tratto da "Economie comunitarie indigene" (cap.4); di A. Mazzocco.
I movimenti indigeni, nelle sollevazioni degli anni Novanta del Novecento, posero l'autonomia al centro delle loro richieste, portando a compimento il lungo processo di trasformazione collettiva e politica di un movimento indigeno autonomista, i cui predecessori furono tutt'altro che marginali, da Tupac Amaru a Emiliano Zapata.
Le rivendicazioni delle popolazioni indigene sono state da sempre permeate di richieste autonomistiche, anche se spesso non con questo nome: dai diritti di rappresentanza politica alla gestione dei territori e delle risorse naturali, dall'esercizio della giustizia interna basata sul diritto indigeno, alla possibilità di immaginare piani di sviluppo basati sulle proprie modalità organizzative tradizionali.
I movimenti degli anni '90 finalmente riunirono queste battaglie in una grande lotta per l'autonomia, creando ponti fra varie esperienze territoriali.
In quegli anni i diritti all'autodeterminazione delle popolazioni indigene furono incorporati in quasi tutte le costituzioni nazionali, fatta eccezione per il Cile, che mantenne la costituzione di Pinochet, ed il Perù, che tolse ogni riferimento alle popolazioni originarie dalla Carta.
Nonostante ciò, le norme furono scritte in una chiave "protezionista dell'ordine statale", tradendo molte delle trattative con cui erano state concordate; anche quando la norma dava un'ampia interpretazione dell'Autonomia indigena, si trovava spesso ad essere disapplicata nella pratica.
Non è un caso che le popolazioni indigene si siano poste come attori centrali nei nuovi movimenti sociali anti sistemici, ma è strettamente collegato alla fase economica capitalistica della "accumulazione da saccheggio", incentrata sulla depredazione delle ricchezze naturali su cui si basa la sopravvivenza di questi popoli.
La preoccupazione dei gruppi economici e politici dominanti, su questi movimenti, si basa proprio sul fatto che questi mettono in dubbio l'egemonia neoliberale, a partire dalla loro critica allo Stato.
Il riconoscimento di uno Stato plurinazionale "dell'Autonomia piena" delle popolazioni indigene, andrebbe infatti a corrompere un collaudato sistema di depredazione dei territori, che ha nello Stato nazionale un solido alleato.
Il riconoscimento della pluralità della società obbligherebbe gli Stati e la società a riconoscere le comunità indigene come soggetto di diritto collettivo, e di conseguenza garantire loro i diritti modificando profondamente i paradigmi dello Stato-nazione e corrompendo l'egemonia economica neoliberale.
Dopo la battaglia costituzionale fu il turno di quella per il riconoscimento della "personalità giuridica delle comunità", primo passo per l'esercizio de facto dell'Autonomia comunitaria.
L'autonomia comunitaria si sviluppa come "espressione concreta della lotta al colonialismo interno" dominante negli Stati latino-americani indipendenti.
Essendo la realtà indigena destrutturata politicamente dopo 500 anni di lotta (e in parte confluita nei più grandi movimenti contadini), la comunità rappresentava l'unica espressione concreta delle rivendicazioni indigene: un'entità forte, pronta a difendere il modello di riproduzione sociale indigeno, migliorando le pratiche di autogestione.
Solo attraverso la comunità le popolazioni indigene potevano riprendere in mano il loro percorso di sviluppo, resistendo all'integrazione del mercato del lavoro regionale asservito alle logiche economiche neoliberali.
La più grande opera di resistenza politica sarebbe stata proprio "l'autogestione" nella costruzione dell'economia comunitaria.
Essendo la comunità una formazione sociale già ben strutturata, non serviva creare nuove istituzioni ma fortificare e chiedere il riconoscimento di quelle già esistenti.
Andava riconosciuta personalità giuridica: non solo il permesso di esercitare pratiche di governo autonomo "come eccezione", ma "come ente riconosciuto e valido" con diritti politici da esercitare in piena libertà: una libertà organizzativa per i lavori collettivi e il possesso in comune della terra.
Un'altra tendenza dell'Autonomia indigena è la proposta di "Autonomia regionale", nata per superare lo spazio comunitario ed allargare le relazioni di reciprocità e redistribuzione, per raggiungere un reale grado di autosufficienza.
Questa è un'esperienza molto varia con differenti conseguenze; nei casi in cui questa proposta sia passata per gli organi ufficiali, la creazione di regioni autonome ispirate al modello spagnolo ha portato a ricreare le strutture del potere ufficiale delle autonomie regionali, mentre i casi in cui le esperienze di autonomia regionale hanno funzionato, sono quelli in cui le stesse comunità ne hanno gestito l'iter, creando una "comunità di comunità": una struttura regionale che servisse da tetto per l'autonomia, supportando e consolidando l'autonomia comunitaria senza imporsi dall'alto, ma raccogliendone le richieste dalla base.
Anticapitalismo nella costruzione dell'Autonomia
Con la decisione di costruire autonomia, le popolazioni indigene cercano di "disperdere il potere", per renderne possibile l'esercizio diretto nelle comunità che lo reclamano.
Questa "decentralizzazione" ovviamente non ha niente a che vedere con le forme federaliste o regiornaliste che trovano impulso dallo Stato nazionale, ma ha come obiettivo la creazione di forme paralegali di esercizio del potere (diverse da quelle degli organi del governo ufficiale), in cui le comunità possano fortificarsi e prendere le proprie decisioni.
Parallelamente, include anche la necessità di trasformare le relazioni con altri poteri, come quelli economici, religiosi e politici; poiché evidentemente non avrebbe senso costruire un potere distinto da esercitare nelle stesse forme di quello che si vuole combattere.
L' intero processo si basa su obiettivi comuni, a partire da quelli più semplici, come la risoluzione di controversie agrarie o la fruizione di acqua potabile, fino alle battaglie più grandi, come la lotta per la sovranità alimentare o quella per la protezione delle risorse naturali.
Se uguaglianza è partecipazione, le popolazioni indigene basano la loro resistenza proprio sulla forza delle istanze collettive, arricchite dal contributo di tutti e tutte.
L'esercizio del potere che si sviluppa in questo contesto appare come la pratica anticapitalista che con più forza rompe gli schemi consolidati dello Stato coloniale e delle politiche neoliberali.
L'autogestione implica un coinvolgimento pieno della popolazione e soprattutto la sua responsabilizzazione.
Rimettere al centro la persona allontana le pratiche di prevaricazione economica tipiche dell'organizzazione sociale capitalista e spinge verso la conquista di un maggiore benessere collettivo, tramite la gestione diretta dei territori da parte della popolazione.
Ciò si sviluppa attraverso la promozione del "collettivo cooperativo" in antitesi all'"individualismo competitivo" di cui è permeata la società capitalista.
Gli attori e i propugnatori dell'Autonomia indigena non ignorano lo Stato, né il potere che questo esercita, soprattutto nel monopolio dell'esercizio della violenza e della repressione legalizzata, per permettere l'egemonia di classe.
Al contrario si considera l'autonomia come forma di resistenza e formazione di un soggetto autonomo con potere negoziale di fronte allo Stato, che possa rompere l'egemonia di classe (nel caso capitalista, l'oligarchia economica della classe borghese).
Per questo motivo i movimenti autonomistici indigeni, in primis quello zapatista, non si sono isolati ma hanno instaurato legami e alleanze con i movimenti anticapitalisti della società civile, impegnati anch'essi nella costruzione di una società nuova.
Una pluralità di soggetti che promuove la costruzione della rivoluzione e del socialismo.
"Un nuovo passo in avanti nella lotta indigena è possibile solo se l'indigeno si unisce agli operai, ai contadini, agli studenti, ai maestri, agli impiegati..."
L'obiettivo di questa lotta comune per l'autonomia non è solo creare un regime politico che faccia da contrappeso al potere statale, ma rendere quest'ultimo superfluo nelle regioni autonome.
Rendere le comunità veramente responsabili dei loro territori, scongiurando l'ingerenza centralizzata dello Stato, diventa quindi orizzonte di una società nuova, in cui l'autogestione e l'autonomia siano la via per la democratizzazione reale della vita politica, a prescindere dalla matrice culturale o etnica delle comunità interessate.
Un esempio pratico è l'esperienza della comune di Parigi del 1871: non solo le comunità rurali, ma anche quelle urbane possono essere le basi del nuovo tessuto della società, in cui il potere del popolo non solo si manifesti nel dare origine o costituzione alla "sovranità", ma nel suo esercizio diretto.
Questo passaggio da democrazia rappresentativa a "democrazia radicale", potrà avvenire solo relegando ai margini le strutture di potere attuale e dando impulso ad una nuova costituente, i cui membri saranno i rappresentanti dei poteri locali.
Non tutte le sovrastrutture infatti rappresentano istituzioni corrotte: non se rappresentano le popolazioni e i territori che esse "governano obbedendo".
La democrazia radicale delle comunità urbane e rurali è incompatibile con la forma dello Stato nazione, ma ciò non vuol dire che essa non possa rappresentare la base del funzionamento delle società contemporanee, laddove accompagnate da coordinamenti regionali per le istanze comuni.
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