tratto da "Genere, generazioni e cambiamento climatico"; di B. Bianchi
Gli attuali indirizzi economici orientati alla crescita illimitata e all’adozione di tecnologie distruttive a scopi militari e civili, hanno condotto il pianeta sull’orlo del collasso: sfruttamento e avvelenamento di suolo e acque, deforestazione, rottura di cicli planetari durati millenni, estinzioni di massa, desertificazione e cambiamenti climatici.
La prospettiva indigena
Nella visione delle comunità indigene le relazioni fondate sulla giustizia ambientale e le responsabilità su cui basare i codici di condotta personali e collettivi, non si limitano alle relazioni umane e al tempo presente ma abbracciano tutte le relazioni con “gli esseri della Creazione”, con gli antenati e le generazioni a venire.
Le donne, custodi delle risorse naturali, interpretano l’aggressione alle loro terre e ai loro diritti come il perpetuarsi della colonizzazione che per secoli ha eroso le condizioni ecologiche che sostenevano la vita, l’economia e l’autodeterminazione politica delle popolazioni indigene.
Così la decolonizzazione è descritta come una "restituzione", un processo di rimpatrio, di ricostruzione dei legami con la terra; un processo concreto di rinascita (resurgence) e non una metafora.
La relazione "umana-non umana-ecologica" è intesa e vissuta come una relazione etica e corporea tra persone; la sua rottura è percepita come una “lacerazione della carne”.
La relazione “corpo-terra” delle donne è al centro della riflessione dei femminismi indigeni e comunitari, dove i corpi sono la fonte della resistenza e della trasformazione emancipatrice.
La conservazione della cultura e della spiritualità fondata sulla relazione tra umani, piante e animali, esseri spirituali ed ecosistemi è la fonte profonda della resistenza.
La difesa della propria cultura include la difesa di una diversa concezione del tempo che si misura in millenni.
Eredi della sapienza degli antenati e delle antenate, le donne indigene affermano la loro volontà e diritto di poter essere buone antenate per le generazioni a venire.
Ma la gravità e la rapidità del mutamento climatico hanno indotto in alcune popolazioni una vulnerabilità difficile da contrastare.
Nonostante le conoscenze e le pratiche di sostenibilità accumulate nei secoli, oggi molte comunità sono travolte dagli esiti delle perturbazioni climatiche.
La prospettiva ecofemminista
Le teorie indigene fondate sull’inseparabilità della corporeità umana dalla natura non umana e dagli ecosistemi – vitali, mutevoli, attivi e in costante relazione reciproca – hanno ispirato le teorie ecofemministe e più recentemente hanno incontrato le teorie materialiste.
A partire dalla condizione delle donne del Sud del mondo, numerose opere ecofemministe hanno denunciato il carattere ecocida e genocida dell’agricoltura industriale.
Il quadro concettuale generale che autorizza tutte le forme di oppressione si definisce “patriarcato”.
I quadri concettuali patriarcali, che sono anche i presupposti teorici della scienza moderna e della filosofia, sono caratterizzati dai dualismi oppositivi: maschio/femmina, bianco/nero, mente/corpo, cultura/natura, ragione/emozione, azione/passività, pubblico/privato, eterosessuale/omosessuale; laddove il primo termine è elevato e il secondo svalorizzato.
Il dualismo è un'opposizione insanabile che ci chiede di fare una scelta radicale di separazione: “ci chiede di scegliere tra un corpo senza spirito e uno spirito senza corpo”.
L’eredità più preziosa dell’ecofemminismo risiede nella riflessione sulla logica stessa dell’oppressione.
Ponendo l’enfasi sull’interconnessione di tutte le forme di vita, l’ecofemminismo ha offerto una teoria etica basata sui valori dell’inclusione, delle relazioni e sulla valorizzazione della conservazione della vita, partendo dalla consapevolezza della vulnerabilità di ciascuno.
È importante ritrovare una concezione della natura non impoverita e mortificata come quella patriarcale: riappropriarsi “di qualcosa che è stato distrutto e svalorizzato", per modificarlo e ricreare legami con un mondo vivo e vitale di cui ci si sente parte.
Negli ultimi anni, sotto la spinta dei nuovi movimenti e di nuove reti organizzative a livello internazionale guidate dalle donne, si è verificata un’attenzione nuova per il pensiero e l’attivismo ecofemminista.
L’ecofemminismo vive negli orientamenti del femminismo materialista, una prospettiva che include nella sua analisi l’esperienza vissuta e le pratiche corporee, che intende la natura non già come una costruzione sociale o una risorsa, ma come una forza attiva e autonoma.
L’accumulazione su scala mondiale richiede l’appropriazione delle risorse e del lavoro delle donne e dei popoli del Sud del mondo, ovvero “una ri-colonizzazione del mondo attraverso la guerra”.
A partire dagli anni Novanta Maria Mies, Veronika Bennholdt-Thomsen e Claudia von Werlhof hanno elaborato la prospettiva della "sussistenza", un orientamento che può colmare la distanza tra i cicli di vita umani e naturali, che considera gli esseri umani come parte del processo riproduttivo della natura e riconosce la diversità della vita sul pianeta: una prospettiva che può guidare verso una dimensione economica che "ci consenta di vivere della nostra terra, delle nostre risorse e del nostro clima".
Sussistenza non è sinonimo di povertà, come hanno precisato le autrici, sussistenza è ciò che esiste di per sé, ciò che sussiste, permane e si riferisce al ritmo della vita.
Il concetto di sussistenza è nato dall’indignazione per l’ideologia dello sviluppo ed è stato contrapposto a quello di globalizzazione, da quando la Banca mondiale nel 1975 dichiarò che l’obiettivo da perseguire era quello di "trasformare l’agricoltura di sussistenza aprendola al mercato".
Quanto questo progetto di “razzismo coloniale” fosse distruttivo per le comunità indigene e le loro culture, Bennholdt-Thomsen, Mies e von Werlhof, lo avevano sperimentato rispettivamente in Messico, India e Venezuela.
Giustizia climatica e giustizia interspecie
Una transizione verso una società di pace tra uomini, donne e generazioni non potrà che includere, senza eccezioni, tutti gli esseri viventi.
Nei recenti dibattiti sulla nozione di intersezionalità, ovvero il modo in cui le relazioni di dominio – di genere, di classe, di razza, nazionalità e sessualità – interagiscono e si rafforzano reciprocamente, il rapporto tra umani e “altri della Terra” è ancora ai margini.
La necessità di superare questo orientamento è stata recentemente affermata da Stacy Alaimo, che ha avanzato il concetto di "transcorporeità", ovvero il riconoscimento della sostanziale interconnessione tra la corporeità umana e quella del mondo non umano.
Sentirsi parte dell’interscambio materiale del mondo, dei processi e dei flussi vitali può dare avvio a una nuova etica, un’etica femminista fondata sul corpo, sulla sua esposizione e vulnerabilità.
Una "vulnerabilità ribelle" che afferma con forza il valore della biodiversità, delle differenze culturali e sessuali e che può contrastare la mascolinità egemonica del consumo aggressivo, della visione scientifica trascendente e dell’estetica militarista.
Accanto alla drammaticità dell’estinzione delle specie, all’olocausto animale causato dal cambiamento climatico e dalla distruzione delle foreste, l’ecofemminismo vegetariano ha messo in rilievo la crudeltà degli allevamenti intensivi, responsabili di una percentuale elevata di emissioni, della deforestazione e della scarsità di acqua.
L’alimentazione carnea è ancora ampiamente associata alla prosperità, alla buona salute, allo status sociale, alla mascolinità, a uno stile di vita elevato dei Paesi industrializzati occidentali.
Anche la giustizia alimentare è stata troppo a lungo intesa come giustizia tra esseri umani, volta a colmare la diversità di accesso alle risorse, compresi gli animali.
Includere gli animali nelle teorie intersezionali e sottrarli al processo di "oggettivazione-smembramento-consumo", significa ricollocare gli umani nei cicli della vita planetaria, in una visione di giustizia ambientale, climatica e di specie.
Da queste premesse di etica ambientale è nata la proposta di dare vita e di moltiplicare i movimenti per la giustizia e la sicurezza alimentare che includano agricoltori e consumatori, gruppi basati sull’autodeterminazione delle donne e delle comunità; interrompendo le pratiche dell’agricoltura industriale e degli allevamenti e favorendo le monete locali.
Comunità microeconomiche che sottraggano risorse alle istituzioni globali di dominio ecologico, ricorrendo al boicottaggio e alle pressioni per il disinvestimento, o per essere rappresentati/e nelle istituzioni internazionali.
Comunità che possono creare spazi politici inediti in cui esprimere relazioni sociali alternative, altri modi di pensare e di sentire e, soprattutto, un rapporto con la natura in grado di sviluppare una "cultura rurale femminile".
Negli scritti ecofemministi la giustizia di specie è strettamente connessa a quella riproduttiva.
Giustizia climatica e giustizia riproduttiva
Fin dagli anni Settanta il discorso ambientalista ha enfatizzato l’aumento di popolazione come causa principale del degrado ambientale.
Le donne del Sud del mondo sono state considerate le principali responsabili del problema ecologico e climatico, venendo colpite da programmi aggressivi e coercitivi di “pianificazione familiare" (ovvero contraccettivi e sterilizzazioni).
Indurre le donne a limitare la propria fertilità, attraverso politiche ambientali che fanno ben poco per modificare modelli produttivi e livelli di consumo, non è una via che le femministe possono accettare.
Se da una parte i condizionamenti religiosi e culturali, il controllo maschile della fertilità femminile e la politica degli stati ostacolano grandemente la libertà riproduttiva e il diritto delle donne di non avere figli o di limitarne il numero, dall’altra il degrado ambientale e il cambiamento climatico limitano il loro diritto di generare e crescere bambini sani.
La giustizia riproduttiva è inscindibile da quella ambientale; come ha scritto recentemente Noel Sturgeon: “Abbiamo bisogno di un approccio che possiamo chiamare riproduzione planetaria”.
Se consideriamo il termine "riproduzione" nel suo significato più ampio, cosa accadrebbe se separassimo la fertilità umana e la fertilità della Terra, dalle relazioni reciproche tra le capacità riproduttive umane e quelle degli animali, delle piante, della natura?
Quali sono le conseguenze riproduttive degli ambienti inquinati per le madri, dal momento che il corpo materno è il primo ambiente?
Il concetto di ri-produzione costruito nel suo senso più ampio, fino ad includere la riproduzione biologica e quella sociale, ha l'obiettivo di rinnovare l’ambiente naturale per rigenerare la vita sul pianeta.
Questa nuova etica della partnership si basa sulla consapevolezza delle capacità umane di distruggere la vita, e sull’impegno a ridurre le attività dannose (nucleare, produzioni tossiche, pesticidi, ecc...), abbandonando il paradigma della crescita illimitata e dello sviluppo incontrollato.
È un’etica in cui l’umanità agisce per soddisfare i propri bisogni e quelli della natura e che auspica una “partnership globale" per conservare, proteggere e rinnovare la salute degli ecosistemi planetari.
La lezione per il Ventunesimo secolo è dunque quella di vivere e prosperare con la natura (autonoma, prevedibile e imprevedibile, controllabile e incontrollabile) in forme che includono nuove scienze, nuove filosofie, nuove politiche, nuove economie e nuove partnership.
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