tratto da "L'anima del cibo"; di MG. Costanzo Talarico.
https://www.academia.edu/16985737
Non esiste nulla di più essenziale: con esso ci rapportiamo e manteniamo una relazione piacevole, fino a viverlo, talvolta, come una fonte di sollievo.
Non è un caso che il cibo sia celebrato in ogni ambito del sapere umano — si vedano, ad esempio, la religione, l’arte, la poesia, la musica — e sia oggi uno dei principali protagonisti ai quali i mezzi di comunicazione dedicano maggiore spazio.
Oltre ad una componente prettamente biologica, il cibo ne possiede una sociale: sono molti gli antropologi che sottolineano come il cibo funga da vero e proprio linguaggio.
Ad esempio secondo Mary Douglas è possibile “decifrare un pasto” in quanto codice che permette di mandare un messaggio e, quindi, di individuare i rapporti sociali (gerarchici) in esso espressi.
È fuori da ogni dubbio che il cibo attragga l’attenzione; da qualsiasi punto lo si voglia inquadrare, esso rappresenta l’identità di un luogo, racconta le tradizioni, i valori e la storia di un popolo.
Come afferma Gary Alan Fine: «food reveals our souls».
Oltre il “naturale”... Il significato del cibo
Nulla appare naturale quanto alimentarsi: l’essere umano necessita di nutrimento per la sopravvivenza.
Tuttavia, lo studioso Jean–Pierre Poulain ci ricorda che «gli alimenti sono dei prodotti naturali culturalmente costruiti e valorizzati, trasformati e consumati nel rispetto di un protocollo d’uso fortemente socializzato».
Dire, quindi, che si mangia per vivere è piuttosto riduttivo, il cibo racconta molto di più di un semplice sfamarsi; il cibo è tradizione, cultura, storia.
Come ricorda l’antropologo Marino Niola, esattamente allo stesso modo del linguaggio, il cibo rappresenta una “cerniera” tra natura e cultura: appartiene ad entrambe, in quanto capace di articolare funzioni fisiologiche e aspetti storici e culturali.
La soddisfazione dei bisogni alimentari non è riducibile a una mera funzione utilitaria, l’alimentazione costituisce un vero e proprio agente «strutturante nell’organizzazione sociale di un gruppo umano».
Storicamente l’essere umano è stato molto legato al cibo attraverso il senso di mancanza e scarsità, ma anche di abbondanza.
Nella storia dell’alimentazione occidentale, infatti, la seconda parte del Novecento rappresenta una fase di rottura con l’ambiente, durante la quale si abbandonano secoli di malnutrizione per abbracciare una diffusa sensazione di abbondanza, seppure socialmente differenziata.
A partire dagli anni ’80, la contrapposizione fra un mondo che si alimenta a fatica e un altro con i frigoriferi stracolmi, è diventata socialmente inconcepibile.
Il diritto al cibo è diventato, per senso comune, un valore essenziale...
Il ruolo sacro del cibo
Vito Teti spiega che la sacralità del cibo è strettamente connessa al senso di “necessità”.
Da sempre l’essere umano, affamato, ha rincorso il cibo nella speranza di aumentarne le quantità e raggiungere la sazietà e vieppiù l’abbondanza.
Non è un caso che il mondo contadino sia il più connesso al “mangiare” e, quindi, al valore simbolico ad esso attribuito.
Fin da quando se ne ha memoria, la terra ha rappresentato un suolo sacro per i contadini, che hanno accostato riti religiosi alle pratiche agricole quotidiane, vale a dire dissodamento, semina e raccolto.
A sua volta, attraverso la terra, il cibo è stato vissuto come un vero e proprio dono degli dei o di Dio.
La sacralità del cibo in quanto legame tra il cibo e il divino, dunque, ha rappresentato un elemento essenziale nella tradizione culturale contadina e tutt’oggi esso è radicato non solo nella cultura rurale, ma anche in usanze comuni che derivano dalle credenze ancestrali: astinenze, digiuni, offerte ai santi o agli spiriti.
Ancora oggi, in ogni cultura esistono elementi fortemente simbolici che richiamano la sacralità del cibo: pensiamo al chicco di grano, presente come emblema di rinascita e di speranza.
Il grano simboleggia la primavera, la vita che sconfigge la morte, il seme che muore per rinascere e sfamare l’essere umano: un dono divino...
Un aspetto fondamentale che contribuisce a donare rilevanza alla sacralità del cibo è il rituale della preparazione.
Mangiare è “fare e dire” , afferma Niola, spiegando con semplicità che il campo alimentare è costruito dalle percezioni e le azioni che ruotano attorno alla cucina e quindi alla preparazione di un piatto.
La dissacrazione del cibo... in principio era cibo
Un aspetto fondamentale delle pratiche alimentari è il commensalismo: il cibo è elemento di unione e convivialità, delimita lo spazio domestico, definisce e riproduce le “posizioni sociali” dei commensali.
Tuttavia, la modernizzazione e la relativa industrializzazione del mercato alimentare hanno cambiato sensibilmente lo spazio domestico e la percezione del cibo, che da elemento sacro è divenuto una merce di scambio e soprattutto un elemento di consumo.
In un’attenta analisi della società del consumo, il sociologo Zygmunt Bauman fa notare che il cibo "si trovava a casa e da nessun’altra parte".
Radunarsi a tavola per la cena era l’ultima fase (distributiva) di un lungo processo produttivo che iniziava in cucina e ancor prima, nel campo e nell’officina familiare.
Ciò che legava i commensali era la collaborazione, prestata o attesa, al precedente processo di lavoro produttivo e da ciò derivava il consumo condiviso di ciò che era stato prodotto.
La grande distribuzione alimentare ha segnato l’inizio della dissacrazione.Il cibo, da elemento sacro è diventato una commodity globale: una "merce" che non si prepara, si consuma!
Consacrare la dissacrazione
Alla base della dissacrazione del cibo possiamo individuare il “ritmo” frenetico dell’attuale società.
I bisogni e i desideri diventano insaziabili, creando un tipo di consumo immediato e una conseguente eliminazione degli oggetti consumati, tra i quali il cibo non fa eccezione.
Per descrivere tale ritmo, lo studioso Stephen Bertman ha coniato le espressioni “cultura dell’adesso” e “cultura frettolosa”, ad indicare la liquidità del moderno consumismo che ridefinisce perfino il significato del tempo.
Il tempo, infatti, è sempre stato vissuto come qualcosa di lineare o ciclico; la liquidità, invece, attribuisce al tempo un aspetto “punteggiato”, ossia contrassegnato da intervalli tra rotture e discontinuità di abbondanza, diventando un fattore di incoerenza e mancanza di coesione.
La vita “dell’adesso” si caratterizza di una società consumistica fatta di individui che hanno come motivazione "la fretta data dalla spinta di acquisire e raccogliere e dalla pressione di scartare e sostituire": l’economia consumistica fa affidamento sull’eccesso e lo spreco.
Appare sempre più chiaro che, in una società dell’adesso, i luoghi dove poter consumare “al più presto” il cibo–merce sono dei fattori essenziali; dunque il fast food e il “pasto pronto” diventano centrali per consacrare gli elementi della dissacrazione, vale a dire la perdita della convivialità e l’isolamento dell’individuo.
In quest’ottica si inseriscono anche i pasti pronti, invitanti nell’aspetto e vuoti nel contenuto.
Un trionfo della quantità sulla qualità, della forma sulla sostanza, una sconfitta della tradizione culinaria e della sacralità del cibo, già messi a dura prova dall’era del consumo.
Ebbene, ecco che oltre al sapore, a scomparire è lo stesso cibo e, con esso, tutto ciò che rappresenta; si compie così la dissacrazione del cibo.
Recuperandone l’identità, sarebbe invece possibile:
— riappropriarsi dell’identità locale;
— ridefinire dei ruoli sociali che non siano gerarchici ma orizzontali;
— cancellare le differenze di genere in cucina, luogo femminile per eccellenza in termini familiari, ma allo stesso tempo, mezzo di discriminazione per la divisione del potere.
Non è un caso che i cuochi maggiormente conosciuti siano uomini.
La donna, considerata “impura”, fin dal passato più remoto era ritenuta in grado e in dovere di cucinare solo nei casi concessi.
Il dualismo che ne deriva ricalca la rigida distinzione dei ruoli “pubblico-uomo/privato-donna”.
La globalizzazione sta cancellando molte identità locali per consegnare un’unica identità globale che come piatto tipico offre hamburger e patatine, possibilmente pronto in pochi minuti.
Ma l’identità si definisce per differenza, senza che questo debba significare distanza.
Ridurre il nostro rapporto con ciò che mangiamo, quasi esclusivamente, a una serie di operazioni di mercato è sia causa che effetto di un sistema che ha tolto valore al cibo e significato alle nostre vite.
Attraverso il cibo si potrebbe invece cambiare il volto di un mondo che richiede un cambiamento.
È questo l' auspicio che dovrebbe spronarci alla ricerca di una "nuova" sacralità del cibo.
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