Il governo del cambiamento climatico è imbevuto di una logica razzista che riproduce quella del colonialismo.
tratto da "Tra miglioramento e sacrificio: l'alterità e l'ecologia (bio)politica del cambiamento climatico"; di D. Andreucci e C. Zografos.
https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0962629821001724
Le forme dominanti di governo del cambiamento climatico ripropongono ed estendono l'apparato preesistente dello sviluppo neoliberista, riproducendo la logica coloniale.
Le politiche di mitigazione del clima e di adattamento, sono concepite come vie per estendere le relazioni capitaliste e creare opportunità di profitto.
L'azione per il clima è sempre più inquadrata come una questione di mobilitazione di capitali privati, di creazione di sbocchi di investimento, incentivi e garanzie, con l'obiettivo di evitare perdite economiche dovute a eventi climatici catastrofici e con l'aspettativa di forti ritorni.
Ad esempio, un rapporto pubblicato a settembre 2019 dalla Commissione globale sull'adattamento, una partnership pubblico-privato guidata da Nazioni Unite, Banca mondiale e Fondazione Gates, ha calcolato che: "investire $ 1,8 trilioni a livello globale nell'adattamento ai cambiamenti climatici fino al 2030 potrebbe generare $ 7,1 trilioni di benefici netti totali”.
In linea con una tendenza più ampia nella politica di sviluppo neoliberista, anche istituzioni come la Banca Mondiale si stanno orientando, sempre più, nell'agire da facilitatori di investimenti e finanziamenti privati.
In questo modo, il business dell'adattamento e della mitigazione diventa sempre più integrato nei circuiti di valorizzazione del capitale e della speculazione finanziaria.
La mitigazione del clima e, soprattutto, gli interventi di adattamento sono motivati da una preoccupazione geostrategica per la sicurezza.
Ciò indica una continuazione del "progetto di sviluppo" del secondo dopoguerra.
Sotto la globalizzazione neoliberista le coordinate politiche sono cambiate, ma lo "sviluppo" continua a funzionare come un modo per contenere la "libertà in eccesso delle popolazioni in eccesso".
Nel loro insieme, le politiche e gli interventi che costituiscono il quadro dell'azione per il clima, possono essere viste come un modo per preservare il potere della classe capitalista e le relazioni di potere globale, di fronte alla catastrofe in corso.
Così, insieme alla "riduzione degli impatti dei cambiamenti climatici sulle popolazioni vulnerabili", si cerca soprattutto di prevenire le migrazioni di massa di rifugiati climatici verso il Nord del mondo e di impedire ai lavoratori migranti di ribellarsi.
Per garantire una “buona” circolazione di capitali e merci, si deve infatti limitare la "cattiva" circolazione di gruppi politicamente problematici.
Othering
Secondo Naomi Klein: "l'altro sostiene le strutture neoliberiste e coloniali dietro l'attuale crisi climatica".
"L'altro" è alla base non solo della riproduzione del capitalismo alimentato dai combustibili fossili, ma anche delle soluzioni tradizionali alla crisi climatica, che sono ugualmente di carattere neoliberista e coloniale.
L'altro è una tecnologia centrale per il governo del cambiamento climatico: sostiene e giustifica un ampio spettro di interventi volti a “salvare il clima” o promuovere uno sviluppo “resiliente”.
La creazione di questo tipo di alterità, associata al razzismo, rende possibile il sacrificio di coloro che subiscono gli impatti socio-ambientali negativi di tali progetti e legittima, al contempo, la repressione violenta nei confronti di coloro che vi si oppongono.
Riconoscere dunque che c'è una "colonialità" radicata nel modo in cui viene governato il cambiamento climatico, ha importanti implicazioni sul modo in cui pensiamo alle alternative.
La semplice promozione delle "transizioni" lontano dai combustibili fossili, infatti, anche se accompagnata da riforme progressiste, non sarà sufficiente per superare la difficile situazione attuale.
Al centro della sfida al governo neocoloniale e neoliberista del cambiamento climatico, è dunque sia la decostruzione dei discorsi gerarchici dell'"altro" (che ne sostengono il dominio), sia la riaffermazione della capacità del subalterno di "parlare".
Ciò comporta il riconoscimento e il rispetto della differenza epistemica e materiale, al di là e contro le narrazioni dominanti dell'alterità.
I discorsi dominanti diventano tali proprio mettendo a tacere, squalificando o soggiogando, altre conoscenze e modi di comprendere e mettere in atto relazioni socio-ecologiche.
Ma i saperi soggiogati continuano a ossessionare e destabilizzare i discorsi dominanti.
C'è infatti una crescente enfasi, nell'ecologia politica e nella geografia, nel riaffermare e rendere visibili ontologie e pratiche alternative, come modi per resistere e produrre significato in modo diverso.
Criticare la violenza epistemica dei sistemi di conoscenza (neo)coloniali, implica occuparsi delle pratiche di “disobbedienza ontologica” del subalterno, per recuperare mondi vitali censurati da secoli.
È necessario decostruire in modo critico i modi dominanti di inquadrare le soluzioni alla crisi ecologica e climatica (razionalità strumentali e tecno-gestionali, pratiche contabili monetizzate della "economia verde" neoliberista), per aprire spazi alla partecipazione e a modi diversi di conoscere ed essere nel mondo.
Decolonizzare implica anche, e forse soprattutto, restituire la terra alle comunità indigene, riconoscere la sovranità dei popoli precedentemente colonizzati e restituire loro l'accesso e il controllo delle risorse naturali e di altri mezzi di produzione e riproduzione.
Il superamento della colonialità dello sviluppo riafferma dunque l'importanza della "pluriversalità" delle conoscenze e delle prassi socio-ambientali non occidentali, per costruire la giustizia climatica.
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