Democrazia del Comune: un regime che rende legittimo il conflitto.

tratto da "Alla ricerca del comune: il potenziale rivoluzionario di un concetto"; di D. Cattarossi.

https://www.academia.edu/24067638

Purtroppo o per fortuna non c’è nessun anno zero da cui (ri)partire. 

La storia non è mai finita, così come non si sono mai estinte le forme della violenza e del dominio dell’uomo sull’uomo. 

Non c’è nessun libro da cominciare da zero, ma un libro da continuare a scrivere: la storia a volte può prendere strade inaspettate sotto la spinta delle lotte per la libertà e l’uguaglianza. 

Si tratta dunque di ripartire da qui, o meglio di continuare a camminare alla ricerca frustrante e contraddittoria della democrazia, perché la sua storia, crediamo, debba essere ancora scritta. 

Questo passaggio si può compiere solo nel tempo, perché il passato presenterà sempre il suo conto, e questo passato è carico di violenza e dominio. 

Nessun mondo nuovo dunque, ma "questo mondo" sul quale abitiamo, soffriamo, amiamo e lottiamo. 

Ovvero il mondo che costruiamo e che prende forma quotidianamente nelle nostre vite. 

Nessuno spazio idilliaco, pacifico e privo di contraddizioni: quello sarebbe il paradiso. 

Sarà dunque dall’interno delle maglie del potere neoliberale che ci si dovrà muovere verso la ricerca e la costruzione del comune. 

È dentro e contro la “ragione neoliberale” che dovrà fissarsi la "ragione del comune", della quale si rintracciano le orme nelle pratiche generate dalla cooperazione sociale. 

È dunque dalla democrazia che dobbiamo ripartire, proprio laddove il neoliberalismo opera attraverso processi di de-democratizzazione, nel tentativo di spoliticizzare la società, rimuovere il conflitto e ipotecare i rapporti di dominio che innervano l’intero tessuto politico e socio-economico.

È verso una radicalizzazione della democrazia che dobbiamo orientarci per coglierne il significato più vero e, quindi, provare a disegnare traiettorie democratiche capaci di parlare il linguaggio della libertà e dell’uguaglianza, il linguaggio del comune.

Lo sviluppo delle istituzioni può essere democratico soltanto se resta rispondente e aperto al conflitto in quanto “fattore costituente delle istituzioni”. 

La società, in quanto complesso organizzato di individui, si basa su una serie di regole e ordinamenti che le conferiscono stabilità e al tempo stesso pongono le basi del suo vivere interno. 

Queste regole sono appunto ciò che definiamo istituzioni. 

Potremmo anche dire che le istituzioni rappresentano in qualche modo lo "spirito del tempo" e quindi sono soggette a determinati contesti storici e geografici, nonché a determinati rapporti di forza che sono andati consolidandosi nella società. 

Da un lato, le rivolte e le ribellioni che non hanno avuto la possibilità di darsi una continuità istituzionale, sono state condannate a essere rapidamente assorbite dall’ordine costituito; dall’altro, la loro cooptazione all’interno dei regimi istituzionali è stata funzionale al tentativo di ricucire gli strappi provocati dalle insorgenze, dissimulando il conflitto. 

Un processo istituzionale "radicato sul conflitto", invece, può consolidare l’insurrezione senza con ciò negare la sua capacità di rottura e il suo potere. 

In un certo senso potremmo dire che la democrazia è il regime che rende il conflitto "legittimo". 

La ricerca di una democrazia radicale, assoluta, non può che partire dalla critica all’ideale democratico “neutro” sotteso alle formulazioni liberali della democrazia. 

Il liberalismo politico definisce lo stato democratico come "moralmente neutro", cioè rispettoso e super partes rispetto alle varie concezioni morali. 

Questa credenza è però infondata, dato che le nozioni di giusto e razionale hanno un carattere prettamente morale. 

È, in fondo, l’idea occidentale e liberale contemporanea della democrazia, la quale aspira a delegittimare gli avversari, le forze definite "antisistemiche", perché ne mettono in discussione le fondamenta.

Per questo motivo essa incarna una concezione morale "specifica e unilaterale", che attribuisce determinati significati alla giustizia e alla libertà. 

Il paradosso del liberalismo politico

In quanto dottrina politica, il liberalismo si caratterizza per la propria insistenza sull’importanza del pluralismo in politica. 

Eppure, questo pluralismo sembrerebbe un concetto vuoto, in quanto privo di un certo grado di antagonismo, di "agonismo". 

Questo indica come tale approccio assuma una dimensione prettamente "morale" nel conferire un ruolo centrale ai valori liberali rispetto a quelli democratici, e come il discorso politico liberale ha via via ristretto la portata e il campo dei conflitti che potevano entrare nel gioco del pluralismo e del suo intrinseco agonismo. 

Va da sé che la razionalità normativa, intesa come base del liberalismo, "non può essere neutrale ma difende una concezione morale molto forte", che di fatto rende legittime le sole istituzioni liberali, rendendo illegittima ogni forma di opposizione a queste. 

Nelle teorizzazioni del liberalismo politico troviamo il presupposto implicito che il "consenso", alla fine, debba avere la meglio sulla manifestazione della "contraddizione". 

Quello che salta subito all’occhio, ci pare, è che un conflitto piegato alle regole che gli impongono di contribuire al consenso, in un conviviale scambio di argomentazioni e, dunque, un "conflitto politically correct", perda tutta la sua potenza e si trasformi in una "finzione giuridica". 

Il conflitto è accettato a patto che sia limitato. 

Sorge spontanea una domanda: parlare di conflitto limitato o autolimitato, non significa in qualche modo "escludere a priori" quelle che sono le vere poste in gioco politiche: le lotte di liberazione, le rivolte contro le ingiustizie, le istanze di libertà ed uguaglianza e dunque condannare la democrazia ad uno stato latente d’immobilismo?

In quest’ottica, un conflitto che si vuole reale non potrà mai limitarsi al "rispetto delle regole stabilite", in quanto il suo bersaglio non può che essere il contenuto stesso del pluralismo liberale. 


Quale prospettiva permette di pensare una trasformazione incessante, “che impedisca al politico di trovare una forma definitiva” e possa dunque lasciare aperti gli spazi possibili del comune? 

Come immaginare istituzioni sempre in divenire, caratterizzate da una temporalità sempre aperta? 

Potremmo dire che le lotte, o le rivolte, diventano potenti e durature quando sono in grado di inventare e istituzionalizzare nuove pratiche collettive, ovvero quando sono in grado di creare nuove forme di vita e nuovi modi di “stare al mondo”. 

In questo senso si è mossa la rivolta zapatista del 1994, assumendo una dimensione costituente con l’istituzione delle assemblee autonome, i caracoles, strutture comunitarie di base e le juntas del buon governo. 

L’esperienza zapatista è importante nella misura in cui, oltre ad essere un potente produttore di immaginario politico per le varie lotte che si pongono immediatamente sul piano del comune, mostra come il neoliberalismo non sia la fine della storia ma il "contesto nel quale “produrre materialmente lo spazio del comune". 

Ci mostra inoltre come il "divenire istituzione del processo rivoluzionario” non ha sicuramente ricucito lo strappo prodotto ma piuttosto lo ha allargato. 

L’istituzione consolida usi, costumi, pratiche, capacità collettive che sono in fondo le sostanze di nuove forme di vita: sono "un’ontologia". 

L’istituzione non dovrebbe dunque formare, fabbricare, individui e identità, ma essere il "prodotto dell’azione comune delle singolarità". 

Secondo questa accezione allora le istituzioni non sarebbero un potere "costituito", cristallizzato una volta per tutte, ma un potere "costituente" nella misura in cui norme e obblighi istituzionali non sono gli effetti di un trasferimento di diritti sovrani ma gli effetti di interazioni regolari e, dunque, sistematicamente aperte al processo evolutivo delle singolarità.

Immaginare nuove istituzioni capaci di afferrare e far emergere in tutta la sua potenza il comune, è oggigiorno più che mai urgente, soprattutto a fronte dei continui processi di de-democratizzazione della democrazia avanzati dal neoliberalismo. 

Se la democrazia del comune appare oggi come un miraggio lontano nel deserto che ci circonda, non resta che continuare a immaginare "nuove ipotesi costituenti", capaci di creare materialmente nuovi spazi di libertà e di uguaglianza, nuovi spazi del comune. 

Non si tratta di conquistare o cambiare un governo né tantomeno di fantasticare su un mondo idilliaco che mai verrà sulla terra, ma piuttosto di alimentare un processo molteplice di articolazione e di autodeterminazione della vita. 

È dalla nostra vita che dobbiamo ripartire per inventare e costruire lo spazio immanente del comune. 

Ricominciare a sperimentare quotidianamente e rasoterra le forme di vita: pensare e mettere in opera nuove pratiche collettive, espanderle, immaginare nuove mappe, bussole e linguaggi per nominarle e comunicarle. 

La politica è il metodo, ma l’obiettivo è quello di cambiare le nostre anime e i nostri cuori: solo così potrà prendere forma quel “sogno di una cosa” che chiamiamo comune.

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