La primavera dell’ecologia: furono messe in discussione le regole economiche di una società basata sul profitto, furono cercate nuove forme di solidarietà, nuovi progetti di vita personale e collettiva.
tratto da "La contestazione ecologica.
Storia, cronache e narrazioni"; di Giorgio Nebbia.
La fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta potrebbero essere indicati come quelli in cui si è affermata la consapevolezza dei limiti del pianeta e delle sue risorse.
Il 1970 fu dichiarato anno europeo della conservazione della natura e il 22 aprile dello stesso anno fu proclamato “giornata della Terra”.
Molti giovani attivisti, reduci dalle lotte studentesche degli anni precedenti, riconobbero nella lotta per un ambiente pulito una grande occasione di speranza di cambiamento, di nuovi rapporti fra l’uomo e la natura, di nuove forme di produzione delle merci.
Furono messe in discussione le regole economiche di una società basata sul profitto, furono cercate nuove forme di solidarietà, nuovi progetti di vita personale e collettiva.
In quell’estate e autunno del 1970 si moltiplicarono i “manifesti” per la salvezza della Terra, l’ecologia faceva opinione pubblica e gli “ecologi” erano ricercati per incontri, conferenze, dibattiti.
Ho scritto “ecologi” fra virgolette perché, in realtà, la tempesta aveva colto di sorpresa i pochi ecologi insediati nelle cattedre universitarie che non immaginavano neanche che la loro tranquilla disciplina potesse diventare la bandiera di una nuova ondata di contestazione.
Gli “ecologi” del tempo erano gente
venuta da lidi lontani: solo per citarne alcuni, Virginio Bettini era un geografo, Dario Paccino uno scrittore, Alfredo Todisco un giornalista, Paolo Berbenni uno specialista di chimica delle acque; io stesso studiavo allora, come oggi, la produzione e il consumo delle merci.
Davanti a questa esplosione di interessi e curiosità per l’ecologia, il mondo degli inquinatori capì subito che le cose potevano mettersi male e reagì con diversi argomenti:– la contestazione è organizzata da ceti borghesi, benestanti e soddisfatti che vogliono impedire agli altri di godere i frutti del consumismo e delle merci così provvidenzialmente prodotte dagli inquinatori;
– i contestatori sono contro gli operai che possono avere un lavoro soltanto se si aumentano i consumi, di cui l’inquinamento è l’inevitabile prezzo;
– la contestazione è organizzata da sovversivi rossi, comunisti e maoisti che sognano una società pauperistica di persone vestite tutte allo stesso modo;
– i contestatori sono ignoranti e danno peso a cose irrilevanti;
– con adatti accorgimenti è possibile ridurre o mascherare le offese ambientali (le raffinerie di petrolio possono essere nascoste fra i palmizi) purché non si metta in discussione la società dei consumi;
– l’ecologia è una cosa veramente importante e noi, gli inquinatori, abbiamo le conoscenze tecnico-scientifiche che ci consentono di produrre merci ecologiche, dai saponi, alle automobili, ai dentifrici; l’ecologia diventava così un'etichetta di moda e veniva svuotata del suo contenuto critico o sovversivo.
Un attacco alla contestazione venne anche da sinistra: l’ecologia era uno strumento della borghesia e dei padroni per tenere i lavoratori nella povertà e nell’arretratezza.
Nell’inverno del 1970 la contestazione trovò ascolto in Parlamento.
L’allora presidente del Senato Fanfani nominò una “Commissione speciale” per l’ecologia costituita da studiosi e da senatori che sembravano intenzionati ad aggiornarsi sui problemi degli inquinamenti, della difesa del suolo, della tecnica, della conservazione dei vegetali e degli animali.
Contemporaneamente alcuni pretori, in prima fila il pretore di Roma e quello di Genova, scoprirono che, anche in assenza di leggi specifiche, era possibile colpire gli inquinatori utilizzando le leggi esistenti.
I “pretori d’assalto” – come furono chiamati – dettero agli italiani l’impressione che fosse pure possibile difendere i beni collettivi (l’aria, le acque, le spiagge, i boschi) contro la speculazione, il degrado, l’inquinamento.
L’ecologia degli operai
A partire dal 1968, con le lotte operaie, cominciò anche a crescere, in maniera del tutto indipendente dalla contestazione ecologica “borghese”, una contestazione ecologica operaia attraverso lotte in fabbrica per il miglioramento delle condizioni di lavoro.
Si trattava di battersi contro le nocività dell’ambiente “all’interno” delle fabbriche, in parallelo all’altra contestazione che era rivolta contro le nocività all’ambiente provocate fuori dalle fabbriche e dai campi.
Varie attività produttive avevano avuto – in qualche caso per decenni – effetti gravi sulla salute dei lavoratori.
Si possono citare gli esempi dell’avvelenamento dei lavoratori dell’amianto della miniera di Balangero in Piemonte, e delle operaie dello stabilimento di filatura e tessitura dell’amianto di Grugliasco, vicino Torino; dell’intossicazione e degli incidenti alla fabbrica di piombo tetraetile SLOI di Trento, alle fabbriche di coloranti, i danni ai lavoratori del petrolchimico di Marghera e alle fabbriche di cloruro di vinile.
A Ciriè, una cittadina del Piemonte, per anni ha funzionato l' Industria Italiana dei Colori di Anilina (IPCA) che produceva intermedi chimici e coloranti, sostanze tossiche e cancerogene, in particolare ammine aromatiche.
La stessa industria per anni ha versato i propri reflui inquinanti nella Stura.
Agli inizi degli anni 70 sono state denunciate morti di operai e malattie tipiche da intossicazione industriale; una prima denuncia per inquinamento, nel 1972, ha indotto la magistratura ad avviare un'inchiesta sulla situazione anche all’interno della fabbrica.
Nel processo è stata riconosciuta l’origine industriale di molti decessi per tumori della fabbrica e i proprietari sono stati condannati nel 1977.
Questa lunga lotta, nello stesso tempo operaia ed ecologica, è stata descritta in un libro che riporta l’andamento del processo, l’impostazione difensiva degli inquinatori e dei loro “scienziati”, i tentativi di mettere a tacere con denaro gli operai malati, le omissioni degli organi pubblici di controllo – del “governo”— il coraggio degli scienziati che hanno smascherato le responsabilità degli imprenditori.
Agli anni fra il 1969 e i primi anni settanta risalgono altre lotte operaie contro le ammine aromatiche trattate in altre fabbriche di coloranti, fra cui l’ACNA di Cesano Maderno e di Cengio, responsabili, oltre che di casi di tumori ai lavoratori, anche di gravi inquinamenti delle acque, durati decenni.
Di queste lotte, spesso condotte in contrapposizione alla posizione “troppo dolce” del sindacato, manca un'adeguata documentazione, che sarebbe interessante anche per i confronti con le iniziative della contestazione ecologica “esterna”.
L’intreccio fra ecologia della fabbrica ed ecologia esterna indusse nel 1971 il Partito Comunista Italiano ad affrontare un'analisi di sinistra del rapporto uomo natura-società (Istituto Gramsci 1972).
Fu questo il titolo di un convegno organizzato dal Pci a Frattocchie (vicino Roma) nel corso del quale vari studiosi “rilessero”, se così si può dire, i classici del marxismo e vi trovarono numerosi elementi che spiegavano le radici dell’inquinamento nella maniera capitalistica di produzione: del resto Marx nel suo tempo aveva dedicato adeguata attenzione proprio ai rapporti fra capitalismo e degrado, insieme, dei lavoratori e della natura.
Nel 1971 il dibattito sull’“ecologia” fu ravvivato dalla comparsa di alcuni libri destinati a sollevare vasta eco.
In polemica con Paul Ehrlich, un biologo californiano che aveva scritto un libro intitolato “La bomba della popolazione” (1968), un altro biologo americano, Barry Commoner, già attivo nei movimenti contro le bombe atomiche, contro le armi chimiche e fondatore della rivista «Environment», pubblicava "Il cerchio da chiudere".
Il libro ricordava che la natura “funziona” secondo cicli nei quali i flussi di materia e di energia sono in equilibrio, chiusi, e spiegava che la crisi ambientale deriva dal fatto che le scelte tecniche e produttive dei paesi industriali occidentali sottraggono dalle riserve naturali delle quantità eccessive di risorse - combustibili, minerali, alberi, acqua - che la natura non fa in tempo o non può ricostruire.
I sottoprodotti e i rifiuti delle fasi di produzione e di consumo sono spesso materiali estranei alla natura: la loro immissione nei cicli naturali turba gli equilibri con inquinamenti e, in certi casi, addirittura con l’intossicazionedei vegetali e degli animali.
La crisi ecologica è dovuta, secondo Commoner, non all'eccessivo numero dei terrestri, ma alle scelte relative alla produzione e ai consumi della minoranza di terrestri che abita nei paesi industrializzati e che si prende la maggior parte degli alimenti, dell’energia e dei minerali estratti ogni anno dal pianeta.
Finché le proposte sovversive relative ai rapporti fra popolazione-merci-ambiente venivano da contestatori autorevoli, ma un po’ pittoreschi, come Ehrlich e Commoner, i pericoli per gli inquinatori erano relativamente modesti: il tutto si limitava a rissosi confronti sull’importanza relativa della “crescita zero” della popolazione.
Ma nel pieno del dibattito sul futuro ecologico del pianeta, poco prima dell’inizio della Conferenza di Stoccolma del 1972, apparve un libretto destinato a sollevare altre polemiche.
Il Club di Roma, un gruppo di un centinaio di persone di tutti i paesi del mondo scienziati, economisti, dirigenti aziendali, uomini politici – fondato nel 1968 da Aurelio Peccei, aveva avviato nel 1970 uno studio sul “destino dell’umanità”.
Alcuni ricercatori del Massachusetts Institute of Technology, prima Forrester e poi Meadows e collaboratori, avevano messo a punto un modello matematico “globale”, capace di simulare le interazioni fra l’aumento della popolazione, l’esaurimento delle risorse naturali, la produzione e i consumi, gli inquinamenti.
Il risultato della ricerca, contenuto in un libro intitolato "I limiti alla crescita" (che nella traduzione italiana divenne, impropriamente, I limiti dello sviluppo), si può così riassumere: se la popolazione mondiale continua ad aumentare al tasso attuale e se la produzione industriale e l’inquinamento aumentano, diminuirà la disponibilità complessiva di alimenti, peggiorerà la salute, verranno a mancare le materie prime essenziali e si andrà incontro ad una catastrofe planetaria, a rivoluzioni, guerre, epidemie, con milioni di morti.
L’unica soluzione consiste nel porre dei “limiti alla crescita”, cioè all’aumento indiscriminato della popolazione mondiale e della produzione industriale, per fermare il degrado ambientale.
Il libro riscosse entusiastici consensi da alcuni e dure critiche da altri.
Si arrabbiarono soprattutto gli economisti che vedevano contestati i sacri principi della loro professione: gli analisti del Club di Roma evidentemente non sapevano che esiste una mano provvidenziale, quella del mercato, che risolve tutti i problemi di scarsità.
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