Post-democrazia: ridotta a mero meccanismo di legittimazione, cinico e formalistico, la democrazia si è progressivamente de-politicizzata.
tratto da "La democrazia dei moderni. Storia di una crisi"; di D. Costantini.
https://www.academia.edu/2549190
La democrazia dei partiti e la sua crisi
L’ egemonia globale neoliberale ha provocato una serie di profonde trasformazioni, conducendoci all’interno di un’ epoca che possiamo definire "postdemocratica".
Quello di post-democrazia, così come tutti i concetti costruiti per tramite del prefisso post, allude all’idea di una «parabola storica».
Ciò che contraddistingue la fase presente è il fatto che «le forme della democrazia rimangono pienamente in vigore» mentre «la politica e i governi cedono progressivamente terreno, cadendo in mano alle élite privilegiate come accadeva, tipicamente, prima dell’avvento della fase democratica».
Questo sistema liberaldemocratico di ultima evoluzione, che alcuni chiamano appunto postdemocratico, si fonda su una nuova concezione del partito politico, inteso come una "macchina elettorale" sempre meno fondata sulla partecipazione e sempre più condizionata, quando non direttamente controllata, dalle lobbies affaristiche.
In questo processo i partiti hanno trasformato le proprie strutture, piegandole ad una deriva sempre più accentuatamente plebiscitaria, attraverso la quale il cittadino-elettore è stato trasformato in "consumatore passivo" di politica, che al momento del voto «acquista» l’offerta migliore o meglio confezionata o meglio videopromossa.
Il potere dell’oligarchia economica globale è divenuto tanto più forte quanto più i partiti di massa tradizionali sono stati sostituiti da questi nuovi partiti ‘leggeri’, che non si fondano più sulle antitesi di classe e sulla militanza territoriale, ma che funzionano come macchine elettorali che sfruttano anzitutto il potere di marketing politico, conferito loro dal controllo dei mezzi di comunicazione di massa.
La trasformazione dei partiti non è la ragione unica, né la primaria, che sta segnando il nostro ingresso nell’era postdemocratica.
L’emergere del paradigma postdemocratico ha coinciso con l’era della cosiddetta globalizzazione e dunque, anche con la crisi delle istituzioni politiche nazionali che questa ha comportato.
L’ avvento, a livello nazionale, dei nuovi regimi postdemocratici si è sovrapposto al progressivo trasferimento delle competenze e dei poteri verso organismi internazionali, formali ed informali, la cui influenza non ha smesso di crescere anche a fronte del loro palese "deficit democratico".
La pressione di queste istituzioni, e più in generale quella dell’economia e della finanza globalizzate, hanno contribuito ad innescare, all’interno degli stati nazionali, una lunga stagione di liberalizzazioni, che hanno svuotato dall’interno la sostanza di cui si era rivestita la democrazia postbellica, sottomettendo i servizi pubblici a logiche privatistiche, spogliandoli di competenze e inquinandone le ragioni di esistenza.
La nuova egemonia neoliberale si è concretizzata così in una sistematica opera di disinvestimento dall’intervento pubblico da parte degli stati e di progressiva demolizione delle istituzioni del welfare state.
La destrutturazione del sistema di produzione fordista-keynesiano, che ha frantumato e scomposto il panorama delle relazioni di classe, ha coinciso storicamente con l’affermarsi della globalizzazione, ovvero con la sempre più pervasiva integrazione economica e culturale del mondo.
Questa integrazione – come Marx aveva già intuito – si è svolta sotto il segno del capitalismo, e ha coinciso in buona sostanza con la creazione di un mercato unico di dimensioni mondiali che, esasperando la competizione internazionale, ha permesso di realizzare straordinari aumenti di produttività.
La globalizzazione ha così moltiplicato le ricchezze prodotte, senza però ridurre né i divari tra le potenze industriali e le economie dei Paesi poveri, né i livelli di diseguaglianza sociale all’interno di ciascuna di esse.
Al contrario essa ha innescato, anche all’interno della ricca Europa, un meccanismo perverso di livellamento verso il basso di quel sistema di tutele del lavoro che si era affermato con la democrazia postbellica.
Mentre la base sociale dei partiti di massa tradizionali si erodeva progressivamente, il potere delle grandi aziende che la meccanica della concorrenza internazionale costringeva a divenire globali, cresceva a dismisura.
Le conseguenze politiche della crescente forza economica di questi colossi sono state particolarmente perniciose.
La sempre maggiore mobilità internazionale degli investimenti si è rivelata una potente arma di ricatto, che è stata ampiamente impiegata per scatenare una vera e propria corsa al ribasso tra le nazioni, tanto negli standard di tutela del lavoro quanto nel sistema fiscale e dunque, più o meno indirettamente, nella qualità dei servizi pubblici.
Il meccanismo è tanto semplice quanto noto.
Se un’impresa globale trova il regime fiscale o l’organizzazione del lavoro di un determinato luogo poco favorevoli, può minacciare di trasferirsi altrove.
Una simile minaccia funziona, nei confronti dei governi locali, come una pressione assai più efficace di quella che può essere esercitata dai cittadini di quel dato paese.
Le aziende globali divengono dunque capaci di condizionare in profondità le politiche delle diverse nazioni, in particolare le politiche del lavoro e quelle fiscali, e questo «anche se non risiedono nel Paese in questione, non godono dei diritti formali di cittadinanza e non pagano le tasse».
La difficoltà di resistere a simili pressioni si aggrava, se si tiene in considerazione la forma inafferrabile assunta dalle multinazionali globali, la cui proprietà si nasconde dietro una mutevole costellazione di azionisti, i cui investimenti si spostano in continuazione.
Queste aziende inafferrabili – specie riguardo alle proprie responsabilità fiscali, sociali e ambientali – esercitano dunque, sui governi, una pressione pressoché irresistibile perché questi realizzino condizioni più favorevoli all’investimento, deregolamentando le condizioni del lavoro, abbassando i regimi di imposizione fiscale e tagliando le spese statali, inutili dal punto di vista delle aziende.
Abbassare il costo della macchina statale, mettendo a rischio i servizi essenziali per la cittadinanza (la sanità, l’istruzione, la previdenza sociale ecc.), significa infatti, dal punto di vista delle multinazionali, ottimizzare il regime fiscale di riferimento.
Il mercato del lavoro "deve essere reso flessibile", al doppio scopo di comprimerne nel breve termine il costo e, a lungo termine, di atomizzarne le componenti, riducendone le capacità rivendicative.
La logica sociale neoliberista tende a spazzare via ogni solidarietà sociale, per ridurre la società ad una somma inorganica di individui solitari e conflittualmente competitivi.
La funzione di pacificazione sociale che veniva garantita dallo stato sociale viene rilevata dallo "stato penale".
Un guscio vuoto e immobile
Accettando la riduzione della democrazia alle istituzioni delle democrazie d’elezione realmente esistenti, il concetto di democrazia viene privato di ogni profondità storica e di ogni urgenza politica.
Nell’epoca della democrazia trionfante e inquestionabile, la forma – particolare e contingente – assunta dalle istituzioni democratiche al termine di quel lungo e accidentato cammino storico, viene pensata come una forma naturale e definitiva.
Sottratta alla critica teorica e alla lotta politica, la democrazia si ipostatizza, santificando le proprie istituzioni trionfanti, cui fornisce una legittimazione sempre più formalistica.
L’ irriflessa e diffusa disponibilità ad accettare una tale riduzione, rappresenta uno dei più gravi problemi del nostro presente politico.
Il trionfo ideologico sopprime infatti quello che era stato un motore fondamentale della dinamica storica della democrazia, ovvero il "confronto critico sul significato e sul funzionamento delle sue istituzioni".
Ridotta al guscio vuoto e immobile della sua presente ipostasi neoliberale, la democrazia si è progressivamente svuotata di contenuto, pur continuando a trarre l’essenza della propria legittimità dal fatto di autoproclamarsi "perfettamente realizzata".
Smettendo di essere l’oggetto di quell’aspro confronto ideologico e di quella dura battaglia politica che aveva come posta in gioco l’evoluzione delle sue istituzioni, la democrazia si è progressivamente de-politicizzata.
Esorcizzando ogni disaccordo profondo intorno alle proprie istituzioni e finalità, essa si è ridotta a quel meccanismo di legittimazione cinico e formalistico che abbiamo chiamato postdemocrazia.
Ciò che si richiede è che si riapra una stagione di interrogazione critica rispetto alle sue istituzioni, che riattivi la perduta capacità di pensarne la storicità e la politicità: come antidoto al riduzionismo imperante!
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