Affermare la “qualità” della convivenza sociale rispetto alla “quantità” del PIL e dei consumi materiali.
tratto da "Carla Ravaioli: un pensiero ecologico profondo"; di M. Ruzzenenti.
"Bisogna produrre di meno".
Carla Ravaioli lo diceva a chiare lettere, impegnandosi ad argomentarne ragioni e conseguenze, incurante del fatto che una simile proposta sarebbe stata giudicata risibile o scandalosa, nel migliore dei casi accantonata come irrealistica.
Gli effetti della sua proposta sarebbero, a tutti gli effetti, a dir poco “rivoluzionari” sul piano sociale e della convivenza umana.
Produrre meno: cioè adire ad una selezione dei prodotti di imprescindibile utilità sociale e abbassare gradualmente la produzione del superfluo; ciò comporterebbe progressivamente una forte riduzione della giornata lavorativa.
Sarebbe cioè la realizzazione di quell'auspicio al "lavorare meno lavorare tutti" che, avanzato inizialmente dai movimenti giovanili, è ormai divenuto rivendicazione più o meno dichiarata, sebbene in formulazioni molto ridimensionate, delle organizzazioni sindacali.
Sarebbe la possibilità di avvio non solo di un uso diverso, ma di una diversa concezione di quello che non a caso è stato chiamato «tempo libero» (in subordine e in contrapposizione al tempo «imprigionato» nel lavoro) e che, pure non a caso, recentemente si è incominciato a chiamare «tempo di vita» (ancora in contrapposizione, ma non più in subordine, al tempo di lavoro, che anzi viene implicitamente dato come tempo perduto per la vita, tempo di non-vita).
Tempo cioè in cui cercare la vera realizzazione di sé, impostare e sperimentare con agio i rapporti più ricchi, e anche - perché no - produrre, ma secondo la propria inclinazione, i propri ritmi e il proprio estro, secondo una dimensione non utilitaristica, separata dalla logica dello scambio e dall’obiettivo del reddito.
Ridurre la pressione sociale sul perseguimento di risultati economici in nome della competitività, dato caratterizzante in particolare il «maschile», sarebbe la base più sicura per il recupero e la valorizzazione del «femminile» dell’intero genere umano.
Ridurre fortemente la produzione, e dividere la quantità di lavoro ad essa necessaria tra tutti gli individui in età lavorativa, uomini e donne, permetterebbe di lavorare (tutti) per un numero assai limitato di ore al giorno, e avere una grande disponibilità di tempo libero.
Ciò cancellerebbe ogni ragione per l’attribuzione dell’intero carico familiare alla sola donna: creando l’oggettiva possibilità di un’equa spartizione di tale compito tra i coniugi o tra tutti i membri della famiglia, aprendo spazi per un rapporto assai più ricco tra genitori e figli, e soprattutto tra padri e figli; secondo quei valori, finora esclusivamente attribuiti alla donna, che tanti giovani oggi stanno riscoprendo.
Spendere solo una parte modesta del proprio tempo in attività produttive, inevitabilmente condurrebbe alla caduta o a una forte diminuzione di quella pressione culturale che oggi tende a conformare tutti i comportamenti umani (in particolare quelli maschili) alla cifra di "competitività" propria dei rapporti economici.
Scontati gli effetti benefici sulla crisi ecologica ed energetica, uno dei punti controversi è il paventato crollo occupazionale.
Ma ciò non è vero se si accetta l’idea, di cui s’è detto, di una forte riduzione dell’orario di lavoro calcolata in base alla divisione tra tutti i cittadini adulti del tempo occorrente a produrre ciò di cui la società ha bisogno.
Sarebbe inoltre possibile lo sviluppo di «un’ampia zona di attività non mercificabili», appartenenti alla sfera dei servizi civili e sociali, dell’organizzazione partecipativa, dell’integrazione conoscitiva, e così via.
Per quanto riguarda, infine, il quadro internazionale, i rapporti Nord-Sud del mondo e il pericolo di conflitti armati, non c’è dubbio che l’umanità avrebbe tutto da guadagnarci.
Lo "sviluppo senza fine", modello dell’economia capitalistica, mentre spinge fino allo spreco i consumi nei paesi a industrializzazione avanzata, non garantisce in alcun modo una produzione capace di alleviare la penuria dei paesi ancora al di sotto della possibilità di soddisfare i propri bisogni primari.
Questo modello opera alacremente per introdurre anche in queste società affamate il modello consumistico, l’ideologia del superfluo e il suo mistificante edonismo.
Viceversa, un’economia impostata sull’abbassamento della produzione comporterebbe innanzitutto un’inversione di tendenza, bloccando una "produzione produttrice di bisogni" (necessaria alla crescita), di fatto capovolgendo l’attuale rapporto tra bisogni e consumi e dunque tra domanda e offerta: non abolendo il mercato ma sovvertendone le regole attuali.
In questa prospettiva non sarebbe più così irrealistica l’ipotesi del produrre "altro e altrimenti", in modo da indurre nel Sud del mondo la produzione autonoma dei manufatti di cui realmente quei paesi necessitano ed eliminare lo sfruttamento cui ora sono soggetti.
Vale tuttavia ricordare che l’accumulo di giganteschi quantitativi di armi ad altissimo potenziale distruttivo, non solo appartiene con perfetta coerenza al modello della crescita senza fine, ma secondo teorie tutt’altro che nuove e mai smentite, ne rappresenta la necessaria conseguenza: la guerra oggi, cioè la distruzione dell’umanità, è il naturale complemento dell’attuale forma produttiva.
Un punto fondamentale riguarda dunque la democrazia.
Si può chiedere oggi ai lavoratori di accettare minori salari, meno automobili, di consumare meno benzina, per salvare i boschi o lo strato di ozono?
Perché la distruzione delle foreste e dello strato di ozono, imposta dalla crescita del capitale internazionale, è destinata a provocare le ricadute più gravi proprio sulle classi povere e sui paesi poveri?
Troveremo una sintesi capace di affrontare tali sfide?
1) Il primo «valore» da rifiutare dovrebbe essere il dominio incontrastato della ragione economica;
2) il secondo «valore» da rifiutare, d’altronde in piena coerenza col primo, è la «quantità» come misura di tutto il «positivo», su cui fonda la propria certezza la crescita produttiva illimitata, assunta come prioritario obiettivo economico;
3) il terzo «valore» che non possiamo permetterci di accettare è «il denaro come religione»;
4) il quarto «valore», da condannare senza riserve, é quello espresso nel popolare aforisma che afferma: «il tempo è denaro», perché il tempo è una categoria al cui interno si colloca il vivere umano in tutte le sue espressioni;
5) il quinto «valore» non più accettabile è l’illusione della inesauribilità della natura, e la presunzione del diritto umano al suo illimitato sfruttamento, «valore» su cui si è impiantata e continua a reggersi l’evoluzione economica degli ultimi due secoli;
6) il sesto «valore» da abiurare è quella tenacissima fede nel progresso che pervade l’intera nostra cultura, abbracciato nel modo più acritico ed in gran parte identificato con l’evoluzione scientifica e tecnologica.
Finché la crescita del prodotto sarà l’obiettivo primo del nostro agire economico, anzi dell’intera nostra esistenza, è inutile sperare nell'uguaglianza, o anche solo in "meno disuguaglianza": più sfruttamento, più povertà, più esclusione, sono i soli strumenti che ancora (non sappiamo per quanto) possono garantire aumento del PIL.
Si renderanno necessari invece: uno scrutinio della qualità delle merci e delle materie prime alla luce dei vincoli ambientali; una nuova cultura nei bisogni e nei consumi individuali; un'educazione critica verso le merci oscene come le armi; un intervento pubblico verso la standardizzazione delle merci perché durino di più e siano più facilmente riciclabili alla fine della loro vita utile; lo sviluppo di tecniche e processi che, invece di moltiplicare merci e bisogni futili, aiutino i paesi poveri ad attenuare la loro cronica mancanza di cibo, salute, acqua potabile, abitazioni decenti, energia, istruzione, libertà...
Tutto questo non risolve il problema di fondo: non frena la crescita, non allarga i limiti delle risorse naturali, ma almeno richiede innovazione, crea occupazione, alleggerisce la pressione migratoria e può anche mettere in discussione i dogmi della competitività, dello sfruttamento, del capitalismo, cioè delle condizioni intrinsecamente incompatibili con le leggi della natura.
È inutile sognare un ambiente risanato, o anche solo un po’ meno inquinato e dissestato, finché l’attività produttiva non può cessare di crescere, e insieme alla produzione anche la quantità di rifiuti ch’essa rovescia sul mondo, mentre diminuiscono le risorse non rinnovabili.
È inutile illudersi che ogni scoperta scientifica e tecnologica venga debitamente testata e controllata nella sua possibile nocività prima di trovare applicazione industriale e diffusione commerciale, perché questo andrebbe a lederne la capacità competitiva e l’immediato aumento della profittabilità.
È inutile attendere una reale parità tra uomini e donne perché l’organizzazione industriale planetaria non può rinunciare all’attività di «produzione e manutenzione della forza lavoro» dovunque erogata a costo zero dalle donne e integrata nei meccanismi di accumulazione.
Ed è, infine, inutile auspicare pace: nell’attuale situazione di crisi dell’accumulazione come categoria portante del sistema, le guerre, grandi e piccole, sono necessarie per far quadrare i conti del mondo.
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