Non vi potrà essere una Europa del Comune né una reale riappropriazione dei suoi spazi politici, senza una sua definitiva decolonizzazione.
tratto da "Cittadinanze postcoloniali, colonialità, razza e razzismo in Italia e in Europa"; di Miguel Mellino.
https://www.academia.edu/38444535
Decolonizzare l’Europa
Il significante "Europa", non è un significante innocente: esso appare connotato da una storia secolare di violenza coloniale e razzista e continua a iscriversi, sia simbolicamente che materialmente, sugli spazi e sui corpi anche nel presente.
È pertanto necessario collocare il dibattito su razzismo, migrazioni e cittadinanza in Europa, entro una prospettiva storica.
A tale scopo è utile considerare la nozione di "razzializzazione" come chiave di lettura dei processi migratori e postmigratori nell’Europa contemporanea.
Appare sempre più difficile infatti, parlare oggi della composizione di classe in Italia e in Europa prescindendo da questa nozione.
Attraverso l’uso del termine razzializzazione non si intende affatto suggerire o legittimare l’esistenza di razze né tanto meno promuovere l’idea di razza come "concetto identitario".
Ciò che si vuole sottolineare semmai è proprio il contrario: anche se le razze non esistono, ovvero non si tratta che di "mere rappresentazioni o costruzioni ideologico-culturali finalizzate al dominio dei gruppi inferiorizzati", e nonostante la definitiva sconfitta e delegittimazione scientifica dell’idea di razza, avvenuta con la fine della Seconda guerra mondiale, siamo ancora alle prese con gli effetti simbolici, psicologici e materiali di questa secolare e tragica storia, sul tessuto sociale.
Anche se l’idea di razza ha avuto uno sviluppo culturale indipendente da quello del capitalismo, è solo con l’espansione del capitalismo coloniale che essa ha cominciato a caricarsi di connotati chiaramente gerarchici e suprematisti.
La nascita della nozione di razza va dunque pensata al contempo come un "punto di arrivo e un punto di partenza".
È lecito pensare che essa rappresenti il culmine di uno sviluppo culturale precedente, tutto interno alla storia occidentale, cominciato con la distinzione greca tra civili e barbari e arrivato a un punto di svolta nella Spagna del XV secolo con la dottrina della "limpieza de sangre", sorta come sistema legale discriminatorio e persecutorio nei confronti degli ebrei e dei mori convertiti al cristianesimo.
Altrettanto importante poi, della radice greco-romana e cristiano-medievale dell’idea di razza, è la sua matrice sessista.
Il biologicismo manifesto di molti degli stereotipi negativi riguardanti la soggettività femminile, dalla Grecia classica in poi – il presupposto secondo cui la presunta inferiorità delle donne fosse determinata dalla loro struttura biologica – rappresenta uno degli affluenti essenziali dell’idea di razza.
Si tratta tuttavia di elementi fondamentali di una sorta di "preistoria" dell’idea di razza.
La nascita di ordinamenti sociali fondati sull’oppressione razziale, è un fenomeno intrinsecamente connesso allo sviluppo globale del capitalismo coloniale.
Come evidenziato dal teorico decoloniale peruviano Anibal Quijano, può essere interessante notare che gli europei non si erano mai rivolti agli africani e agli asiatici, con cui avevano avuto rapporti praticamente da sempre, in termini razziali o di razza prima della conquista dell’America.
Difatti la categoria di razza è stata applicata per la prima volta agli “indios” e non ai neri.
La sua codificazione in virtù del colore della pelle avverrà solo più tardi, precisamente con la schiavitù della piantagione in America del Nord e nei Caraibi.
L’idea di razza, nel suo senso moderno, non ha dunque storia prima della conquista dell’America.
Forse ha avuto origine in riferimento alle differenze fenotipiche tra conquistatori e conquistati, ma la cosa certa è che presto venne costruita in riferimento a presunte strutture biologiche differenziali tra quei gruppi.
La formazione di rapporti fondati su tale idea produsse in America identità sociali storicamente nuove: indios, neri e meticci, e procedette a ridefinirne altre.
Così termini come “spagnoli” o “portoghesi”, che fino a quel momento non indicavano altro che l’origine geografica o il Paese di origine, cominciano ad acquistare, anche in riferimento a queste nuove identità, una connotazione razziale.
Con il passare del tempo, i colonizzatori codificarono come colore i tratti fenotipici dei colonizzati e li assunsero come caratteristica emblematica della categoria razziale.
Queste nuove identità storiche, prodotte sulla base dell’idea di razza, vennero "associate alla natura dei ruoli e dei luoghi", nella nuova struttura globale e coloniale di controllo del lavoro.
Così, entrambi gli elementi, razza e divisione del lavoro, sono rimasti strutturalmente associati rinforzandosi a vicenda.
Nacque così una sistematica divisione razziale del lavoro, dove ogni forma di lavoro venne articolata con una razza particolare.
Di conseguenza, il controllo di una forma specifica di lavoro poteva favorire il controllo di un particolare gruppo dominato.
Una nuova tecnologia di sfruttamento, in questo caso razza/lavoro, venne articolata in modo che apparisse come "naturalmente associata".
Si trattò di qualcosa che ha goduto finora di uno straordinario successo.
Fu quindi il capitalismo coloniale a porre le condizioni essenziali di produzione della "moderna" idea occidentale di razza.
Dal XVI secolo in poi, ovvero dal momento in cui il vocabolo razza entrò nel lessico corrente delle lingue europee, capitalismo e razzismo (capitale e razza) appariranno talmente intrecciati da rendere praticamente impossibile pensare l’uno senza l’altro.
La classificazione razziale della popolazione mondiale e la precoce associazione delle nuove identità razziali dei colonizzati con le forme di controllo non retribuito (non salariato) del lavoro, sviluppò tra gli europei bianchi quella percezione specifica secondo cui il lavoro salariato fosse privilegio soltanto dei bianchi.
L’inferiorità razziale dei colonizzati implicava che questi non fossero degni del pagamento di un salario e che avrebbero quindi dovuto lavorare esclusivamente "a beneficio dei loro padroni".
Non è molto difficile trovare anche oggi, in Europa come in qualunque parte del mondo, questo atteggiamento diffuso da parte di proprietari e latifondisti bianchi.
Così, il minore salario percepito dai razzializzati rispetto ai bianchi, in riferimento alla stessa prestazione lavorativa, tuttora vigente negli attuali centri capitalistici, non può essere spiegato senza comprendere le radici coloniali del potere capitalistico mondiale.
Quali che siano le sue effettive coordinate spaziali e temporali, il concetto di "cittadinanza europea" non si sottrae affatto a tali pesanti eredità.
Scriveva Frantz Fanon: "Una società è razzista o non lo è, non esistono gradi diversi di razzismo, non ha senso dire che un certo Paese è razzista ma che non vi sono linciaggi o campi di sterminio; la verità è che in prospettiva può esserci questo e altro".
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