tratto da "Percorsi personali e memorie dei partigiani nel bergamasco: spunti per una riflessione"; di C. Poluzzi.
https://www.academia.edu/download/57274868
Come ben sottolineato in alcune ricerche sull’uso della memoria nel secondo dopoguerra, il discorso antifascista rappresentò un collante della memoria pubblica e delle identità nazionali, attraverso una complessa interazione tra luoghi (monumenti, musei, toponomastica), riti (commemorazioni, feste civili) e forme della comunicazione (discorsi, fotografie, pubblicistica, radio, televisione).
Gli errori non sono certo mancati anche all’interno della stessa rete degli Istituti della Resistenza.
La politica stessa ha contribuito ad aggravare la drammaticità del cambiamento dopo avere invece favorito, per circa un quarantennio, lo sviluppo di interpretazioni originali sulla Resistenza.
Le nuove retoriche sulla riconciliazione nazionale varate dal discorso di insediamento di Luciano Violante a presidente della Camera nel 1996, hanno avuto il solo effetto di danneggiare le già fragili basi di una memoria ricca e complessa, dando piena legittimazione a una diversa e ben «precisa opzione storiografica», che comunque non aveva saputo produrre risultati rilevanti sul piano della ricerca storica.
Dalla retorica della riconciliazione alla piena libertà d’azione per autori revisionisti come Giampaolo Pansa il passo è stato sin troppo breve.
Per poter raccontare la Resistenza in un’epoca in cui il concetto stesso di memoria e di temporalità della storia viene fagocitato dalla rapida frenesia di mass media e social network è necessario ricercare nuove forme di linguaggio adatte ai tempi che corrono.
Lo stesso ruolo dell’informazione, infatti, è stato tutto meno che neutro e oggettivo nei confronti della Resistenza, danneggiandola spesso a colpi di pseudo scoop e revisionismo.
Difendere e trasmettere la memoria partigiana.
Parlare di memoria è diventato infatti più complicato per una grande varietà di fattori: le nuove generazioni, abituate a sentirsi dire di far parte di una società che si vuole dinamica e flessibile nelle opportunità (ma lo è in realtà solamente nell’incremento dello sfruttamento del lavoro a tutto vantaggio del capitale e nell’aumento delle disuguaglianze sociali), hanno smarrito da decenni la «percezione lineare del tempo».
Con essa anche la capacità di fare storia e memoria; è questa una delle contraddizioni insite negli stessi meccanismi della digitalizzazione.
L’idea, priva di un reale fondamento, di vivere in una società monotemporale, quella del «presente esteso», ha contribuito a dilatare, da parte delle nuove generazioni cresciute nel mondo della rete digitale, la percezione di avvenimenti storici radicati sul territorio e nella società.
Tutto oggi è più veloce, a partire dalla diffusione delle notizie su larga scala: l’uso dei social network amplifica, soprattutto fra i più giovani, un senso di distacco degli eventi dalla realtà materiale, alimentando l’altrettanto diffuso sentimento dell’allontanamento della realtà dai processi storici che la determinano.
Si crea così una contraddizione evidente, frutto acerbo di una perversa de-valorizzazione di storia e memoria, fra fascinazioni post-ideologiche e continui richiami a non ben precisate mitologiche tradizioni, le cui conseguenze si mostrano nella preoccupante crescita dei neofascismi in Europa e nel mondo.
Gli storici della Resistenza, nel corso dei decenni, hanno affinato la loro ricerca in una "interdisciplinarietà" fra storia e materie affini che ha portato a risultati interessanti.
I canoni di interpretazione storiografica sulla Resistenza sorti dopo il Sessantotto hanno rivitalizzato «le forme della rappresentazione» della memoria, fra cui quella celebrativo-istituzionale con risultati talvolta innovativi a partire proprio da contesti locali.
Le reti di collegamento del Pci
Ogni percorso di memoria della Resistenza ha nella scelta la sua genesi.
Le storie, con le singole narrazioni partigiane, le vicende di brigata, il vivere in clandestinità e alla macchia, racchiudono ognuna l’espressione di una soggettività non sempre perfettamente definita.
Il momento decisivo che sta a monte di ogni indagine sulla Resistenza ha a che fare con la scelta antifascista.
Essa «matura molto spesso perché, nell’esperienza dei singoli, la precedente strategia di convivenza con il regime e di contenimento delle sue pretese di dominio sulle coscienze, è giunta a un punto di rottura».
L’adesione a quei gruppi armati che divennero il nucleo delle future brigate comportò, per la generazione che fece la Resistenza, una scelta di campo drastica.
Anche se la Resistenza italiana prese forma, forza e coraggio dalla quasi certezza della vittoria contro il nazifascismo (le sorti della guerra, nel 1943, erano chiare a tutti gli schieramenti in campo), sarebbe errato sminuire il valore e lo slancio di quella scelta iniziale, ben diversa dall’ingrossarsi delle fila partigiane nelle settimane e nei giorni che precedettero la Liberazione nella primavera del 1945.
L’aspetto forse più importante attorno ai dilemmi, soggettivi e collettivi insieme, che pervasero le coscienze intorno alla scelta ebbe a che fare con la disobbedienza.
Una disobbedienza nei confronti di un potere, la Repubblica sociale italiana, la cui legittimità era, de facto, contrastata e messa in crisi sul terreno dello scontro militare, dell’agitazione politica nonché della stessa amministrazione statale.
La scelta partigiana era la determinante di «una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù».
La disobbedienza a un potere politico e militare ritenuto illegittimo, oltre che brutale e repressivo, conferì all’atto della scelta una caratteristica volontaristica e di libertà con pochi precedenti nella storia italiana.
L’elemento della disobbedienza univa motivazioni ideali e politiche.
L’unica forza politica organizzata che riuscì a mantenere una rete di poche migliaia di militanti in clandestinità, pur tra mille difficoltà, fu il partito comunista.
Con l’eccezione dei comunisti, che non a caso riuscirono a ritagliarsi un indiscusso ruolo di egemonia all’interno del movimento di Liberazione, i percorsi che dettero impulso alle altre scelte antifasciste nacquero nel cuore del vissuto famigliare e amicale.
Anche nel caso del Pci, del resto, non mancarono militanti che organizzarono reti di collegamento su base personale, creando i presupposti per lo sviluppo di azioni partigiane sul territorio.
Le reti di collegamento fuori dal mondo comunista
Soffermandosi sulle reti di collegamento esterne al mondo comunista, crebbe soprattutto in città l’esigenza dell’opposizione al nazifascismo.
Le giovani generazioni, che non avevano vissuto l’opposizione, sociale e istituzionale, al fascismo, sentivano più di altre la necessità di opporsi al regime.
Negli ambienti azionisti le figure di vecchi antifascisti e il ruolo positivo giocato in tal senso da alcune famiglie crearono le condizioni per un antifascismo nuovo, giovane e dinamico.
Considerazioni
La Resistenza, mito fondativo della liberazione dell’Europa, era entrata in profondità nel sentire comune dell’opinione pubblica, determinando così percorsi di attualizzazione della memoria, non sempre tuttavia condivisi.
Grandi fenomeni collettivi come la guerra o la Resistenza hanno segnato profondamente le generazioni che vi hanno preso parte, trovandosi protagoniste, spesso involontarie, di eventi di così grande portata storica.
La memoria è fatta e tramandata, in primo luogo, da chi ha vissuto sulla propria pelle la guerra, i rastrellamenti repubblichini, la deportazione.
La sconfitta dei fascismi e la costruzione dello stato democratico ha immediatamente posto il problema della memoria nonché della contesa politica della stessa.
La Resistenza divenne il simbolo e il terreno di scontro di questa contesa.
Da momento di sintesi collettiva, la cui massima espressione fu la metafora realizzata del Cln (l’unità delle forze antifasciste), l’eredità della guerra partigiana divenne in seguito elemento di divisione all’interno del medesimo schieramento antifascista e democratico.
Le divisioni, forzate dalla guerra fredda e dai differenti programmi politici delle organizzazioni partitiche componenti il Cln, fecero aumentare le frizioni all’interno del fronte antifascista, inasprendo quelle già presenti.
D’altro canto era prevedibile che ciò avvenisse.
Se si esclude la posizione coerente delle forze di sinistra (comunisti, socialisti e azionisti), che si opposero al fascismo sin dai suoi albori, gli altri partiti videro nella Resistenza l’occasione per dare il colpo di grazia ad un regime di cui avevano favorito l’ascesa pur non senza laceranti contraddizioni al loro interno, come nel caso del partito popolare di don Sturzo.
La guerra e le resistenze avevano messo in discussione (non soltanto) il fascismo come espressione brutale e reazionaria di una borghesia incapace di uscire dalla crisi del capitalismo, accentuatasi a seguito della fine della prima guerra mondiale.
Le componenti più progressiste del movimento di Liberazione videro nella Resistenza l’occasione per costruire una democrazia più avanzata o, come nel caso dei partigiani comunisti e socialisti, superare il capitalismo.
Le aspettative più radicali furono tuttavia disattese dal corso degli eventi della storia politica italiana, aprendo fra i protagonisti amare riflessioni sul ruolo della Resistenza nella costruzione della nuova società repubblicana.
I mutati scenari geopolitici se da un lato avevano necessariamente rafforzato le speranze palingenetiche di alcune componenti antifasciste (comunisti e socialisti in particolare, ma anche azionisti), dall’altro imponevano un compromesso per un Paese come l’Italia, destinato a ricadere nella sfera di influenza atlantica.
Il risultato fu la Costituzione che comunque stabiliva la nascita di una società democratica figlia in gran parte della Resistenza.
Fu a partire da questo compromesso, tuttavia, che le divisioni sul significato della Resistenza ebbero luogo, a cominciare dall’adozione di differenti retoriche.
L’esclusione dei comunisti dal governo De Gasperi nel maggio 1947 spinse il Pci in un angolo: l’intento era isolare dal contesto repubblicano una delle principali forze politiche che lo aveva reso possibile.
Si affermava così uno scontro politico fortissimo «fra i partiti di sinistra e il composito blocco anticomunista, tra le forze che rivendicavano la Resistenza come fondamento dell’Italia repubblicana e quelle che la emarginarono, quando non la misero sotto accusa».
La legittimità democratica dei comunisti traspariva d’altronde anche dal peso che le commemorazioni ufficiali della Resistenza andavano assumendo.
L’inasprirsi dello scontro politico fra Dc e Pci ebbe vasta eco sulla tenuta unitaria dell’associazione, che subì, in un moto speculare a quello del sindacato, due scissioni nel corso del secondo congresso del 1949.
Il Pci faticò non poco, anche al suo interno, nel presentare la Resistenza come momento fondante dello stato democratico, nonostante il largo consenso nell’opinione pubblica per l’istituzione del 25 aprile come festa nazionale.
Alla luce di tutto ciò è evidente come la fine del mondo, politico e culturale, che si richiamava alla migliore tradizione democratica del comunismo e del socialismo italiano abbia prodotto un trauma all’interno della cultura dell’antifascismo.
Da quasi trent’anni ormai, complice l’adozione di una politica governativa di riconciliazione nazionale, si assiste ad un ritorno dei fascismi sotto disparate forme, politiche e culturali.
Il ritorno del revisionismo ha diffuso nell’opinione pubblica un clima di accusa nei confronti della Resistenza a cui «la sinistra – imbarazzata dalla “riscoperta” della violenza inerente alla guerra partigiana e ai suoi strascichi – non ha saputo opporre molto più che imbarazzate scuse o silenzi».
In ambito storiografico le avvisaglie si erano manifestate con largo anticipo, quando negli anni Ottanta aveva ripreso slancio la ricerca sulla «visione ‘pacificata’ della dittatura mussoliniana, reinserita a pieno titolo nella linea maestra della vicenda nazionale».
Più recentemente, a partire dalla proliferazione di siti internet e social network, che ha portato anche ad una mappatura degli stessi, la crescita di movimenti e sigle neofasciste è l’allarmante sintomo di una memoria che, se abbandonata, rischia di andare perduta.
In questo contesto il terreno della memoria si fa sempre più fragile e necessita di essere difeso.
I limiti della narrazione resistenziale, dunque, impongono agli storici di non restare impassibili, ma di «svolgere un ruolo civile», in modo tale da far proseguire il dibattito sulla Resistenza in modo innovativo e dinamico per contrastare efficacemente tanto il dilagare delle retoriche della riconciliazione, quanto la crescita delle tendenze storiografiche revisioniste.
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