderà come la scomparsa di forme di vita alternative a quella occidentale sia una preoccupazione più che urgente.[1]
Colonialità del potere
L' Occidente ha creato un ordine del discorso che, mettendo sistematicamente in relazione forme di conoscenza e tecniche di potere, ha dato forma a un progetto totalizzante di controllo e organizzazione della vita umana.
La cosa più grave di questa pretesa è che rischia di farsi verità, poiché si cerca di imporre il modo di vita occidentale come modello di vita standard dell'umanità.
Ma è stato grazie al colonialismo che è sorto il tipo di potere caratteristico delle società e delle istituzioni moderne.
I meccanismi dello Stato moderno si devono dunque inscrivere in una struttura più ampia di carattere mondiale, alla cui base sta l’espansione europea, inaugurata simbolicamente dal primo viaggio di Colombo nel 1492.
Smascherare la violenza epistemica insita nella colonialità del potere, è un obiettivo fondamentale per dare vita a relazioni socioecologiche che non riproducano l’eurocentrismo, il colonialismo, e la razzializzazione, ma mirino a un più risoluto intervento sociale di carattere decoloniale.
È necessario sperimentare un pensiero di confine, che ripensi l’eredità del colonialismo e dell’epistemologia occidentale dalla prospettiva delle forze divenute "forme di conoscenza subalterne", a causa del processo di espansione europeo.
La base eurocentrica e discriminante delle categorie della modernità deve essere, una volta per tutte, messa a nudo.
Ci si deve impegnare a decostruire il concetto di natura, perché la categoria anti-culturale per definizione, non è che una "creazione arbitraria che riproduce relazioni di potere inique".
Natura organica
Con essa ci si riferisce a modelli culturali non occidentali che, al contrario delle costruzioni moderne, non si caratterizzano per una rigida separazione tra il biofisico, i mondi umani e quelli sovrannaturali, ma sono spesso fondati su legami di continuità tra questi ambiti.
L’universo indigeno però, troppo spesso, viene evocato come un tutto omogeneo che si definisce sostanzialmente per due aspetti:
1) la propria condizione storica di oppressione e subalternità nei confronti dell’Occidente;
2) un’alterità culturale radicale e inconciliabile.
Ma più che evocare una presunta purezza e incompatibilità con l’Occidente, occorrerebbe valorizzare il modo in cui i popoli nativi sono riusciti ad accomodare l’Occidente all’interno delle logiche culturali locali e ad abbracciare la molteplicità, rifiutando di farsi totalizzare da una singola narrazione.
Un'ulteriore dimostrazione del fatto che le migliori "decostruzioni delle pretese assolutistiche della modernità occidentale" sono, in fin dei conti, proprio quelle che emergono dalle “culture ibride latinoamericane”.[2]
[1]https://www.academia.edu/12995249
[2]http://www.lavoroculturale.org/america-latina-e-modernita
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