Non può esserci egemonia ed accumulazione capitalistica senza unione tra potere politico-militare, capacità di guida egemonica e spoliazione economica dei territori.
tratto dal commento di Paolo Missiroli a "Adam Smith a Pechino" di Giovanni Arrighi.
Cosa significa "egemonia"?
Cosa significa "essere egemoni"?
Ed in che senso gli Stati Uniti lo sono stati nella seconda metà del XX secolo?
Riprendendo la definizione che ne dà Gramsci, Arrighi sostiene che essa sia la capacità non solo di detenere il potere, ma di detenerlo convincendo chi è subalterno di esercitarlo nell'interesse di tutto ciò su cui di fatto lo si esercita.
Questo significa che uno stato, per essere egemone, non deve solo essere il fulcro intorno a cui ruota l'accumulazione capitalistica e quindi la crescita economica globale, ma anche quello che esercita un qualche potere politico sul globo (che cambia nella sua forma a seconda del ciclo in questione), e che può fare tutto questo solo a condizione di venire percepito come unico mezzo grazie a cui è possibile l'aumento di potenza e di ricchezza di tutti i subalterni, che collaborano ed implementano così il suo ruolo.
Esattamente in questa posizione si sono trovati gli Stati Uniti d'America a partire dal 1945, succedendo al ciclo di accumulazione inglese.
Questo ciclo ha avuto luogo grazie al Piano Marshall ed al New Deal mondiale, che hanno lanciato un grandioso ciclo di accumulazione (i cosiddetti Trenta Gloriosi) ed un momento di governo mondiale de facto incontrastato da parte degli Stati Uniti, al comando di una coalizione globale di stati e di potenze politiche che riconoscevano l'egemonia degli USA.
Gli Usa, mediante il piano Marshall ed in generale gli aiuti allo sviluppo, necessari sia allo sviluppo economico del mondo sia alla creazione di quel consenso necessario all'egemonia, hanno generato una dinamica di "sviluppo ineguale", cioè di accrescimento (a seguito della loro economia in mondializzazione) delle economie dei paesi più poveri, generando un periodo di enorme ricchezza ed accumulazione.
Questa dinamica ha però portato inevitabilmente ad un inasprimento della concorrenza inter-capitalistica (sia tra paesi che tra grandi aziende) nella quale gli USA, sovraccaricati anche del peso economico del mantenimento dell'egemonia globale attraverso azioni militari e dimostrazioni di forza, vedevano pesantemente intaccato il loro potere economico.
La crisi degli anni '70 fu dovuta essenzialmente a questo meccanismo ed alla risposta americana di svalutazione del dollaro, resa possibile con la rottura di Bretton Woods, che causò inizialmente un boom, seguito da una crisi generale dell'economia globale dovuta alla svalutazione.
A tutto questo seguì la svolta monetarista e neoliberista degli anni '80 con Reagan e Thatcher: una risposta all'inefficacia della politica svalutativa per risollevare il mondo dalla crisi.
Questa finanziarizzazione, che inizialmente sembrò calmare la crisi , fu però per Arrighi solo un modo per spostare la crisi su un altro terreno, non di risolverla.
Questi processi di finanziarizzazione infatti costruiscono nuove costellazioni di potere che intaccano la capacità d'agire degli Stati-nazione e creano disuguaglianze spaventose che distruggono la legittimazione egemonica di chi esercita il comando in un dato momento.
Questa crisi di egemonia ebbe a che fare con la crisi economica e con altri tre fattori:
1. Un forte movimento operaio, che imponeva l'agenda ai paesi sviluppati e spingeva ancora più avanti la competizione intercapitalistica, rendendo impossibile ai capitalisti scaricare la competizione sulle spalle dei lavoratori.
2. La crescente povertà del Sud del mondo, le cui proteste e ribellioni intaccavano l'immagine degli Usa "buoni padroni" del mondo.
3. La crisi causata dalla sconfitta in Vietnam sia in termini di credibilità internazionale, sia in termini di tenuta della legittimità del governo del mondo di fronte all'opinione pubblica degli USA.
Venne meno così la dimensione "buona" dell'egemonia Usa, il cui potere non fu più ritenuto come "buono per tutti" ma come fine a sé stesso.
Arrighi descrive questa transizione dall'egemonia come potere del "padre" al dominio senza egemonia come "racket".
IL COLPO DI STATO (MANCATO)
Lo sviluppo dell'ideologia neocon nei tardi anni '90 e nei primi anni 2000 rappresenta per Arrighi il tentativo di pensare al sistema mondo in termini di un'egemonia USA rinnovata ed esercitata più "direttamente".
La guerra in Iraq fu il "colpo di Stato" tentato dagli Usa per avere accesso diretto alle risorse necessarie a mantenere l'egemonia globale.
Il fallimento dell'operazione consiste nella mancata instaurazione di un governo fedele agli Usa, nel prosieguo delle lotte intestine all'Iraq e nella necessità di ulteriori pesanti spese militari nella regione per gli Stati Uniti.
Infatti, non può esserci egemonia ed accumulazione capitalistica senza unione tra potere politico-militare, capacità di guida egemonica e spoliazione economica dei territori.
Emerge qui una questione centrale per il funzionamento del capitalismo secondo Arrighi: il capitalismo vive di una logica territoriale.
Il capitalismo funziona essenzialmente per spoliazione e mercificazione di territori, cioè sul farli entrare all'interno delle dinamiche dell'accumulazione globale.
Per questo non si può concepire un capitalismo senza lo Stato.
Perché lo Stato è sempre stato il mezzo con cui nuovi settori di mondo venivano aggiunti all'accumulazione, la sua potenza è, da questo punto di vista, sempre stata al servizio del capitale.
La "Produzione dello Spazio" è sempre stata fatta per mezzo del capitale e del potere politico insieme.
Anche per questo, soprattutto per questo, non è pensabile egemonia senza unione di due logiche: una imperiale, di potenza politica e militare (nonché consensuale) ed una economica, di accumulazione infinita e di spoliazione del mondo (da questo punto di vista emerge anche qui l'indissolubilità del legame capitalismo - crisi ecologica).
Smith non è conosciuto in Cina, ma è nelle cose, nell'evoluzione e nei successi dell'economia cinese.
Certo non lo Smith dei liberali europei, ma lo Smith per quello che scrive davvero nella Ricchezza delle nazioni e non per quello che si è costruito a partire da qualche frase.
Smith, infatti, identifica due possibili tipi di sviluppo: "naturale" ed "innaturale".
Lo sviluppo naturale dell'economia è quello che ripartisce le risorse dando importanza maggiore all'agricoltura ed alla manifattura, e solo in uno stadio successivo al commercio estero.
La Cina è il principale esempio di questo sviluppo.
Quello innaturale, cioè secondo Smith quello europeo, pone tutte le risorse nel commercio estero, nella finanza e nella conquista.
Secondo Smith, nel lungo periodo è decisamente più stabile lo sviluppo naturale ed infatti in Smith non ci sono dubbi che sia la Cina la vera nazione ricca, sebbene l'assenza totale di commercio nel mondo cinese venga vista come un problema di non poco conto.
Per Smith la concorrenza generata dall'intensificarsi dell'attività economica genera inevitabilmente un drastico calo dei profitti generali ed il monopolio non è mai la soluzione, nella misura in cui impedisce appunto l'aumento dell'attività economica (con cui la concorrenza sta in un circolo virtuoso).
Inoltre, è opinione di Smith che la mancanza di concorrenza rafforzi eccessivamente il potere dei singoli capitalisti in termini economici ed anche politici: dal momento che su questo nessuna mano invisibile può esistere, è necessario che lo Stato intervenga mantenendo un adeguato livello di libera concorrenza ma non, come si dice oggi, per liberare il mercato, quanto per incatenarlo ad una legge che indebolisce i capitalisti, nella misura in cui, secondo Smith, concorrenza significa sempre bassi profitti per i capitalisti singoli.
Il ruolo dello Stato all'interno del sistema capitalistico viene sottolineato nuovamente da Arrighi.
In questi termini, egli rivaluta una delle affermazioni di Marx ed Engels, e cioè quella secondo cui nel capitalismo, lo Stato sarebbe "il comitato d'affari della borghesia".
Si tratta di un'intuizione che Arrighi ritiene fondamentale, nella misura in cui non ha potuto esserci capitalismo in Occidente senza l'attiva collaborazione dello Stato.
Questo marca la differenza fondamentale con la Cina, nella quale lo Stato non è mai stato, secondo Arrighi, così accondiscendente.
INTERNO ED ESTERNO
La Cina ha sempre avuto una forte tendenza a sviluppare uno stabile mercato interno ed in generale ad avere una proiezione del potere politico tutta rivolta verso l'interno.
Questo è sicuramente dovuto alla dimensione del paese nonché a tutta una serie di fattori culturali che hanno comportato una quasi totale assenza di guerre nel corso dei 500 anni prima del 1900.
Si tratta naturalmente di un elemento che distingue completamente la Cina dall'Occidente, dove la struttura geo-politica si era sempre costituita sulla possibilità ed eventualità della guerra.
Si tratta di una processo circolare: in Europa la frammentazione politica ha portato ad uno stato di guerra perenne, che ha comportato la necessità di un importante utilizzo di risorse nel campo militare e la conseguente espansione coloniale-territoriale (poi alla base di buona parte della superiorità europea).
In Cina invece, l'interesse per il mercato interno ha portato addirittura al rifiuto di espansioni territoriali e di annessioni, nonché una minore dipendenza dell'economia dalla guerra.
Come emerge chiaramente dal libro, quello cinese è da sempre un sistema di mercato, cioè di scambio di merci, anche molto più sviluppato di quello europeo.
Ma per Arrighi, come per Braudel, sistema di mercato non significa capitalismo.
Perché ci sia capitalismo sono necessarie: accumulazione della ricchezza da parte di un contenuto gruppo di capitalisti ed attiva collaborazione dello Stato nella spoliazione, con la sua logica imperiale al servizio (e servita) dalla logica accumulativa.
E' il caso dell'Occidente capitalistico.
In Cina simili condizioni non ci sono, perché in Cina c'è Adam Smith: e cioè, esattamente come il cosiddetto fondatore dell'economia politica sosteneva, in Cina non si dà mai troppo spazio al capitalista singolo e se ne impedisce accuratamente l'eccessiva accumulazione di ricchezza.
Lo Stato in Cina non si identifica con il capitalismo, anche grazie al suo modello di sviluppo naturale, non accentrato sul commercio estero e quindi sull'impresa privata.
C'è il mercato, e possono anche esserci singoli capitalisti, ma il loro interesse non coincide con il bene dello Stato: il bene dello Stato è l'interesse della nazione.
Ed è interesse della nazione, politicamente ed economicamente (per i motivi esposti da Smith: perché troppo potere di un singolo monopolista blocca lo sviluppo economico e concede troppo potere politico a quel capitalista, il cui interesse privato minerà indissolubilmente l'interesse della nazione), che il singolo capitalista non sia troppo potente.
Riassumendo, "nell'Asia orientale è assente quella sinergia tra militarismo, industrialismo e capitalismo che è tipica del cammino di sviluppo europeo e che è stata il motore di un'espansione territoriale oltremare senza limiti da cui traeva a sua volta alimento."
IN CONCLUSIONE
Arrighi lo sapeva 10 anni fa, e noi tanto di più oggi: nessuno che si candidi a guidare il mondo può farlo senza dire in primo luogo come affrontare la crisi ecologica.
Ma come lo si può fare, se ci si pone allo stesso livello del capitale globale, cioè al livello della crescita indefinita?
In effetti, come abbiamo visto, tipico della Cina è sempre stato pensare prima all'interesse nazionale.
Può succedere lo stesso a livello globale?
Inoltre: l'intensificarsi delle lotte sociali in Cina, sempre più difficili da controllare, a cosa porterà?
Queste lotte riguardano spesso i diritti sul lavoro, nonché il diritto ad un ambiente sano in cui vivere.
Arrighi era convinto che le lotte del movimento operaio avessero il potere di cambiare il mondo.
Su questo livello bisogna posizionarsi, se si vuole essere all'altezza della sfida del presente, ai tempi della crisi di egemonia.
Perché "ogni crisi è fonte di opportunità".
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