La terra non è soltanto un "mezzo di produzione" ma un ambiente di vita globale, dove i valori economici si intrecciano con quelli sociali, esistenziali e spirituali.
tratto da "Dagli Appennini alle Ande: cafoni e indios, l'educazione della terra" (cap.2); di L. Vasapollo.
Nelle società tradizionali, la terra è di proprietà degli dei; o meglio è un loro dono, che esclude il possesso umano su di essa.
La concezione cosmica del territorio utilizzata dalle popolazioni andine tiene in grande considerazione le diversità di animali, piante, fiumi, divinità ancestrali.
Queste divinità proteggono il territorio e tutti coloro che lo abitano: è a loro che si chiede il permesso di utilizzare i beni naturali.
L'uso della terra include infatti la devozione ad essa, l'impegno alla sua conservazione e al rispetto dei suoi abitanti (le montagne, i fiumi, i laghi, la pioggia, la neve sono esseri viventi di sesso maschile o femminile, con i loro capricci e le loro relazioni di parentela); è in questo modo che le popolazioni andine costruiscono il loro rapporto armonico con la natura.
Per questo sono documentati, pressoché ovunque, complessi riti di passaggio e di iniziazione che legano l'uomo, considerato maturo, alla terra su cui dovrà vivere e lavorare; riti che si intrecciano con quelli deputati alla costituzione di una propria famiglia, all'avvicendamento tra generazioni, ai rapporti con la comunità rurale.
Il concetto di "possesso della terra" compare relativamente tardi nelle società contadine, e il termine "proprietà" spesso non esiste nelle lingue originarie.
Il rapporto dell'uomo con il suolo era regolato da vincoli che discendevano, più generalmente, dal rapporto dell'uomo con la natura e la stessa terra da coltivare era considerata come "inscritta nella cornice più ampia del Cosmo e delle sue leggi naturali".
Per questo le pratiche agricole tradizionali accumulano tutta una serie di norme relative al rispetto della terra, alla sua preservazione e al rinnovamento delle proprietà che la caratterizzano.
Tutto questo non subordina l'uomo alla terra né lo rende passivo rispetto ad essa.
È una "complessa e stratificata relazione tra l'uomo e la terra di cui vive", che si distingue per almeno quattro caratteristiche:
1) l'esistenza di un legame concreto e non utilitario tra certi uomini e la terra che a loro pertiene;
2) l'indissolubilità del legame tra gli uni e l'altra;
3) l'interdipendenza riconosciuta che si traduce in obblighi reciproci;
4) la funzione di mediazione sociale, comunitaria e/o religiosa, assunta dalla terra.
Indissolubilità, interdipendenza, mediazione: declinazioni di una relazione non utilitaria ma al tempo stesso concreta, poiché fatta di gesti ed elementi reali, tangibili: semina, raccolta, manutenzione, salvaguardia, modifica e arricchimento dell'ecosistema.
Nelle società tradizionali il contadino è dato al suo ambiente fin dalla nascita, mentre se possibile i presupposti del legame risalgono ancor più indietro nel tempo, di generazione in generazione, in una cultura dove la tradizione è il principio più autorevole che garantisce la sopravvivenza e la perpetuazione della comunità.
Questa condizione fonda una visione del mondo "locativa", in cui l'uomo costruisce le proprie pratiche e relazioni, abitudini e atteggiamenti, nonché la sua stessa visione del mondo, sulla base dell'appartenenza al "luogo in cui è nato e vissuto" e in cui prima di lui hanno vissuto i suoi avi: un orizzonte di esperienza e credenze che produce senso di appartenenza, pacifismo, rispetto dell'ambiente, della terra e delle relazioni sociali.
A questa forma radicale di appartenenza si oppone la "religione utopica" del mondo occidentale, progressivamente svincolata dal legame con i luoghi e con la terra: presupposto culturale delle migrazioni (in cerca di occasioni migliori), del colonialismo e dell'accaparramento della terra.
Ma il "legame originario" non può essere spezzato; in esso risiede la stessa possibilità di esistenza delle genti contadine che ricavano dalla terra ciò di cui hanno bisogno per nutrirsi, vestirsi, costruire le proprie case.
Per questo il legame tra l'uomo e la terra è sempre incorniciato da riti religiosi e governato dalle regole della più stretta necessità: la relazione non può essere spezzata, perché la terra ha un carattere "sacro" e rappresenta in sostanza un mezzo di produzione che non può essere trasferito.
E tuttavia la terra non può essere considerata soltanto un mezzo di produzione: è un contesto, un ambiente di vita globale, dove i valori economici si intrecciano con quelli sociali, esistenziali e spirituali.
Per questo è pericoloso considerarla, alla stregua di altri beni, soltanto sotto il profilo materiale e cioè come un bene indifferenziato che potrà essere scambiato, sfruttato e infine distrutto.
La novità della proprietà della terra
Spesso i discorsi sul legame tra i contadini e la terra sono intrisi di retorica, soprattutto quando elaborati in base ad una visione idilliaca della campagna, che non è certo un prodotto della vera cultura contadina.
La complessità del rapporto con la terra include il conflitto, l'ansia di possesso, il tema della giustizia sociale, il problema dell'uso e dello sfruttamento.
Nel continente americano è stato esportato un modello che aveva già operato efficacemente in Europa, erodendo alle fondamenta l'edificio della cultura contadina tradizionale, recidendone il legame con i luoghi, attaccandola nelle forme collettivistiche di produzione e lavoro.
Ma se l'agricoltore occidentale espropriato della Terra ha potuto farsi proletario e vendere almeno la propria capacità lavorativa nel mercato capitalista, al contadino delle aree non sviluppate è toccato l'amaro destino dell'indigenza o dell'eterna precarietà.
Secondo l'economista e meridionalista Nicola Zitara, il contadino del Sud Italia rientra in questa sotto-categoria, dato che la mercificazione della terra non lo avvia naturalmente all'inurbazione e alla trasformazione in operaio, ma lo condanna all'immigrazione, alle economie marginali o alla disoccupazione; un fenomeno quest'ultimo tipico del sottosviluppo del Mezzogiorno dopo l'Unità.
Per gli storici dell'età moderna, il compimento di questo processo ha una data: il 1700, anno (probabile) della promulgazione del primo provvedimento di recinzione della terra in Inghilterra.
Gli "Enclosures Act" continuarono per oltre un secolo, fino al 1845 circa, sancendo l'appropriazione dei terreni coltivabili da parte della grande aristocrazia inglese, che era in grado di sostenere le spese legali e materiali per erigere e difendere le recinzioni.
L'opera di appropriazione avveniva, infatti, a danno delle terre demaniali su cui "cottagers", contadini non proprietari, esercitavano il pascolo, la raccolta e forme di agricoltura di sussistenza; le leggi del parlamento inglese obbligarono anche i piccoli proprietari "yeomen" ad effettuare le recinzioni, per le quali spesso non avevano i soldi necessari.
Come risultato i cottagers rimasero presto senza sostentamento e gli yeomen furono lentamente costretti a vendere le loro proprietà, accaparrate dai grandi proprietari che disponevano di capitali consistenti.
Per effetto di questa trasformazione la popolazione agricola passò dal 70% al 37% del totale; non si trattava soltanto di una decrescita quantitativa: l'effetto combinato della privatizzazione delle terre, della meccanizzazione dell'agricoltura e della trasformazione del mercato avrebbe spazzato via, nel giro di qualche decennio, un modello sociale che esisteva da secoli, con le sue forme di sussistenza e di organizzazione economica.
Insieme ad esso un'intera classe di contadini sarebbe sparita, intruppata nei ranghi dei nascenti opifici inglesi che avevano urgenza di manodopera proletarizzata.
Così, la trasformazione delle campagne e l'inurbamento dei contadini avvenne con tutta l'apocalittica violenza che conosciamo: prima che il processo fosse avanzato di molto, i lavoratori erano stati ammucchiati insieme nei nuovi luoghi di desolazione, le cosiddette città industriali dell'Inghilterra.
La gente di campagna era stata disumanizzata e trasformata in abitanti di "slums", la famiglia era sulla via della perdizione e grandi parti del paese scomparivano rapidamente sotto i cumuli di polvere di carbone e di detriti vomitati dai "satanici opifici".
Un vero abisso di degradazione umana
Si trattava di un uragano sociale, uno sconvolgimento globale, una discontinuità radicale in cui fattori sociali, economici e culturali convergevano nel lavoro di liquidazione di un intero mondo: un cambiamento nelle motivazioni all'azione da parte dei membri della società, "dal motivo della sussistenza a quello del guadagno".
In America Latina il processo di appropriazione è avvenuto prima ed in maniera più violenta, poiché è coinciso con la Conquista.
Nel ventennio più cruento e infervorato dell'invasione (1519-1539), indigeni di ascendenza molto antica furono sottoposti ad ogni forma di sopruso, allo sfruttamento schiavistico, a violenze fisiche e psicologiche fino all'annientamento di intere comunità.
Fu imposto ai nativi di imparare la lingua spagnola e di sottomettersi alla corona di Spagna, di giurare fedeltà al Papa e di cristianizzarsi.
Decimate dalle malattie introdotte dai conquistadores, le genti indigene superstiti furono ridotte alla servitù e costrette ad assumere il modello agricolo del vecchio continente, che includeva la proprietà della terra, lo sfruttamento estensivo, la monocoltura, l'adozione di tecniche ed elementi nuovi nella domesticazione di piante e animali.
Questo stravolgimento nei secolari assetti del rapporto tra uomo e natura lasciò, nel Nuovo mondo, un disastroso strascico di malattie infettive che derivarono dalle pratiche di concimazione con gli escrementi e dall'introduzione di mammiferi di grossa taglia (come animali domestici), in un contesto dove l'allevamento era ridotto e la convivenza dell'uomo con il bestiame poco praticata.
La conquista si caratterizzò, tra le altre cose, per un "brusco set di cambiamenti" introdotti nella coltivazione della terra, nell'allevamento e nell'uso a fini alimentari e produttivi degli animali domestici.
Imposto con i mezzi della violenza e dello sfruttamento in nome del progresso, il modello europeo interruppe un rapporto armonico delle popolazioni indigene con l'ambiente, innescando con largo anticipo sull'Occidente il lungo processo di estinzione dell'agricoltura autoctona e, di conseguenza, dell'identità, della cultura e del modello originario di vita del campesino.
Nella cultura boliviana la comunità viene prima dell'individuo, così come il diritto collettivo prevale su quello personale: nel mondo contadino la proprietà personale e privata della terra non è affatto una condizione naturale o originaria, semplicemente perché non è la più ragionevole.
Soltanto all'alba della modernità, infatti, con il drammatico incedere della colonizzazione e con l'applicazione del modello industrial-capitalista alla campagna, il suolo agricolo diventò una "frammentata costellazione di possedimenti individuali".
Prima di allora non esistevano recinti né piantagioni, né sangue o sudore così copiosamente versati; prima di allora quelle erano sempre state le "Terre del Popolo".
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