Siamo legati agli altri esseri umani, agli altri esseri viventi e agli altri esseri in generale, da una trama di connessioni e interdipendenze.

tratto da "Ecologie native"; di E. Borgnino.

La vita sulla terra è un coro di contrasti e assonanze: i solisti sono solo una finzione.

Un "nuovo ambientalismo", che sottolinea l'interconnessione e le interdipendenze tra tutti gli abitanti della terra, si scontra con alcune tra le nostre più radicate certezze. 

La prima è la "condizione umana": la convinzione che la cultura (in senso antropologico) sia caratterizzata da esclusività ed eccezionalità; i sapiens sarebbero i protagonisti di una sorta di salto quantico che li avrebbe posti "oltre" gli altri esseri del pianeta, fuori dalla Natura.
"Natura": un concetto che la tradizione di pensiero occidentale ha considerato come "la squadra in cui gioca tutto il resto del mondo non umano"; una bizzarra categoria che tiene insieme orsi, carbone, sale e persino pianeti e galassie.
Una categoria, quella di Natura, che appare assai strana ai locutori di altre lingue; infatti è intraducibile in molti contesti.

Un'altra certezza scossa dal "nuovo ambientalismo" è di tipo politico: è l'idea secondo cui il mondo è, e non può non essere, diviso in Stati.
Lo Stato ha dato forma ai nostri pensieri, ha reso "naturale" l'idea di un mondo diviso in raggruppamenti politici e culturali dai confini ben definiti. 
Ma in realtà uccelli, grandi mammiferi e pesci, ossigeno o polveri vulcaniche non sanno che farsene di confini nazionali, mentre invece molti esseri umani muoiono ogni anno, uccisi dalle barriere innalzate dagli Stati. 
L'esistenza di confini politici, simbolici e reali, tuttavia non è più una ragione per chiamarsi fuori dalle enormi responsabilità nei confronti dell'ambiente e delle generazioni future.

Non si tratta di individuare culture che hanno dato vita a rapporti idilliaci e paradigmatici con quella che noi chiamiamo Natura; si tratta piuttosto di "prendere sul serio" le loro ecologie, ovvero i modi con cui hanno organizzato la loro interdipendenza con l'ambiente. 

Quando si parla di "ambiente" non si evocano solo spiagge, litorali o valli verdeggianti ma anche palazzi storici, zone contaminate da mine e bombe, coste minacciate dall'innalzamento dei mari. 
Allo stesso modo il "paesaggio" non è una cornice fissa, ma una sintesi di presenze umane e non umane, di esperienze vissute e di vite a venire. 

La "responsabilità" consiste nel prendersi cura e riprodurre la vita nell'ambiente in cui è dato nascere e che è già, da sempre, una sintesi di precedenti convivenze e conflitti (come quelli coloniali che hanno opposto, e tutt'ora oppongono, "nativi" ed "invasori"). 
"Prendere sul serio gli altri" significa considerare le loro ecologie, non alla stregua di modelli ideali di conservazione dell'ambiente ma come "concrete pratiche" della relazione tra umani e oltre-che-umani. 

Il virus e la guerra hanno messo in crisi la grande narrazione (sviluppata a cavallo degli ultimi due secoli) che chiamiamo globalizzazione.
I confini del mondo umano sono tornati a chiudersi e ci siamo accorti che la narrazione di un mondo uniforme per cultura e stile di vita era solo una "grande finzione". 
In questo clima, diventa essenziale tornare a porre l'accento sulla diversità culturale come repertorio di forme e possibilità dell'umano. 

Le "somiglianze e le connessioni" tra sapiens, convivono con il gusto e la capacità di dar vita a lingue e culture differenti, attraverso le quali possiamo prenderci cura (e avere responsabilità) del nostro posto nel mondo. 

Esercitare la responsabilità significa dunque prendersi cura delle persone e dei territori con i quali siamo in relazione.[1]
Come esseri umani siamo sempre più consapevoli di essere parte di una rete di connessioni e relazioni con gli ecosistemi. 

Piante e animali (ed esseri umani) sono infatti costituiti da una miriade di cellule e ciascuna di queste unità possiede tutte le proprietà della vita. 
Continuano ad aumentare le conferme che gli organismi non siano "individui", ma esseri costituiti da una "comunità" di unità più piccole.
Basti pensare alla flora intestinale, composta da miliardi di esseri viventi piccolissimi che possiedono caratteristiche comuni a tutti gli altri esseri viventi più complessi. 
L'antropologo Francesco Remotti parla di "con-dividuo" per spiegare come il soggetto umano sia già di per sé una "convivenza organizzata" da un punto di vista sociale, neurologico, immunologico, ecologico; teorie come la selezione naturale di Darwin e l'ipotesi Gaia di Lovelock, vengono oggi rivalutate in quanto espressioni ed anticipazioni di questo "nuovo paradigma relazionale". 
Il naturalista inglese mise in luce il grande ruolo della variabilità nella selezione (e del caso in natura); Lovelock viene oggi ri-accreditato per aver ipotizzato che il pianeta Terra sia un organismo vivente che si "autoregola". 

Incomincia così a concretizzarsi una nuova simmetria tra umani e oltre-che-umani, e i dualismi cari al nostro pensiero filosofico (cartesiano) vengono sostituiti dall'emergere di una pluralità di ecologie.
Queste "ecologie plurali" sono vive e rispondenti, non corrispondono a una natura statica, osservabile e godibile, controllabile e separata dagli esseri umani, ma sfuggono alle categorizzazioni.
È un dialogo, quello con l'ambiente, che la maggior parte delle culture native ha continuato ad avere attraverso lingue e pratiche distinte che tuttavia esprimono, in modi diversi, la "non separazione tra esseri umani e natura". 

Una separazione, quella tra le categorie di natura e cultura, di umano e non-umano, che non è né rigida né universale. 

Ciò non significa che le culture indigene vivano in "armonia con l'ambiente" o non sfruttino le risorse terrestri e marine ma, a differenza del neoliberalismo, questi popoli continuano a "negoziare la loro posizione nei confronti dell'ambiente", con la consapevolezza della loro dipendenza da altri organismi. 

Oggi viviamo in un'epoca chiamata anthropocene.

L'antropocene ci pone dinanzi a numerose sfide, e al contempo palesa la "dipendenza" degli esseri umani dalle relazioni con le numerose entità non umane che popolano il pianeta: agenti atmosferici, CO2, animali, piante, montagne, fiumi, mari, spore. 

Tuttavia, spesso si parla di esseri umani senza prendere in considerazione il fatto che il 5% dell'umanità ha dato, e continua a dare, risposte diverse alla crisi ecologica odierna: questo 5% è costituito dalle culture native. 
Le culture indigene hanno da tempo elaborato e formalizzato l'interdipendenza con l'ambiente, riconoscendo le molteplici soggettività che lo costituiscono. 
Spesso i popoli nativi vengono descritti come "custodi del pianeta", ma sono piuttosto i diversi territori (insulari, desertici, montani e silvestri) ad essere i "custodi della memoria" ecologica e delle storie umane. 
Le culture, infatti, per fiorire hanno bisogno di luoghi e territori da preservare, anelare, immaginare: spazi dove interdipendenza e relazione influenzano le scelte politiche ed ontologiche. 

Le ontologie indigene hanno codificato per secoli il "rapporto tra collettivo umano e ambiente", attraverso il principio dell'interconnessione.
I luoghi, custodi del passato, sono al contempo espressione del presente e sentieri verso futuri immaginati: i luoghi non sono solo "spazi della natura", ma siti in cui "la storia si fa spazio". 
I luoghi sono, secondo la maggior parte delle culture indigene, abitati prima dagli spiriti e poi da tutti gli altri esseri; queste entità chiamate spesso "antenati", con particolari caratteristiche a seconda delle diverse culture, vivono in uno spazio condiviso ma in una pluralità di tempi, fungendo da "legame generazionale" per il collettivo umano e oltre-che-umano. 

Il rapporto con un luogo sagoma e caratterizza le relazioni che si vengono a creare tra i diversi elementi di un territorio, che concorrono a costruire un determinato spazio culturale. 
Questi elementi possono essere umani e non umani, e pur condividendo lo stesso luogo possono vivere in tempi storici diversi. 
Sono i luoghi a spingere, quindi, verso un rapporto "diacronico": la comunità spaziale, dialogando con quella temporale, permette la convivenza di piani storici distanti nello stesso luogo. 
Ogni elemento dell'ambiente ha una sua individualità (che si perde nell'osservazione dell'ecosistema nel suo insieme); ogni elemento ha una sua storia: una pietra, un albero, l'ossigeno, sono un "addensato di storie", alcune visibili altre invisibili. 

Ma tutte storie che gli esseri umani, in molte culture, hanno sentito il dovere di raccontare, tramandare e tutelare, poiché la cura di queste storie garantisce la comunità culturale. 
La ricchezza custodita nelle storie ecologiche native, sagomata dalle unicità culturali e geografiche, può e dovrebbe contribuire al dialogo ecologico per immaginare e progettare il futuro del nostro pianeta. 
Un futuro basato su un nuovo paradigma del vivente, più consapevole della dipendenza ecosistemica e delle responsabilità collettive. 

L'ambiente, visto come un "sistema di relazioni" non può dunque essere parcellizzato.
Osservato, invece, attraverso la lente della responsabilità, esso racchiude la consapevolezza della dimensione ecosistemica e partecipatoria (insomma collettiva), delle relazioni.[2]


[1] introduzione di A. Favole.
[2] prologo di E. Borgnino.


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