Il pianeta è plasmato dall'azione umana, ma parlare di responsabilità di specie nasconde il fatto che qualcuno paga, o pagherà, il conto del benessere altrui.
tratto da "Ribelli, naturalmente"; di Marco Armiero.
Introduzione al volume di Giorgio Nebbia "La contestazione ecologica".
Ha ragione Giorgio Nebbia: per capire la storia dell’ambientalismo italiano – e per la verità non solo quello italiano – bisogna guardare al conflitto.
Forse questo potrà apparire strano ai tanti
che credono che la natura sia, o almeno dovrebbe essere, lo spazio dell’unanimismo, il luogo dove tutti concordano e cooperano.
La verità è che nel senso comune la natura viene rappresentata come luogo di pacificazione e non di scontro; le strade delle metropoli o le fabbriche sono gli spazi del conflitto, mentre la natura si colloca altrove rispetto a quelle tensioni e quei luoghi.
Secondo questa interpretazione, la scienza e la tecnologia dovrebbero guidare le scelte del movimento ambientalista; nessun comitato centrale, ma panels di esperti a dettare la linea, puntando su persuasione logica ed evidenze scientifiche piuttosto che sul capovolgimento dei rapporti di forza.
L’assunto alla base di questa interpretazione è che l’ambientalismo sia un movimento non partigiano, o meglio un movimento che prendendo le parti della natura non si contrappone, non difende interessi particolari, non si costruisce come antagonista.
Ovviamente questa idea di ambientalismo rimanda ad una ben definita nozione di “natura” come spazio radicalmente altro dal sociale; una natura fuori portata da proteggere oppure un ecosistema globale da salvaguardare.
Oggi la fortunata nozione di Antropocene, secondo la quale siamo entrati in un’era geologica nella quale gli umani sono in grado di manipolare l’intero pianeta, lascia aperta la questione del conflitto, ovvero resta muta sul tema delle responsabilità storiche e delle ineguaglianze sociali della crisi ecologica contemporanea.
Dal mio punto di vista il conflitto ambientale è qualcosa di più di un focus tematico, di un oggetto di ricerca tra tanti possibili.
Si tratta, piuttosto, di un approccio metodologico che consente di vedere le relazioni tra natura e società in termini di potere, ovvero di analisi di ciò che chiamiamo comunemente ambiente, mischiando l’ecologia con la classe, il genere e la razza.
Questo implica ripensare cosa si intende per natura o ambiente, mettendo in discussione i confini rassicuranti e troppo ben marcati tra ciò che è naturale e ciò che non lo è.
«L’ambiente è dove viviamo, lavoriamo, e giochiamo» – è questo uno degli slogan più efficaci e noti del movimento per la giustizia ambientale, ovvero della più significativa innovazione, insieme teorica e pragmatica, apportata all’ambientalismo.
L’Environmental Justice Movement (EJM)
Sebbene si possa risalire molto indietro nel tempo e retrodatare i primi esempi di movimenti ambientalisti connessi alla giustizia ambientale, è ormai generalmente accettato che l’EJM risalga agli anni ottanta e sia nato dentro la società americana.
In quegli anni tante comunità afro-americane, ma anche latine e nativo-americane, scoprivano di essere diventate la discarica ideale di tutti i possibili scarti della crescita economica.
Seguendo la strategia della “minore resistenza possibile”, agenzie governative e imprese private avevano individuato nelle comunità a prevalenza nera o latina, o nei territori affidati alla giurisdizione dei Nativi-Americani – le cosiddette “riserve” – la destinazione ultima di ogni tipo di produzione o rifiuto industriale indesiderato e pericoloso.
Divenne chiaro a tutti quanto il fattore razziale fosse la più importante variabile nella scelta dei siti di smaltimento e stoccaggio.
I costi e i rischi della crescita economica, come d’altronde i benefici, non sono distribuiti equamente tra la popolazione; poveri, comunità marginali, minoranze etniche pagano il prezzo del benessere altrui, diventando la discarica per ciò che i ricchi non vogliono nel loro backyard.
Tuttavia, queste comunità deboli, marginali, hanno mostrato una capacità di reazione inaspettata, dando vita ad una nuova stagione di lotte sociali in grado di mobilitare insieme ambientalismo, diritti civili e rivendicazioni di classe.
Nella genealogia dell’EJM il legame con il movimento per i diritti civili è estremamente forte; non a caso il razzismo ambientale ne è un concetto chiave.
Secondo leader, attivisti ed esperti la struttura segregata della società americana ha segnato anche la distribuzione ineguale dei rischi ambientali, che sono stati deliberatamente collocati dall’altra parte della faglia razziale rispetto ai bianchi.
Le relazioni tra le associazioni ambientaliste “tradizionali” e i nuovi movimenti per la giustizia ambientale sono state spesso complicate.
Il difficile rapporto con l’ambientalismo ufficiale rimanda ad una questione teorica più ampia, ovvero alla relazione tra status sociale e impegno ecologista.
Per dirla in parole semplici, solo i ricchi possono prendersi il lusso di essere ecologisti, mentre i poveri sarebbero troppo poveri per essere “verdi”.
L’economista ecologico Joan Martinez Alier è stato il più lucido critico di questa impostazione politologica che collega ricchezza e sensibilità ambientalista.
In primo luogo Martinez Alier ha svelato il carattere tutt’altro che dematerializzato delle economie ricche mostrando quanto il metabolismo sociale, ovvero lo scambio di materia ed energia tra la società e la natura, sia in crescita anche in quelle società, seppure nascosto dalla delocalizzazione delle produzioni e degli scarti in aree marginali.
In secondo luogo lo studioso ha confutato il teorema secondo il quale solo i ricchi possono essere interessati alla protezione della natura, mostrando quanto comunità indigene e gruppi subalterni siano impegnati nella difesa del loro ambiente, vissuto non come spazio della ricreazione ma come luogo della produzione e riproduzione biologica e sociale.
Martinez Alier ha definito questi movimenti come “ambientalismo dei poveri”, intendendo con quella espressione un ambientalismo popolare che in mille forme e con linguaggi diversi si oppone alla mercificazione della natura, all’espropriazione delle risorse comuni, ai megaprogetti modernizzatori, alla trasformazione delle loro terre in discariche globali.
La “scoperta” di questo altro ambientalismo ha inciso in profondità anche nella ricerca scientifica; il rapporto tra accademia e movimento per la giustizia ambientale negli Stati Uniti è stato particolarmente intenso, coinvolgendo sociologi, antropologi, geografi, studiosi di diritto, ed anche storici ambientali.
E proprio nell’incontro tra tante discipline diverse, mescolate nel magma della crescente conflittualità ambientale, è sorta e si è sviluppata una nuova disciplina, la Political Ecology, dedicata esattamente allo studio dei conflitti ambientali.
La società italiana non presenta la stratificazione etnica che pervade tutti gli aspetti della storia americana.
In questo senso sarebbe inappropriato cercare di applicare in modo rigido il modello dell’EJM al nostro paese, anche se credo che ci sia stata in Italia una razzializzazione della classe e che taluni comportamenti coloniali delle imprese del Nord Italia, che hanno sversato al Sud, potrebbero essere compresi meglio applicando le categorie dei racial studies.
In queste lotte socio-ambientali la difesa della natura ha coinciso con la difesa della salute o della stessa sopravvivenza dei soggetti interessati, dando vita ad un ambientalismo originale che spesso non si definisce tale.
Di recente Stefania Barca ha contribuito in maniera decisiva alla emersione di quello che ha definito il working class environmentalism, contribuendo tanto alla riflessione teorica su lavoro, ambiente e salute quanto alla ricerca empirica sulle lotte operaie in fabbrica e fuori dalla fabbrica.
Non è forse la stessa contraddizione capitale-natura all’origine di gran parte del dissesto idrogeologico, dove in nome della rendita fondiaria, della cementificazione o magari della riduzione delle spese di manutenzione, si sono sacrificate vite umane e beni comuni?
La frana che nel 1963 cancellava il comune di Longarone uccidendo quasi duemila persone è l’esempio più eloquente di come il conflitto capitale-natura vada al di là della fabbrica, ma sempre presenti il conto tanto all’ambiente che ai ceti subalterni.
Al Vajont, come in tanti altri luoghi simbolo dell’ingiustizia ambientale, una grande corporation ha sacrificato la sicurezza delle persone alla logica del profitto, ha asservito scienziati e pubblici ufficiali, ha umiliato saperi locali, che pure prevedevano chiaramente quanto sarebbe accaduto, ha tenuto nascoste informazioni cruciali per la pubblica sicurezza, ed ha cercato di naturalizzare ciò che era il prodotto di deliberate scelte industriali.
Negli ultimi anni le lotte per la giustizia ambientale in Italia si sono moltiplicate in una miriade di vertenze territoriali.
Ripensare quei tanti movimenti come esperienze di lotta per la giustizia ambientale significa fornire un armamentario teorico di critica e mobilitazione e provare a cercare un minimo comune denominatore che possa superare la frammentazione che caratterizza questa stagione di lotte.
Il movimento No Tav, ad esempio, è forse una delle esperienze di ambientalismo popolare più longeve e radicate; come sappiamo bene, è dai primi anni novanta che le comunità della Val di Susa si oppongono alla costruzione della linea ferroviaria per l’alta velocità sulla base di un ragionamento che tiene insieme proprio questioni ecologiche, sociali e culturali, economiche e di salute pubblica.
In Campania comunità marginali, con un basso reddito, già duramente provate da problemi ambientali e sociali (come industrie inquinanti, criminalità, o assenza di servizi primari) sono diventate le discariche legali e illegali della metropoli tanto nazionale – il polo industriale del Nord – che regionale – Napoli.
Queste comunità hanno dovuto opporsi tanto al piano governativo-imprenditoriale di gestione dei rifiuti, contestando in primis la logica dell’inceneritore e delle megadiscariche, quanto al costante tentativo di silenziamento del lento biocidio effettuato attraverso lo sversamento di rifiuti tossici nella regione.
Nel caso campano si ripropongono i tipici dilemmi dell’EJM, primo fra tutti la difficoltà di provare i rapporti di causa effetto tra esposizione a sostanze tossiche e malattie, con la pletora di esperti mainstream pronti a sostenere le ragioni dei forti, a cui si contrappone la produzione di saperi dal basso grazie all’aiuto di scienziati/e vicini ai movimenti.
Si potrebbero citare anche il No Muos, i movimenti tarantini contro l’inquinamento industriale, o quelli milanesi contro l’aeroporto di Malpensa.
Più in generale, si potrebbero includere i tanti movimenti urbani che hanno rivendicato il diritto alla città come spazio comune, contro la privatizzazione, la mercificazione, la gentrificazione, ma anche le nuove esperienze agricole di sovranità alimentare o esperienze cooperative di acquisto e consumo solidale.
Certo il movimento per la giustizia ambientale non è tutto, non copre ogni istanza di resistenza e alternativa; i movimenti restano plurali, senza comitato centrale, ma c’è da augurarsi che, come a Taranto il Primo Maggio del 2014, sempre più spesso ci si ritrovi insieme a condividere un pezzo di strada.
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