La crisi climatica potrebbe essere l’opportunità per superare definitivamente il sistema capitalistico.
tratto da "Antropologia e Antropocene"; di S. Flamini e M. Pellicciari.
https://www.academia.edu/download/52058693/art_pellicciari_4_2016.pdf
Uomo e natura sono inscindibili
L' essere umano può essere osservato solo ed esclusivamente in relazione all’ambiente in cui vive.
Qualsiasi astrazione del concetto di “ambiente” inteso come meramente biologico, naturale, “neutrale” (o semplicemente indipendente dalla presenza dell’uomo e dalle sue relazioni sociali) è, almeno negli ultimi 300.000 anni, un non senso, una pura invenzione.
L’uomo non è un “incidente” nella storia del pianeta, né un organismo anomalo e indipendente, ma uno dei suoi intrinseci prodotti e, al contempo, uno dei suoi principali agenti di trasformazione; questo fin dal primo momento in cui è comparso sul pianeta, sebbene certamente in misura esponenziale via via che determinate direzioni di sviluppo venivano intraprese.
Per questo motivo tenere conto dei singoli dati biologici, culturali o anche geologici, senza connettere gli uni agli altri, produce saperi parziali e di discutibile valore scientifico.
Eppure, la scienza moderna si è costituita attorno alla grande dicotomia tra scienze naturali e scienze dell’uomo, tra scienze “dure” e scienze sociali, continuando a riprodurre una narrazione che vede i due ambiti separati non soltanto accademicamente ma de facto; strutturati per essere reciprocamente poco permeabili.
Questo - ci dice Bruno Latour - fino alla comparsa del concetto di “Antropocene”, che sta facendo tremare le fondamenta su cui il pensiero moderno ha, per secoli, fondato la propria autorappresentazione.
Secondo Latour, antropologo ed epistemologo della scienza, accettare di vivere nell’antropocene significa riconoscere la fine del modernismo: uscire da un’idea lineare e progressiva del tempo e dell’agire, rinunciare ad osservare il mondo attraverso la lente che il modernismo ci ha fornito; ovvero in primis rinunciare alla separazione tra umano e non umano, tra natura e cultura, tra soggetto e oggetto.
Alcuni studiosi più critici, tra cui l’antropologa Anna L. Tsing, hanno sottolineato come il termine Antropocene si presti a molteplici letture e che, a seconda dell’uso che se ne fa, può rappresentare una cesura ma, allo stesso tempo, porsi in perfetta continuità con una visione modernista e finanche alimentarla.
Il termine cioè conserva in sé, secondo Tsing, una sorta di “tecno-ottimismo”: l’idea che i danni provocati al sistema Terra possano essere “aggiustati” apportando migliorie, come se la perfezione fosse là da venire, un obiettivo ancora davanti a noi.
La natura “tragica” dell’antropocene
L'uomo, nel suo tentativo di conquistare la natura, è divenuto di fatto anche il suo principale agente di distruzione.
In tale tragedia tuttavia è implicita anche la possibilità di riscatto e salvezza: l’antropocene segna un punto di svolta decisivo e irreversibile e dunque può dare vita a nuovi inizi.
Per la sua capacità di introdurre rotture e discontinuità, l’antropocene andrebbe considerato come un’epoca di transizione verso qualcosa di indefinito, che ancora non è dato conoscere perché attualmente in atto, e che sarà costituito dall’esito delle lotte del presente.
Termini migliori di “antropocene”, che sarebbero stati in grado di evidenziare meglio i determinanti storico-politici che hanno caratterizzato le recenti globali trasformazioni del pianeta, non avrebbero avuto lo stesso riconoscimento e non sarebbero penetrati in maniera così pervasiva a livello di senso comune.
Di qui la “bontà” del concetto di antropocene, che essendo stato prodotto in un contesto considerato “neutro” quale quello delle scienze geologiche, è riuscito a penetrare e a sollevare il necessario dibattito (scientifico e politico) sugli effetti dello sviluppo umano sul sistema Terra.
Tale termine da solo tuttavia non basta, perché rischia di perdere il suo portato critico e dirompente, e di venire addomesticato o addirittura utilizzato in chiave conservatrice.
Il principale rischio di un termine come “antropocene” è quello di alimentare una visione naturalizzata, positivistica, modernista delle trasformazioni che la Terra ha subito e sta ancora subendo.
Concetti quali “globo”, “umanità”, “riscaldamento globale”, finiscono per alimentare (e sono contemporaneamente il prodotto di) una visione secondo cui la natura dell’uomo è di per sé consumatrice, sfruttatrice, potremmo dire parassita: la sua sopravvivenza è necessariamente e proporzionalmente correlata alla sua capacità di depredare le risorse e i territori in cui vive, di consumarli fino ad esaurirli.
Abbiamo dunque bisogno di una categoria semantica che possa comprendere anche l’idea di un “capitalocene”, ovvero di una "condizione storica, prodotta da determinate politiche di sviluppo", messe in atto da specifici individui e non dall’umanità come entità astratta.
Andreas Malm, l’antropologo che per primo iniziò ad utilizzare il termine Capitalocene, analizza in chiave critica sia la panoramica che individua nell’invenzione della macchina a vapore, nella rivoluzione industriale e nel conseguente aumento dell’utilizzo di combustibili fossili, le coordinate temporali che sanciscono l’inizio dell’antropocene, sia la prospettiva che considera tali eventi come un "diretto risultato" della capacità dell’uomo di manipolare il fuoco.
Tale connessione, infatti, inscrive un ordine di necessità tra due fattori tra loro logicamente collegati (la capacità di manipolare il fuoco è senz’altro condizione necessaria per la combustione su scala globale del carbone) ma non certo da una concatenazione causale, e non dice nulla sulle "ragioni storiche" che hanno condotto la Gran Bretagna del XIX secolo a promuovere l’utilizzo del motore a vapore.
La combustione di carbone è infatti direttamente connessa con la progressiva affermazione del sistema capitalistico di produzione delle merci: Malm afferma che il motore a vapore non era tecnologicamente superiore ad altri dispositivi per la produzione dell’energia allora diffusi, tra cui ad esempio il mulino ad acqua, né in termini di quantità né in termini di costi.
Anzi, per il proprietario della singola fabbrica il carbone costituiva l’opzione più dispendiosa.
Ma di certo offriva una serie di vantaggi in termini capitalistici generali: forniva una quantità regolare di energia on demand, richiedeva minori investimenti in infrastrutture, e soprattutto consentiva di concentrare la produzione industriale all’interno delle città, dove era più semplice disporre di un vasto bacino di manodopera a basso costo e, contemporaneamente, innescare un mercato per un rapido consumo delle merci.
Il passaggio allo sfruttamento intensivo dei combustibili fossili fu dunque il risultato di una lotta di classe in cui la borghesia riuscì ad imporre un sistema di produzione che arricchiva pochi alle spese di molti; non fu in nessun modo un passaggio "naturale" dell’evoluzione umana.
Anche la massiccia produzione di emissioni del mondo contemporaneo, ribadisce Malm, è conseguenza di un processo molto simile: il principale produttore di CO2 è infatti oggi la Repubblica Democratica Cinese, ma la causa principale non è l’aumento della sua popolazione, né l’incremento dei consumi domestici o dei servizi pubblici, bensì la smisurata espansione dell’industria manifatturiera, indotta in Cina dal capitale straniero, attratto dalla possibilità di produrre profitto dallo sfruttamento di manodopera a basso costo (e disciplinata).Malm rifiuta dunque come antistorica, un’astrazione indifendibile fin nelle sue premesse: l’attribuzione all’umanità intera della responsabilità del cambiamento climatico e dello stallo politico che ne deriva.
Pochissime altre industrie infatti eguagliano quella estrattiva nello scatenare l’opposizione popolare, in particolare fra le comunità locali, nonostante la forza del capitale riesca quasi sempre a sopravanzare le resistenze.
La stessa energia elettrica rappresenta una delle risorse più iniquamente distribuite del pianeta, peraltro a discapito proprio di aree e popolazioni già largamente depredate e inquinate.
Othering e zone di sacrificio
L’alienazione, la costruzione dell’altro come entità essenzializzata e reificata cui attribuire un valore relativo – l’idea di “othering”, introdotta da Edward Said – è il dispositivo che ha consentito al sistema capitalistico di procedere attraverso la progressiva individuazione di cosiddette “zone di sacrificio” da depredare in nome del progresso.
Naomi Klein nel suo testo del 2014 “This changes everything”, utilizza tali definizioni per sottolineare come l’attuale sistema economico attribuisca un valore maggiore ad alcune vite rispetto che ad altre.
Rispetto al passato, tuttavia, i margini di tali zone di sacrificio si stanno via via allargando fino ad inglobare aree e soggetti che precedentemente appartenevano alla categoria del “noi”: i bianchi, medio-borghesi, occidentali.
«I combustibili fossili impongono il sacrificio di alcune zone del mondo; è sempre stato così ma non si può avere un sistema costruito su luoghi e vittime sacrificali a meno che non esistano teorie che giustificano il loro sacrificio: dal destino manifesto alla terra di nessuno, all’orientalismo, dai rozzi montanari agli indiani arretrati».
Una fascia ormai ampia di soggetti “esposti”, il cui potere di mobilitazione potrebbe determinare un rivoluzionario spostamento dei rapporti di forza: ambiente, salute ed economia non sono mai stati così evidentemente interconnessi per un numero così ampio di persone.
L’attuale crisi climatica potrebbe dunque essere l’opportunità per intervenire una volta per tutte sui modelli di sviluppo globale, per superare definitivamente il sistema capitalistico.
È ormai evidente che le lotte per i diritti indigeni, per la tutela dell’ambiente e per la difesa della salute, sono fili che conducono alla stessa matassa e che tale matassa non potrà essere sbrogliata se non attraverso l’adozione di un approccio sistemico.
L’illusione di una proiezione all’infinito dei privilegi del presente, rischia di continuare a perpetrare un sistema che al momento continua a colpire in maniera diseguale e prepotente i più poveri.
La resistenza delle comunità indigene, il movimento dei nativi americani contro la costruzione di nuovi oleodotti nelle loro terre, delle popolazioni di aree in progressiva immersione a causa dell’innalzamento del livello dei mari, delle associazioni per la difesa della salute dei lavoratori e dei residenti di territori inquinati dalle industrie, reclamano a gran voce modalità alternative ma possibili di rapporto con l’ambiente, e denunciano l’estrazione e il drenaggio globale delle risorse non come un passaggio necessario verso il progresso ma come la strada certa per l’autodistruzione.
La loro forza di reazione può diventare la leva sulla quale sollevare un mondo che appare pesantissimo e inamovibile.
In tal senso, dice Klein, la crisi climatica rappresenta forse oggi la nostra ultima opportunità per risolvere le peggiori contraddizioni dell’epoca presente e agevolare un processo di rinnovamento che sappia finalmente introdurre principi di giustizia economica e sociale, per il bene di tutti.
Commenti
Posta un commento