tratto da "La natura del duce, una storia ambientale del fascismo" (cap.2); di M. Amiero, R. Biasillo e W. Graf von Hardenberg.
Ecologie politiche fasciste: pratiche narrative attraverso cui il regime ha costruito ecologie, tanto immaginarie quanto materiali, funzionali al suo progetto politico.
Le principali differenze tra le bonifiche fasciste e quelle dei decenni precedenti furono due:
1) durante il fascismo le bonifiche divennero dei veri e propri lavori pubblici permanenti.
Mentre storicamente le bonifiche erano state finanziate soprattutto da imprenditori privati, il regime di Mussolini impose, sull'onda di un ruolo sempre più importante delle funzioni di indirizzo del governo (prodotto dalle necessità belliche della Prima Guerra Mondiale), la propria versione di un'economia di Stato.
2) I tecnocrati del regime ampliarono il concetto di bonifica dando forma all'idea di "bonifica integrale", nel tentativo di riorganizzare radicalmente il territorio nazionale.
Era questa una visione "onnicomprensiva" di cosa fosse necessario bonificare, che includeva qualunque attività potesse contribuire a rendere il territorio più produttivo.
Non si trattava più solo di bonificare le ampie aree paludose del paese, ma anche di sistemare i torrenti montani, promuovere diversi tipi di lavori irrigui, razionalizzare le coltivazioni e definire i criteri di organizzazione della proprietà terriera.
Le bonifiche divennero uno dei fulcri del messaggio di propaganda del regime, imperniato sulla sua capacità di "trasformare il paese in tutti i suoi aspetti", dalle pratiche sociali, ai caratteri umani, all'aspetto del paesaggio.
La bonifica era lo strumento attraverso il quale il fascismo intendeva cambiare il volto della "Patria".
Al di là della propaganda, piuttosto che elemento di un'efficace riforma agraria, la bonifica integrale si rivelò essere sostanzialmente un grande progetto di creazione di posti di lavoro, inteso a trovare terre coltivabili per i lavoratori agrari impoveriti, senza dover colpire gli interessi dei proprietari agrari che avevano sostenuto l'avvento del regime.
L'unico progetto di bonifica che fu portato avanti, permettendo al regime di continuare a vantarsi dell'impatto delle proprie politiche, fu quello dell'Agro Pontino; il regime non poteva evidentemente permettersi di finanziare un progetto più ampio e articolato, di fronte alle necessità della guerra coloniale e allo scontro aperto con gli interessi della borghesia agraria.
Degli 8 milioni di ettari che il regime si era ripromesso di bonificare, nell'arco di un decennio i lavori vennero conclusi solo su mezzo milione (circa).
Sebbene il regime dichiarasse la vittoria della "guerra sull'acqua" con la bonifica di 4 milioni di ettari (cioè la metà di quanto preventivato), 2 milioni erano ancora in corso d'opera e un milione e mezzo in realtà era stato bonificato dai precedenti governi liberali prima del '22.
Ma l'accelerazione dei processi di industrializzazione, negli anni a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, stimolo' proprio quel declino e quello spopolamento del mondo rurale che il regime fascista aveva affermato di voler frenare e invertire.
Nel 1921 l'agricoltura rappresentava il 34% del Prodotto Interno Lordo, questa quota nel 1938 era scesa al 27%.
Aumentata d'importanza l'industria, l'idea di una sana e solida ruralità esisteva solo in ambito di propaganda.
La bonifica integrale fu infatti la "foglia di fico" delle generalizzate mancanze nelle politiche ruraliste del regime fascista.
La propaganda fu fuori di dubbio molto efficace nel vendere le proprie politiche di bonifica come storie di successo; scienziati e giornalisti internazionali basavano le loro analisi acriticamente su fonti e dati prodotti dal regime.
Nel 1939 i corrispondenti esteri scrivevano: "La bonifica integrale è la bonifica della terra, e con la terra degli uomini, e con gli uomini della razza".
Scrivevano i corrispondenti del Times di Londra: "La bonifica integrale è più di una politica, ne è stato fatto un concetto che esprime un ampio spettro di sentimenti patriottici; il desiderio di una maggiore e migliore produzione; il benessere del contadino; una certa denuncia della vita urbana; il riconoscimento di un'eterna lotta contro la Natura, che in Italia non è mai stata sotto la superficie".
L'idea che le politiche del regime avrebbero reso l'Italia irriconoscibile, fisicamente e spiritualmente, faceva parte del bagaglio culturale del fascismo stesso.
L'idealizzazione dell'impatto trasformativo del regime sul paesaggio del paese divenne parte importante del patrimonio iconografico del fascismo.
L'estetica di una "Natura soggiogata" divenne ben presto parte essenziale del più ampio uso politico dell'estetica portato avanti dal regime: una componente irrinunciabile del processo di nazionalizzazione delle masse.
Mussolini, con le note immagini al lavoro nei campi, divenne l'epitome della battaglia fascista per la trasformazione del paesaggio e la creazione di una "nuova bellezza".
La retorica bellica della bonifica venne trasmessa in ogni settore della società civile, con ripetuti richiami alla frase mussoliniana: "È l'aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende"; frase scritta sui muri delle case e usata ripetutamente per ispirare i sussidiari usati nelle scuole.
Il conservatorismo simbolico delle politiche agrarie del fascismo è comprensibile unicamente nel quadro di una "modernizzazione forzata e accelerata".
Uno degli aspetti della bonifica integrale avviata dal regime fascista fu, in sostanziale opposizione alle pratiche di disboscamento comuni nell'età liberale, una campagna di "afforestamento montano", intesa a creare le condizioni ecologiche per lo sviluppo dell'energia idroelettrica attraverso la preservazione dei bacini irrigui, la riduzione dei problemi causati dall'erosione e la regolazione dei flussi d'acqua.
Le politiche di riforestazione vennero sostenute personalmente dal duce, allo scopo di aumentare l'inclinazione bellica della popolazione.
Fu, quella della bonifica, una guerra che trasformò in maniera propagandistica, il selvaggio nel consuetudinario, e il naturale nel quotidiano.
L'idea della guerra si tradusse in una pratica di conquista sostanzialmente coloniale, in cui non solo il paesaggio venne radicalmente trasformato, se non rivoluzionato, ma anche la popolazione locale venne scacciata e sottomessa: mentre gli ambienti venivano modificati e riordinati, i migranti interni presero il posto dei tradizionali abitanti della regione, in una guerra tra poveri che avvantaggiò soprattutto i grandi possidenti terrieri che sostenevano il regime.
Masse di contadini provenienti dal Veneto, dal Friuli e del Ferrarese raggiunsero le nuove terre create dalla bonifica dell'Agro Pontino con camion o carri trainati da buoi, tutto organizzato militarmente.
Sebbene ufficialmente "volontaria", la selezione dei coloni era informata dalla necessità di ridurre il numero di braccianti disoccupati nelle zone agrarie del Nord Italia, spesso inclini ad adottare posizioni di contestazione al regime.
La politica di localizzazione infatti fu solo un elemento di una più ampia politica demografica, intesa a interrompere i flussi migratori dalle campagne alle città.
I migranti furono selezionati dal "Commissariato per la migrazione e la colonizzazione interna", istituito con l'obiettivo di gestire i flussi migratori interni.
La bonifica, come la battaglia del grano, fu però ben lontana dall'essere quella "immaginata ricostruzione dei paesaggi agrari".
In conseguenza della progressiva meccanizzazione, chimicizzazione e cementificazione delle pratiche agricole, infatti, si svilupparono e rafforzarono interi settori industriali.
Il fatto che le attività di bonifica e la distribuzione delle terre fossero affidate all'"Opera nazionale combattenti", organizzazione di regime dedicata all'assistenza ai veterani della Grande guerra, rappresenta un'ulteriore connessione tra trasformazione del paesaggio e retorica bellica, nel senso di una "continuità materiale e simbolica" che divenne uno dei caratteri principali del regime fascista.
La bonifica e le varie "guerre naturali" del regime furono espressione di una politica complessa, moderna per certi aspetti e passatista per altri, tesa come era tra l'impegno tecnologico e scientifico verso la trasformazione del territorio e la nostalgia ruralista.
Adottando e adattando una terminologia sviluppata dal sociologo ambientale americano Jess Gilbert, si potrebbe parlare in questo contesto di una forma di "basso modernismo", in cui vita quotidiana, sovrastrutture ideologiche e obiettivi di pianificazione si intersecano nella trasformazione del paesaggio.
Fu proprio la combinazione di modernismo a basso impatto tecnologico, retorica bellica e violenza, a caratterizzare l'approccio mussoliniano al ruolo della natura nell'ambito della politica agraria.
L'immagine bellica, incentrata su uno scontro tra natura e cultura, fu centrale nella propaganda fascista, trovando spazio non solo nella retorica del duce, ma anche nei filmati e persino nei cartoni animati prodotti dall'Istituto nazionale Luce, così come nei resoconti a stampa offerti dall'organo ufficiale del regime, "Il Popolo d'Italia".
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