L'insopportabile pesantezza della colonialità climatica.

tratto da "The unbearable heaviness of climate coloniality"; di F. Sultana.

https://doi.org/10.1016/j.polgeo.2022.102638

Il colonialismo climatico impone una "ripoliticizzazione" del discorso sulla crisi ecologica in corso.

Impone cioè l'individuazione del "chi e perché" è da ritenersi colpevole/responsabile. 

Il clima infatti non si limita a "cambiare", viene piuttosto "colonizzato e costretto ad alterarsi e modificarsi"; ma adesso, come indicano le molteplici catastrofi alle quali quotidianamente assistiamo, il clima sta insorgendo e sta resistendo all'assalto sferrato contro di esso.

Mentre la comunità globale si congratula con se stessa per aver raggiunto ciò che è "politicamente possibile", non si può non considerare quanto anemica sia, in realtà, la natura degli accordi sul clima, in considerazione dell'entità del problema. 

Tali accordi infatti non eviteranno la morte di milioni di persone, semplicemente perché queste vite "non contano".

In un discorso diventato virale al vertice di apertura della COP 26 (26a riunione della Conferenza delle parti sul clima), il primo ministro delle Barbados, Mia Mottley, ha affermato: “Non vogliamo subire in silenzio la nostra condanna a morte e siamo venuti qui oggi, alla conferenza globale, per chiedere con fervore la necessità di fermare il crollo climatico". 

La COP 26 ha condotto gli attivisti indigeni e gli ambientalisti a definire "false" le soluzioni climatiche e ad individuare, invece, varie forme di perpetuazione del colonialismo, praticate attraverso l'accaparramento di terre e l'estrazione, lo sfollamento e l'espropriazione. 

Il presidente boliviano Luis Arce, ha fatto eco alle preoccupazioni sulla "compensazione del carbonio" (e sull'imposizione di regole, da paesi potenti a paesi storicamente emarginati, attraverso il sistema delle Nazioni Unite e altri meccanismi internazionali), mettendo sotto accusa il "nuovo colonialismo del carbonio", attraverso il quale i paesi postcoloniali vengono sistematicamente emarginati nei negoziati internazionali ed esclusi dalle narrazioni globali sulla lotta ai cambiamenti climatici. 

Il parallelo "People's Summit for Climate Justice", tenutosi appena fuori dalla sede della COP 26, ha avanzato richieste ben più insistenti per un "cambiamento di sistema".

Gli attivisti per il clima si sono radunati sotto la bandiera del "non più bla, bla, bla", per criticare i fallimenti e le promesse non mantenute dei leader mondiali. 

Le critiche sulle "promesse vuote" sono state accompagnate da esempi reali di "requisizione delle narrazioni sulla giustizia climatica" e di "greenwashing", messi in pratica dalle lobby dei combustibili fossili (spalleggiate dai politici). 

In effetti, l'industria dei combustibili fossili ha avuto la delegazione più numerosa alla COP 26, attirando l'attenzione e le critiche a livello globale sull'influenza e le manipolazioni palesi e nascoste della politica climatica, attuate attraverso decenni di negazioni e ritardi.

Un importante attivista per la giustizia climatica del Regno Unito, Asad Rehman, ha dichiarato alla chiusura della COP 26: 

I ricchi si sono rifiutati di fare la loro giusta parte; hanno voltato le spalle ai più poveri mentre questi affrontano le crisi scaturite dalla pandemia da COVID 19 e da un'apartheid economica e climatica dovuta proprio alle azioni dei più ricchi. 

È immorale per i ricchi parlare del futuro dei loro figli e nipoti, mentre i bambini del Sud del mondo stanno morendo adesso”. 

Tali aspre critiche sono state analogamente espresse da molti studiosi e attivisti, che hanno sottolineato i fallimenti nell'affrontare l'impatto climatico sproporzionato che le perdite e i danni hanno avuto sugli stati-nazione costieri e le piccole isole postcoloniali. 

Dopo la COP 26, la giovane attivista per il clima ugandese Vanessa Nakate, ha espresso la sua frustrazione: “Non possiamo adattarci alla fame e non possiamo adattarci all'estinzione, non possiamo mangiare carbone né bere olio; ma non ci arrenderemo".

Le "tattiche coloniali" sono state identificate e apertamente denunciate, durante e dopo la COP 26, tanto da capi di stato quanto da attivisti locali.

Molti attivisti per il clima, delegati e giovani del Sud del mondo, hanno lasciato la COP 26 esprimendo un senso di ingiustizia climatica, dolore e rabbia, tristezza e futilità. 

Mentre alcuni hanno inquadrato i deludenti risultati in termini di fallimenti delle negoziazioni sul clima, altri sono stati più diretti nel richiamare "tattiche coloniali e razziali di controllo delle comunità emarginate", in tutto il Sud del mondo e altrove. 

Questo senso di "necropolitica", in un teatro globale come la COP, è stato criticato ben più che in passato. 

Le varie tattiche di resistenza e opposizione degli attivisti sono state ampiamente documentate anche dai media mainstream. 

Il senso di urgenza con cui un numero sempre maggiore di cittadini richiede risultati migliori e più efficaci, è ormai evidente. 

Sebbene tali preoccupazioni siano state espresse anche in precedenza, in molte altre COP, questa volta la rabbia era molto più profonda. 

Ironia della sorte, oltre un decennio fa alla COP del 2009, Klein aveva riferito: "A meno che non paghiamo il nostro debito climatico rapidamente, potremmo ritrovarci a vivere in un mondo di rabbia climatica". 

Questa rabbia è stata ritenuta giusta, come giusta anche la pretesa, dei paesi storicamente oppressi, di ottenere giustizia, riparazioni ed equità.


Ma ora la rabbia è diventata globale

Tuttavia, essa non è equivalente ovunque, né sperimenta gli stessi registri. 

La COP26 può essere vista come uno dei teatri del colonialismo climatico (guidato principalmente da corporazioni, governi potenti ed élite), ma allo stesso tempo come un luogo di politica decoloniale, anticoloniale, antirazzista e femminista (guidata principalmente da attivisti, giovani, gruppi indigeni, accademici e sindacati). 

I negoziati internazionali sul clima falliscono sistematicamente nell'affrontare il cambiamento climatico e non riducono significativamente la dipendenza dai combustibili fossili, dai modelli di crescita e di iperconsumo, né dai sistemi che li sostengono a scala diversa. 

Piuttosto, questi spazi diventano spettacoli mediatici, performance che cancellano la geopolitica storica e le reali relazioni di potere. 

Quasi ogni anno si ripete la medesima performance di diversione e ritardo, cooptazione e performatività "senza sostanza". 

Tuttavia, questi sono anche spazi di opportunità per sfidare il sistema, spazi nei quali più persone possono ascoltare le parole pronunciate da attivisti giovani e meno giovani, imparare da posizioni diverse, creare nuove aperture e possibilità di alleanze; e così "ripoliticizzare" il discorso sul cambiamento climatico, svelando "la finzione alla base delle utopie tecno-economiciste depoliticizzate" che non portano mai a risultati significativi. 

Secondo Fanon, essere colonizzati significa "sentirsi meno di, sentirsi dire quali sono le verità, essere valutati diversamente nel tempo e nel luogo, essere disumanizzati attraverso una epidermializzazione dell'inferiorità, per essere infine creati come Altro razzializzato".

La ferita coloniale è incarnata, è scolpita nei corpi e nelle menti. 

Il razzismo istituzionalizzato struttura il mondo in modi ineguali, sia attraverso la violenza coloniale ed imperiale, che attraverso quella materiale ed epistemologica.

Spazializzazione del razzismo e del colonialismo e distruzione ambientale, vanno di pari passo.

La colonialità climatica riproduce le ingiustizie del colonialismo e dell'imperialismo, attraverso gli impatti climatici sulla post-colonia (situata principalmente nei Paesi tropicali e subtropicali, dove i disastri e i cambiamenti indotti dal clima sono prevalenti da tempo). 

Il cambiamento climatico mette a nudo non solo il colonialismo del passato, ma anche la "colonialità in corso", che governa e struttura le nostre vite.

Le vulnerabilità e le emarginazioni, i morti e le devastazioni, date per scontate, richiamano l'attenzione sulle continuità "dal passato e verso il futuro": una violenza lenta che penetra insidiosamente in diversi aspetti della vita e crea traumi intergenerazionali destinati a permanere a lungo.

La colonialità crea il senso di "essere e non-essere", di appartenenza e non appartenenza, di carenza e capacità, di resa e resistenza. 

La marginalità, molto più che un luogo di privazione... è però anche il luogo di una possibilità radicale: è uno "spazio di resistenza". 

In un certo senso, questo è il pensiero di confine (o il pensiero di "terre di confine", oppresse dalla matrice coloniale del potere, contro il quale comunque resistono): spazi dove la conoscenza può essere prodotta "al di fuori della modernità ma in relazione ad essa", nella cultura decoloniale.

Epistemologie e cosmologie alternative "emergono" così da esperienze vissute, svalutate nella modernità eurocentrica e nella colonialità climatica. 

Ciò richiede di affrontare sia le violenze epistemiche che i risultati materiali. 

Affrontare la colonialità climatica implica "ricostituire memorie e coscienze individuali e collettive", per la riconciliazione e la liberazione. 

C'è un urgente bisogno di decolonizzare il clima

L'epistemologia (la produzione di conoscenza) e la materialità (la prassi dei risultati materiali e delle esperienze vissute), sono simultaneamente centrali per la decolonizzazione.

Decolonizzare il clima a un livello di base significa quindi "integrare" i contributi decoloniali, anticolonialisti, femministi.

Il colonialismo, attraverso il clima, perseguita il passato, il presente e il futuro.

L'imperialismo prosegue attraverso il neoliberismo e il capitalismo razziale, gli interventi di "sviluppo" e l'istruzione, la formazione e i media. 

La colonialità climatica si esprime dunque in varie forme: non solo attraverso il capitalismo dei combustibili fossili, i modelli di crescita e sviluppo neoliberisti, gli stili di vita iperconsumatori e dispendiosi, ma anche attraverso strutture, sistemi ed epistemologie, costruite e mantenute in essere da potenti alleanze a livello globale. 


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