L’idea stessa di cultura può essere considerata un "prodotto culturale” e non è in nessun modo un termine oggettivo o neutro.

tratto da "Antropologia culturale"; di V. Ferrari.

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Non esiste un oggetto “cultura” nel mondo reale; si tratta di una rappresentazione, di un’utile configurazione ideale.

Come ogni altra categoria linguistica la parola “cultura” allude a una serie di fatti ma allo stesso tempo li seleziona, li discrimina, li organizza in un insieme significativo, e produce a sua volta dei fatti sociali.

Dunque sono possibili diverse concezioni e rappresentazioni di cos’è “cultura”.

Da questo punto di vista vale la pena notare alcuni aspetti.

Tale termine si è andato modificando nel tempo quanto al suo uso e al suo significato; in altre parole lo stesso termine in momenti storici differenti ha significato cose diverse.

Si sono avute definizioni differenti, o addirittura concorrenti di questo termine, inteso con significati diversi in ambienti e contesti territoriali, sociali e disciplinari differenti.

Tale termine ha avuto e rivela tuttora degli interessi politici o sociali precisi, con conseguenze concrete sul piano della realtà in cui viviamo.

La parola cultura deriva dal verbo latino cŏlere (coltivare) che veniva usato nell’antichità per indicare il lavoro della terra. 

Cultura era dunque la coltivazione (agricoltura, monocoltura ecc.).

In età umanistica, per cultura si intendeva ciò che oggi noi definiamo “erudizione” o “cultura intellettuale” ed elitaria, opponendo le persone colte (coloro che appartenevano alle società letterate e alle classi aristocratiche) a quelle incolte, ovvero al volgo, così come alle società illetterate.

Si può notare che già in quest’epoca, la parola cultura separava le persone, sia su base sociale (di classe) che territoriale (le alterità erano per definizione barbare, primitive, selvagge).

In epoca illuministica l’idea di cultura si connette a quella di progresso, di raffinamento intellettuale, di rischiaramento dalla superstizione. 

In Francia si parla in particolare di Civiltà e di costumi con una vocazione universalistica.

Contemporaneamente in Germania si elabora il concetto di Kultur, con un accento più particolaristico legato a un gruppo umano, a una terra, a uno spirito o al genio di un popolo. 

Tale nozione viene diffusa in particolare dal ceto medio in opposizione al sapere convenzionale dell’aristocrazia di corte.

Generalmente si fa risalire la prima definizione “moderna” di “cultura” a uno dei padri fondatori delle scienze antropologiche ovvero Edward Burnett Tylor il quale nella sua opera del 1871 "Primitive culture", diede della cultura la seguente definizione:

«La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società».

Questa definizione portava con sé tre importanti innovazioni.

  1. Per un verso non ci si riferiva più alla cultura intellettuale di una specifica classe sociale ma a un’idea più ampia e complessa che, inglobando tutte le attività umane, implicava sia concezioni astratte (pensiero), che abitudini sociali e usi pratici (le attività) e anche i loro artefatti (tutto ciò che oggi chiameremmo cultura materiale).

  1. Per un altro verso costituisce un processo di unificazione, poiché la cultura include in questo modo tutte le società, ciascuna con i suoi costumi particolari; come si capisce dal titolo della sua opera Tylor riconosce il carattere di cultura ad altre società, anche se vi aggiunge l’aggettivo “primitivo”.

  1. Infine ponendo l’accento sulle capacità e le attitudini acquisite, si suggeriva l’idea che la cultura non venisse trasmessa su base biologica ma che potesse essere appresa e dunque estesa potenzialmente a chiunque, in altre parole democratizzata.

Oggi esistono centinaia di definizioni diverse di cultura.

Uno dei più eminenti antropologi contemporanei Clifford Geertz, recentemente scomparso, ha definito la cultura in questo modo: «un modello di significati trasmesso storicamente, di significati incarnati in simboli; un sistema di concezioni ereditate, espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita».

La tradizione sociologica ha lavorato fin dall’inizio in stretta connessione con l’elaborazione antropologica. 

Una definizione classica è quella di Max Weber: «La cultura è una sezione finita dell’infinità priva di senso dell’accadere del mondo, alla quale viene attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo».

Le discipline culturali comunque presuppongono, attualmente, l’esistenza universale di un patrimonio culturale in ogni società umana (non esistono cioè gruppi umani privi di cultura), così come una diversità più o meno rilevante tra le diverse culture. 

Questo è anche il risultato del fatto che l’essere umano è fondamentalmente sociale, e deriva gran parte delle sue conoscenze, delle sue capacità espressive e delle sue abilità, dal gruppo sociale cui appartiene.

La realtà come costruzione sociale

È un errore pensare che cose come la realtà o la conoscenza, siano cose "naturali" e ovvie, evidenti a tutti. 

In altre parole è ingenuo pensare a una realtà esterna come qualcosa di completamente scisso dall’osservatore.

La sociologia si propone anzi di interrogare ciò che ci sembra più ovvio e "naturale", trasformando in domanda ciò che ci sembra scontato.

È importante sottolineare che particolari raggruppamenti di “realtà” e di “conoscenza”, appartengono a determinati contesti sociali.

Ciò che noi oggi chiamiamo “realtà”, è qualcosa che abbiamo definito socialmente in questo modo, attraverso una serie di processi, ovvero attraverso quello che i sociologi chiamano la “socializzazione primaria”, e dunque dei processi di interiorizzazione che determinano una specifica selezione, percezione, costruzione dell’immagine di realtà. 

La realtà sociale viene "costruita" attraverso un processo dialettico in cui il singolo individuo, in relazione alla natura e all’ambiente sociale, è al contempo attivo e passivo.

Il neonato della specie umana è, fra i piccoli di tutti i mammiferi, uno dei più indifesi. 

Finché non raggiunge almeno i cinque anni di vita, difficilmente può minimamente sopravvivere senza aiuto e senza relazioni di cura e socializzazione costanti e complesse. 

Attraverso la socializzazione, il bambino non soltanto impara a vivere in mezzo agli altri e a comportarsi in modo adeguato a un certo contesto, ma soprattutto attraverso le relazioni primarie si costruisce una propria identità e una propria coscienza di sé, diviene consapevole di sé stesso e della propria soggettività. 

Le forme di socializzazione sono anche alla base della costruzione dell’individualità e della libertà.

Il senso del sé è il risultato dell’interazione con altre persone e dell’oggettivazione che l’individuo fa di sé stesso quando arriva a considerarsi attraverso le immagini che gli restituiscono gli altri. 

Dunque l’immagine di sé e il senso di sé, sono il frutto di una buona socializzazione e di un buon processo di individuazione. 

L’Io con il quale ci identifichiamo è una risposta attiva al “Me” sociale, una risposta dell’individuo agli atteggiamenti che gli altri assumono nei suoi confronti.

L’individuo non è precedente alla comunità. 

Anzi "deve esistere un processo sociale" perché possano esistere degli individui.

In termini più culturali, si potrebbe dire che le “nostre” idee nascono solo nella misura in cui siamo capaci di assumere il pensiero e l’atteggiamento della comunità e quindi di rispondere ad essi.

Per quanto riguarda i processi di socializzazione, si suole distinguere tra una “socializzazione primaria” e una “socializzazione secondaria”. 

La "socializzazione primaria", avviene nello stadio infantile, attraverso le relazioni con figure fondamentali dal punto di vista affettivo: la madre, il padre o affini. 

In questa fase si apprende a vedere la realtà attraverso gli occhi di queste figure più prossime. 

In altre parole si interiorizza la visione delle cose che ci viene trasmessa dai genitori e in qualche modo la si oggettivizza. 

I ruoli, le idee, le rappresentazioni, le convinzioni dei genitori divengono anche i propri. 

In questo modo impariamo a percepire ogni particolare evento come dotato di un significato specifico. 

Questa percezione della realtà diventa qualcosa di assoluto, di rigido, di indiscutibile.

Il bambino non interiorizza il mondo delle persone per lui importanti come "uno dei molti mondi possibili": lo interiorizza come "il mondo", l’unico mondo esistente e concepibile, il mondo tout court. 

Per questo il mondo interiorizzato nella socializzazione primaria è tanto più saldamente radicato nella coscienza di quanto lo siano i mondi interiorizzati nelle socializzazioni secondarie. 

Anche se l’originario senso di inevitabilità viene indebolito dalle successive disillusioni, il ricordo di una certezza irripetibile – la certezza della prima alba della realtà – continua ad aderire sempre al primo mondo dell’infanzia.

La “realtà” dunque va intesa come una struttura convenzionale di fondo interiorizzata attraverso le relazioni primarie - necessaria per fornire un minimo senso di sicurezza per orientarci nel mondo.

Quali sono gli agenti di socializzazione? 

Oltre alla famiglia e alla sfera delle relazioni primarie, si possono indicare il “gruppo dei pari”, la scuola, l’ufficio, la parrocchia e altri ambienti comunitari, ma anche i mass media, Internet e la rete.

La “socializzazione secondaria”  ha a che fare con l’ingresso in contesti sociali non primari, ovvero non connotati in maniera così forte dal punto di vista affettivo. 

Pensiamo alla scuola, al gruppo di amici, alla parrocchia, al partito, al mondo del lavoro. 

Confrontandosi con questi nuovi contesti, via via si impara che il mondo appreso e interiorizzato dai genitori non è l’unico esistente ma solo "una percezione della realtà tra le tante possibili". 

Esiste la possibilità di nuove forme di socializzazione che portano a profonde ristrutturazioni dal punto di vista cognitivo, mentale, culturale. 

Qualsiasi sia l’esperienza è chiaro che in qualche modo occorre uno "shock biografico" per disintegrare la massiccia realtà interiorizzata nell’infanzia. 

Questo shock avviene attraverso nuovi contesti di relazioni molto importanti, dal punto di vista socio-culturale. 

Spesso sono processi che si producono per mezzo dell’inserimento in particolari luoghi di segregazione o comunque di isolamento dal mondo cui si era tradizionalmente abituati. 

Pensiamo per esempio allo spazio di un convento, di una caserma o di un ospedale psichiatrico, o anche alla realtà inedita che si presenta in un processo migratorio. 

Si tratta di luoghi in cui l’individuo è inserito in un nuovo contesto con nuovi linguaggi, regole, rappresentazioni, valori a sé stanti, talvolta ben differenti da quelli già conosciuti.

La scienziata e attivista indiana Vandana Shiva, ha messo in guardia da un uso troppo chiuso e asfittico dell’identità culturale, che può causare gravi conseguenze di riduzione della biodiversità naturale e culturale:

"La principale minaccia alla diversità deriva dall’abitudine a pensare in termini di monocolture della mente. 

Le monocolture della mente cancellano la percezione della diversità e insieme la diversità stessa, ed è la scomparsa della diversità a creare la sindrome della mancanza di alternative".

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