I beni comuni rivestono un ruolo centrale nelle battaglie combattute dai movimenti, in Italia e nel mondo.
tratto da "Omnia sunt communia. Ieri, oggi, domani: i beni comuni tra passato e futuro"; di Lorenzo Coccoli.
Pecore e recinti
Questa storia comincia più di cinquecento anni fa, in Inghilterra.
Alla tavola dell'allora cardinale John Morton si discute della rigida legislazione inglese in materia di furto, e in particolare del fatto che, nonostante pene severissime, il numero di ladri e briganti non accenni a diminuire.
Raffaele Itlodeo, letterato, filosofo e navigatore interviene allora a svelare l'arcano: la gente è costretta a rubare perché spinta dalla fame, e non esiste punizione tanto grande che possa fare desistere chi non ha altro modo di procurarsi da mangiare.
Itlodeo non ha dubbi sui responsabili:
"I nobili e i signori, e perfino alcuni abati, non paghi delle rendite e dei prodotti annuali che ai loro antenati e predecessori solevano provenire dai loro poderi, e non soddisfatti di vivere fra ozio e splendori senz' essere di alcun vantaggio al pubblico, quando non siano di danno, cingono ogni terra di stecconate a uso di pascolo, senza nulla lasciare alla coltivazione, e così diroccano case e abbattono borghi, risparmiando le chiese solo perché vi abbiano stalla i maiali; infine, come se non bastasse il terreno da essi rovinato a uso di foreste e parchi, codesti galantuomini mutano in deserto tutti i luoghi abitati e quanto c'è di coltivato sulla terra.
Quando dunque si dà il caso che un solo insaziabile divoratore, peste spietata del proprio paese, aggiungendo campi a campi, chiuda con un solo recinto varie migliaia di iugeri, i coltivatori vengono cacciati via e, irretiti da inganni o sopraffatti dalla violenza, sono anche spogliati del proprio, ovvero sotto l'aculeo di ingiuste vessazioni, son costretti a venderlo."
L'episodio è riportato nella celeberrima Utopia di Thomas More, pubblicata nel 1516.
Fino alle soglie dell'epoca moderna, le comunità rurali potevano vantare tutta una serie di diritti consuetudinari su alcune terre aperte, poste solitamente ai margini dei latifondi dei signori: poteva trattarsi di pascoli su cui allevare il bestiame, campi coltivati a turno, boschi da cui si otteneva la legna per le abitazioni e per il riscaldamento, fiumi e foreste da cui si ricavavano varie forme di nutrimento (selvaggina, frutta selvatica, pesce ed acqua).
Queste terre, insieme alle risorse che ospitavano, venivano considerate proprietà comune (né privata né demaniale) e gestite solitamente da organi di autogoverno.
A partire dalla fine del Quattrocento, con tempi e modalità diverse a seconda delle epoche e dei luoghi, i proprietari fondiari (signori feudali o mercanti arricchiti) cominciarono a chiudere (enclose) e privatizzare le terre comuni, recintandole o scavando fossati, per convertirle in pascoli.
Le comunità che abitavano quelle aree furono costrette, il più delle volte con intimidazioni e violenze, ad abbandonarle e rifugiarsi altrove.
Una massa di donne e uomini, spossessati dei loro tradizionali mezzi di produzione e sostentamento, si trovarono di fronte alla scelta tra il vagabondaggio e l'illegalità da un lato, e l'ingresso nelle nascenti manifatture dall'altro.
Queste, molto in breve, le caratteristiche essenziali di quel processo noto come enclosures of the commons o recinzione dei beni comuni.
Un processo che rappresenta per Marx l'atto di nascita del capitalismo e dei suoi principali protagonisti: il capitalista (proprietario del denaro e dei mezzi di produzione e sussistenza) e il "libero" lavoratore (venditore della propria forza-lavoro); ma c'è di più.
La rimozione della dimensione del comune
C'è da chiedersi tuttavia se questo scenario di recinzioni e accumulazione originaria rappresenti solo un episodio del passato, confinato nella preistoria del moderno capitalismo o se, piuttosto, non si ritrovi in forme pressoché analoghe nel mondo di oggi.
Il punto è che i processi di accumulazione originaria accompagnano costantemente lo sviluppo del sistema di produzione capitalistico, senza limitarsi necessariamente alla sua fase iniziale.
Come scrive Sandro Mezzadra: "Ogni giorno, dunque, deve logicamente ripetersi quanto accadde 'per la prima volta', all'origine della storia del capitalismo."
Certo le recinzioni non sono più l'unica forma di enclosures of the commons, né terre e pascoli sono le uniche risorse comuni colpite da processi di privatizzazione.
Non più solo beni materiali (acqua, terra, foreste) ma anche servizi (con lo smantellamento dello stato sociale e la privatizzazione di molte delle sue funzioni essenziali) e beni cosiddetti immateriali (come l'estensione dei regimi di brevetto e diritto d'autore a conoscenze e saperi tradizionali e non).
Sembra impossibile negare l'esistenza di un "secondo movimento delle recinzioni": una dinamica globale e diffusa di espropriazione di risorse comuni con conseguente trasferimento di prerogative dal dominio collettivo a quello del mercato.
La difesa dei commons dalle dinamiche neoliberiste di recinzione globale è così stata al centro delle battaglie più disparate, che hanno visto la creazione di alleanze inedite e una conseguente relativa ricomposizione del fronte antagonista.
La tragedia dei beni comuni
Il biologo Garrett Hardin nel 1968 firma un articolo destinato a fare storia, un punto di partenza obbligato per ogni dibattito sui commons: per evitare la rovina di un bene, dovuta al sovrasfruttamento, il biologo propone di sottoporlo a un regime di proprietà pubblica o privata.
Già a partire dagli anni Sessanta altri studiosi si proposero di mostrare l'infondatezza di alcuni assunti del ragionamento di Hardin.
Secondo Elinor Ostrom "La vivida narrazione di Hardin contiene un certo numero di assunti che hanno dimostrato essere fallaci:
1) egli in realtà stava analizzando sistemi a libero accesso piuttosto che beni collettivi regolati;
2) assumeva che ci fosse poca o nessuna comunicazione;
3) postulava che le persone agissero solo nel loro immediato interesse egoistico (invece di assumere che alcuni individui potessero prendere in considerazione benefici comuni);
4) offriva solo due soluzioni, la privatizzazione o l'intervento del governo."
Ostrom dimostra invece che, a certe condizioni, una gestione collettiva del bene, lasciata alla capacità di autoregolazione della comunità che ne usufruisce, risulti più efficace di qualsiasi gestione pubblica o privata.
La gestione comune dei commons si configura così come una terza via tra Stato e mercato.
Negli anni 2000 i commons sono usciti dal perimetro per certi versi ristretto dell'analisi economica per entrare in quello più ampio della teoria (e della pratica) politica.
In breve si potrebbe dire che, rispetto all'uso specifico e scientificamente delimitato che ne fa Ostrom, all'interno del discorso politico il concetto perde in intensione quel che guadagna in estensione: privi ormai di caratteristiche rigidamente identificabili, i commons possono arrivare ad abbracciare una vasta gamma di esperienze e situazioni diverse.
Dall'acqua all'università, dal lavoro all'informazione, dal sapere e la conoscenza alla sanità e il lavoro e, da ultimo, la democrazia, i beni comuni rivestono un ruolo centrale nelle battaglie combattute dai movimenti in Italia e nel mondo.
Omnia sunt communia
Nonostante l'elevata volatilità semantica che caratterizza il sintagma beni comuni, esistono alcuni presupposti più o meno espliciti che paiono ricorrere, con maggiore o minore intensità a seconda del livello di radicalità delle varie rivendicazioni, in tutte o quasi le sue diverse occorrenze.
Tre punti in particolare sembrano rilevanti:
1) Sottrazione al mercato capitalistico
Definire un bene o un servizio "bene comune" significa in primo luogo volerlo sottrarre alla sfera del mercato capitalistico (non necessariamente al mercato tout-court) e alla logica del profitto in essa dominante.
Risuona ancora una volta, l'eco delle lotte contro i processi di recinzione ed enclosures.
Inoltre, opporsi al dilagare dei processi di privatizzazione ed accumulazione significa riportare l'attenzione sul tema fondamentale della proprietà e sul crescente divario sociale che la sua iniqua distribuzione a livello locale e globale comporta.
2) Beni comuni e comunità
Riferimento imprescindibile nell'orizzonte dei commons è quello del loro legame con la comunità teoricamente deputata alla loro gestione.
Questo significa porre l'accento sulla dimensione comunitaria e relazionale, contro l'individualismo atomistico della modernità capitalistica.
La costruzione di reti di solidarietà collettiva attorno alla difesa e al governo dei beni comuni ha così l'effetto di ricostruire il tessuto sociale progressivamente disgregato dalla logica pervasiva del mercato concorrenziale.
La comunità, però, non va idealizzata come luogo della ricomposizione di tutte le contraddizioni ma va, al contrario, ripensata come costitutivamente aperta alla relazione con l'altro e costantemente attraversata dalla potenzialità del conflitto.
3) Né pubblico né privato
Il campo del moderno è ripartito tra la quasi assolutezza delle prerogative dominicali del proprietario e di quelle sovrane dello Stato-Nazione, due sfere che, al di là degli occasionali conflitti, sono in fondo accomunate da un segreto isomorfismo.
Tertium non datur, almeno non nel discorso della modernità mainstream.
Ribadiamo qui l'alterità del Comune tanto rispetto al Privato che al Pubblico.
Ciò è vero sia per quel che riguarda la proprietà del bene, sia per quel che riguarda la sua gestione (due aspetti che andrebbero tenuti distinti).
Insistere sulla gestione comune e non pubblica delle risorse significa rivendicare al corpo sociale una certa autonomia dal controllo statale, riconoscendogli una capacità di autogoverno e autoregolazione, da esercitarsi tramite gli strumenti della democrazia diretta e della partecipazione politica.
I commons delineano una nuova fisionomia dell'amministrazione del potere, alternativa a quella dimensione teologico-pastorale che ancora contraddistingue la trascendenza sovrana dello Stato.
Opposizione alle dinamiche del neoliberismo, riforma dei meccanismi di redistribuzione, ricomposizione dei legami di solidarietà sociale, democrazia dal basso: attorno al tema dei beni comuni è possibile articolare tutti i punti di un'agenda politica per il prossimo futuro.
Un progetto ambizioso ma mai così attuale.
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