É ancora accettabile essere governati nelle attuali condizioni di violenza, guerra e sfruttamento totale?
tratto da "L'origine senza origini della civiltà", di Alessandro Baccarin.
Se la modernità capitalistica affronta una crisi strutturale dalla potenziale portata catastrofica (in termini ecologici e bellici), il pensiero antagonista produce invece analisi all'altezza dei tempi, mettendo a nudo con la critica le radici mitiche di questo nostro presente.
Il politologo statunitense James Scott conduce ricerche da circa un decennio sulle cosiddette “origini” dello Stato.
Scott riesce a stabilire l'anteriorità della stanzialità, dell'agricoltura e dell'allevamento rispetto all'apparire di ciò che definiamo uno Stato agrario o una città-stato.
Il dato appare evidente nel contesto geostorico del Vicino Oriente antico, area scelta dallo studioso come paradigma per le sue ricerche più recenti: tra la domesticazione di ovini e bovini, la coltivazione dei cereali (8000 a.C. circa) e l'apparizione del primo grande esempio di Stato agrario, ovvero la realtà statuale afferente agli strati più antichi di Uruk (4000 a.C.), intercorrono ben 4 millenni.
Secoli nei quali i nostri antenati non sembra abbiano sentito la necessità di darsi un'istituzione di governo centralizzato.
Viene in questo modo contestato uno dei grandi miti fondativi dell'Occidente, ovvero che sia stata la cosiddetta rivoluzione neolitica, e quindi l'adozione della forma di vita agro-pastorale nella Mezzaluna fertile ad aver innescato il processo di formazione dello Stato.
Non è affatto vero, ci dice Scott, che i primi centri urbani mesopotamici siano sorti in virtù dell'implementazione dei sistemi agricoli.
In realtà tutti questi centri, come Ur o Eridu sull'Eufrate, oppure Uruk ancora più nell'entroterra mesopotamico, vivevano di un'economia mista di raccolta e coltivazione.
L'anteriorità dell'adozione del sistema agricolo rispetto alla forma cittadina e statuale è quindi il presupposto teorico a partire dal quale la “controstoria” della civiltà prende forma.
Lo Stato, secondo questa nuova prospettiva, non si forma per far fronte alla crescita demografica conseguente all'inurbamento e al passaggio dalla caccia e raccolta all'agricoltura: al contrario, la realtà statuale si deve ad un processo formativo autoritario, dove la cattura di terre coltivabili da parte delle élites diventa importante tanto quanto la cattura predatoria di mano d'opera che la lavori.
Aristotele nella Politica (I,2 1252a-1253a) affermava che uno schiavo è tale “per natura”.
Se gli schiavi sono paragonati dal filosofo di Stagira a degli animali domestici, animali da soma e da lavoro come il bue o l'asino, questo avviene perché lo Stato è in realtà un'impresa di domesticazione e riproduzione umana e animale al contempo.
Lo Stato è “natalista”, ha bisogno di vite così come l'allevatore ha bisogno di animali da riproduzione.
Per questo la guerra è connaturata allo Stato, in quanto processo requisitivo per eccellenza, non tanto di territorio, quanto di forza lavoro.
Scott pensa che i cereali facciano lo Stato e che viceversa sia lo Stato a fare le piantagioni di cereali.
I cereali sono la risorsa più facilmente soggetta all'immagazzinamento e quindi alla tassazione e al controllo statale.
Nessun'altra risorsa alimentare consente in modo altrettanto efficace la formazione di scorte e la riscossione di tasse.
Chiaramente l'insieme di pratiche che fanno lo Stato, ovvero requisizione, guerra, coltivazione, domesticazione, schiavitù avevano un loro prezzo: dipendenza alimentare dai cereali e concentrazione in aree ristrette di masse promiscue di animali e umani.
Il “prezzo” di tutto questo lo decise la “natura” nella forma di carestie e pestilenze (ovvero zoonosi).
In questa storia della civilizzazione “al contrario” troviamo invertiti i termini morali ai quali solitamente viene ancorato questo processo.
In questo modo ciò che solitamente viene definita la “caduta”, oppure il “periodo intermedio” o ancora la “decadenza” di una determinata civiltà non costituisce più l'oscuro intermezzo fra momenti di progresso, ma ben al contrario l'affiorare di una libertà ritrovata, la scomposizione di una civiltà nelle sue parti costitutive, ovvero la dispersione della popolazione in comunità autonome.
La fuoriuscita momentanea o anche a lungo termine da un ordine sociale violento e oppressivo.
Il fatto che in questi periodi le testimonianze si diradino indica che abbiamo a che fare con civiltà estranee alla monumentalizzazione o all'archiviazione tipiche degli Stati e degli imperi, e inclini invece a forme di convivenza comunitaria egualitarie e pacifiche.
Altri termini dell'inversione vengono forniti dall'immagine, materica e metaforica, del barbaro e delle mura cittadine: le mura delle città-stato o quelle dei grandi imperi non difendono, piuttosto trattengono, non proteggono, piuttosto minacciano chi sta dentro e ne dovrebbe essere protetto.
I barbari, che nelle storie ufficiali appaiono come i campioni del disordine, della rapina e del saccheggio, si rivelano per la loro natura ribelle: sono gli insorti di sempre, coloro che intenzionalmente o per tradizione si sottraggono alle maglie dello Stato.
Ogni stato ha i suoi barbari.
Perché ogni stato crea una forza parallela e opposta, quella che tende a sottrarsi al controllo.
I barbari hanno sempre rappresentato un'alternativa allo Stato, la possibilità reale di una fuga.
E' questo il dato rivoluzionario di queste ricerche: ciò che per noi è impensabile, ovvero sottrarsi alle maglie del controllo, ricostituire altre forme di convivenza con nuove formule politiche è stata la prassi costante del processo di civilizzazione.
L'alternativa possibile alla guerra, alla schiavitù e alla miseria.
David Wengrow e David Graeber partono da una domanda fondamentale: perché oggi ci ritroviamo bloccati in un'unica forma di convivenza, quella statuale moderna, senza avere più la possibilità di pensare ad un'alternativa?
A partire da quale momento abbiamo finito di giocare in politica, cessando di sperimentare forme di fuga dalla coercizione e dalla violenza e di inventare comunità fondate su presupposti non statuali?
Raccogliendo una mole impressionante di dati paleo-archeologici, antropologici e storici, e spaziando cronologicamente dal mesolitico (ad esempio il famoso centro anatolico di Göbleki Tepe, X millennio a.C.) alle civiltà precolombiane (Teotihuacan I-V sec.) e geograficamente dalla Mezzaluna fertile (Ur, Uruk, cultura Ubaid) alle pianure del Mississipi (la cultura di Poverty Point in Louisiana), i due antropologi sfatano una serie di miti che nutrono le accademie e le storie ufficiali: non è vero che le società di cacciatori e quelle neolitiche erano caratterizzate da teocrazie matrilineari pacifiche, poi soppiantate dalla complessità delle società guerriere e cittadine indoeuropee e semitiche.
Ed è altrettanto falsa la teoria opposta, ovvero l'ipotesi che la sequenza della civiltà in ogni latitudine abbia seguito il corso progressivo che dalla banda di cacciatori conduce prima alla tribù, poi ai chiefdoms e infine agli Stati (paradigma che procede dal semplice al complesso).
In entrambi i casi ci troviamo di fronte a miti, a idealizzazioni rispettivamente benevole e peggiorative.
Di fronte a questo nuovo assetto metodologico le teorie di autori noti al grande pubblico come Jared Diamond o Yuval Harari appaiono semplicistiche, se non del tutto inadeguate: non è il grano ad aver soggiogato l'uomo, e tanto meno sono le società di grandi dimensioni e l'introduzione dell'agricoltura ad aver creato l'esigenza di un governo autoritario e burocratico.
In entrambi i casi è all'opera una mitologia falsificante che pretende di trovare un'origine allo Stato.
Una documentazione strabordante attesta invariabilmente come nella storia delle civiltà la vita cittadina, l'adozione dell'agricoltura (compresa la cerealicoltura) e la crescita demografica non abbiano costituito il presupposto necessario per la creazione di uno Stato o di una società stratificata e ineguale.
In numerose aree del pianeta l'agricoltura e la città non comportarono l'avvento di una società gerarchica, caratterizzarono invece una convivenza ignara della proprietà privata e animata da forme di partecipazione democratica alle decisioni collettive.
La teoria che i cacciatori paleolitici e mesolitici vivessero in piccole bande è solo un mito, che come tutti i miti serve a fondare il presente, il nostro presente popolato da Stati gerarchici.
Recuperando e adattando le teorie ecologiche di Murray Bookchin, i due autori ritengono che l'uso ecologico dell'ambiente abbia a che fare con le relazioni sociali e che le società umane abbiano storicamente adottato un'ecologia flessibile, sia nel campo alimentare che in quello politico.
La mole impressionante di documenti che correda questa ricerca conferma come le comunità umane abbiano avuto la tendenza costante a muoversi dentro e fuori l'agricoltura, la città, la guerra e la sovranità.
Scopriamo allora che a caratterizzare la civilizzazione è stata una forma basilare e tripartita di libertà:
1) la libertà di trasferirsi e spostarsi in zone periferiche ed esterne per sottrarsi al potere del sovrano;
2) la libertà di ignorare o disobbedire agli ordini del potere centrale;
3) la libertà di creare e inventare nuove realtà sociali, di entrare e uscire da determinate forme statuali, di inventare aggregazioni statuali stagionali e quindi di seguire sovrani che in primavera si scioglievano come neve al sole.
I due studiosi narrano una storia fondata su nuove domande e sulla consapevolezza che la ricerca dell'origine è sempre un atto teleologico.
Lo Stato non ha origine, questa è la conclusione teorica seminale di queste ricerche.
Domande come l'origine dello Stato, oppure la nascita della civilizzazione e della complessità sociale nascondono una mitologia, ovvero la proiezione nel passato delle esperienze del presente.
Sappiamo ora che non è mai esistita una società umana originaria edenica, che il processo di civilizzazione non richiede inderogabilmente l'erosione delle libertà individuali, che la democrazia partecipativa non è una prerogativa esclusiva dei piccoli gruppi umani.
Sappiamo che l'idea di un'origine presupposta alla storia è una mitologia del presente.
L'origine non è ciò che ci precede, ma ciò verso cui si procede.
L'origine non è ciò che ci sta dietro e che determina il nostro presente, ma ciò verso cui si tende.
É ciò che consente al presente di presentarsi come un risultato storico.
La preistoria non è sedimentata nel passato, ma è qualcosa che è sempre presente, che è sempre contemporanea alla storia (l'appropriazione originaria si rinnova ogni giorno), ma allo stesso tempo è ciò che la storia respinge come un'intrusa, come un'ombra che rivela la nostra miseria e la nostra incapacità di cambiare.
Dobbiamo chiederci non più l'origine dello Stato e della civiltà, ma piuttosto perché non riusciamo più ad immaginare un mondo diverso, un modo di concepire la convivenza estraneo alla violenza e alla sopraffazione.
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