tratto da "Ecologia politica dell’Africa a Sud del Sahara: un’introduzione teorica"; di V. Bini.
https://freebook.edizioniambiente.it/libro/133/Africa_la_natura_contesa
La narrazione quotidiana del continente africano è così pervasa dall’idea di natura, da creare una sorta di sovrapposizione tra i due termini: l’Africa è definita dal suo ambiente incontaminato e la “Natura” trova la sua manifestazione più autentica nel continente africano.
Occorre però chiedersi cosa vi sia alla base di questo processo di riduzione del continente a pura e semplice natura, priva di elementi culturali.
L’Africa, come tutte le terre da conquistare, era genericamente considerata dagli europei una terra di straordinaria ricchezza e solo a partire dalla fine del XVIII secolo, alla vigilia dell’occupazione europea, iniziò a emergere l’immagine dell’Africa portatrice di morte, “tomba dell’uomo bianco”.
In una prima fase, tuttavia, questa immagine mortifera è legata al clima caldo e alla propagazione di miasmi malarici; a un "eccesso di natura", più che a un’idea di sterilità, di povertà.
È solo successivamente, con l’emergere delle difficoltà dell’occupazione coloniale novecentesca, che inizia a diffondersi l’immagine dell’Africa improduttiva, priva di risorse.
A partire dagli anni Settanta del '900, infine, con le ripetute crisi alimentari del Sahel, si afferma compiutamente nell’immaginario collettivo l’idea dell’Africa desertificata, nella quale la vita degli uomini appare quasi impossibile.
L’altra immagine (opposta) del continente africano, quella della natura selvaggia e lussureggiante, pericolosa, oscura e “incontenibile” ha invece radici più lontane.
Il racconto dell’Africa dalla natura “eccessiva” è solo apparentemente in contraddizione con quello della desertificazione, poiché in realtà queste due figure della natura africana, quella "sterile" e quella "incontenibile", rispondono ad una medesima funzione di cancellazione della cultura del continente.
Gli esseri umani sono considerati "tutt’uno con la natura" nel senso di un assorbimento totale, dei primi da parte della seconda, che annulla ogni valore socio-culturale.
Ridotti allo "stato di natura", privati di una vera e propria identità culturale, gli esseri umani potevano essere utilizzati per le finalità produttive della colonizzazione.
Del resto, in epoca coloniale gli uomini e le donne africane non erano nemmeno considerati propriamente degli esseri umani; nei casi più estremi erano considerati un’altra specie di fauna selvatica.
Questa narrazione dell’Africa come continente naturale, privo di valori culturali, viene (oggi come in passato) utilizzato dalla società occidentale come strumento per l’occupazione coloniale.
Nel caso africano, l’ideologia della natura selvaggia e de-umanizzata, nasce al fine di eliminare dalla scena le persone che abitano il continente, per creare quella tabula rasa sulla quale è possibile esercitare il potere coloniale.
L’immagine della natura selvaggia, funzionale all’iniziativa coloniale, non nasce all’improvviso nell’Africa del XIX secolo ma si inserisce in un processo di più lunga durata attraverso il quale la società europea ha creato la distinzione Uomo/Natura come premessa per lo sfruttamento della natura e delle persone.
Il capitalismo, scrive Jason Moore, emerge attraverso "pratiche-mondo" che creano la natura come un "oggetto esterno da mappare, quantificare e regolare", affinché possa servire l’insaziabile domanda di "nature a buon mercato".
È in questo contesto di espansione del capitalismo che va dunque letta la “naturalizzazione” dell’Africa.
Nella divisione ideologica tra società e natura che fonda la modernità europea, l’Africa e gli africani sono collocati nella sfera degli elementi naturali, dunque nella categoria degli oggetti di cui la società europea può disporre gratuitamente (“a buon mercato”, nelle parole di Moore).
Questa idea di natura è il perno sul quale si sono costruite, e si costruiscono ancora oggi, le relazioni tra l’Africa e il resto del mondo.
Le radici del racconto della natura africana possono essere rintracciate nel XV secolo, con il graduale inserimento del continente nell’economia-mondo capitalista centrata sull’Europa.
L’Africa, nell’interpretazione di Wallerstein, venne dapprima (1450-1750) utilizzata dall’economia-mondo capitalista come serbatoio di schiavi, poi incorporata al fine di essere sfruttata nella fase di espansione del capitalismo industriale ottocentesco e novecentesco.
In questa organizzazione della natura su scala mondiale, l’Africa viene identificata con la sua "Natura", che è a sua volta interpretata come "Risorsa": mezzo di produzione necessario allo sviluppo capitalistico occidentale.
Non si tratta di una semplice trasformazione fisica, quanto piuttosto di una "rivoluzione, al tempo stesso materiale e culturale", che cambia radicalmente il senso di cosa è la natura e di quale funzione essa debba svolgere nella relazione con le società umane.
Così, l’Africa venne prima limitata a una dimensione naturale, poi fu la natura africana ad essere ridotta a "risorsa", a completa disposizione della società europea.
Per comprendere la pervasività di questo processo, possiamo osservare questa “strumentalizzazione” della natura africana nelle diverse fasi della territorializzazione: denominazione, strutturazione, reificazione.Denominazione
In primo luogo la colonizzazione ha prodotto toponimi che identificavano il luogo con la risorsa che veniva da lì esportata: Costa d’oro, Costa d’avorio, Costa del pepe sono tra gli esempi più noti e più evidenti.
Buona parte di questi nomi sono stati non casualmente cancellati dalla decolonizzazione, ma altri rimangono non solo come residuo del passato, ma come indicazione funzionale ancora valida: si pensi alla Copperbelt, la cintura del rame, che ancora oggi identifica una delle regioni amministrative dello Zambia, secondo produttore africano di rame (dopo la confinante Repubblica Democratica del Congo).
Strutturazione
Per quanto concerne le forme organizzative dello spazio, “strutturazione” significa: costruzione dell’Africa come luogo di estrazione di risorse finalizzate alla comunicazione tra le aree di estrazione delle materie prime e quelle di esportazione; dunque dalle regioni di produzione alle coste.
Così si spiegano le forme dei confini, tuttora validi, di molti Stati africani e la collocazione delle capitali in luoghi strategici per l’estrazione di risorse, come le coste, il corso dei fiumi, i tracciati ferroviari.
Spesso le capitali hanno cambiato nome con la decolonizzazione, ma solo in rari casi ne è stata messa in discussione la localizzazione.
La stessa tutela della natura in Africa ha spesso radici nella territorializzazione coloniale: molte aree protette infatti hanno un’origine coloniale e la loro posizione e la forma dei loro confini trovano spesso una spiegazione secondo le logiche di sfruttamento di matrice coloniale.
Reificazione
L’ultima dimensione della territorializzazione, la “reificazione”, cioè la trasformazione fisica del continente africano, è quella in cui l’impatto della colonizzazione è stato più evidente.
La colonizzazione ha trasformato radicalmente il territorio africano, attraverso la fondazione di centri urbani, la creazione di infrastrutture e la riorganizzazione del territorio a fini produttivi.
L’estrazione di risorse ha trasformato le strutture del paesaggio africano ridisegnando le forme del suolo, attraverso l’opera di escavazione di miniere che spesso hanno dato origine a grandi città.
Per quanto riguarda l’idrografia del continente, lo sfruttamento coloniale e post-coloniale ha prodotto variazioni nel corso dei fiumi (le dighe e i sistemi di irrigazione, innanzitutto), e un peggioramento nella qualità delle acque.
È però nella vegetazione che si può osservare in modo più chiaro ed esteso questo processo di “produzione della natura” di matrice coloniale.
Le piantagioni di colture da esportazione, naturalmente, sono il più evidente segno di questa trasformazione: i campi di tè del Kenya, di cacao in Costa d’avorio, di caffè in Ghana si estendono oggi per decine di migliaia di chilometri quadrati e rappresentano una quota importante del cosiddetto “ambiente naturale” africano.
Occorre però evitare di dare una rappresentazione idealizzata della società africana, secondo la quale un ipotetico rapporto armonico tra uomini e natura sarebbe stato interrotto dalla colonizzazione europea: la natura africana è sempre stata influenzata dai rapporti di potere tra diversi gruppi sociali.
Si pensi alla competizione tra pastori nomadi e agricoltori nel Sahel o all’espansione delle popolazioni Bantu in Africa centrale.
La riduzione della natura africana a mezzo di produzione rappresenta dunque la modalità specifica (natura come bene sfruttabile) attraverso la quale il continente africano è stato inserito nel circuito globale dell'economia capitalista.
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