tratto da "A proposito di fratture, comunanza e lotte agroecologiche: riflessioni in movimento"; di Roberto Vincenzo Falco & Rocco Milani.
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Quello che qui si vuole individuare è uno speciale tipo di bene comune, quella tipologia che potremmo chiamare «bene comune contadino»: un bene, assemblato, reclamato o sottratto, che abbia come elemento base il suo uso per la produzione agricola a sostegno riproduttivo della comunità che l’ha reclamato.
Nell’ottica di concepire le relazioni come qualità dei rapporti, crediamo che accanto alla pratica del commoning si debba posizionare una modalità di relazionarsi con la terra che tenga in considerazione le caratteristiche, le necessità e soprattutto le tempistiche di ogni territorio con cui con-viviamo e con-facciamo.
Pensiamo sia necessario pensare (la
ripetizione non è casuale) ad una nuova modalità di rapportarsi con il vivente che ci circonda; quando parliamo di qualità dei rapporti ci riferiamo anche alle modalità virtuose con cui le relazioni ed interazioni tra umano e non umano si sviluppano.
Tutte queste modalità riteniamo siano promosse ed incentivate dal pensiero e dalla pratica agroecologica.
L’agroecologia nasce come campo di studi tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, quando diversi agronomi
ed ambientalisti cominciarono a saggiare gli effetti della meccanizzazione all’interno del contesto agricolo.
Si trattò inizialmente di raccolte di saggi e relazioni di autori che raccontavano le esperienze di resilienza di sistemi agricoli,
consigliando metodologie da adottare per mantenere fertili i campi raccogliendo esempi provenienti da ogni parte del globo.
Una materia il cui sapere si è sempre arricchito in divenire.
Dunque, oggi, questa pratica ecologica si propone non come una nuova prassi, bensì come un recupero di tutti quei saperi contadini tradizionali ed indigeni che tendono a relazionarsi e ad interagire con l’ambiente specifico in cui si trovano.
Si tratta di una ricerca continua e partecipata di antichi saperi dove la centralità e l’importanza dei contadini viene esaltata a discapito dei tecnici e degli agronomi il cui ruolo dovrebbe consistere nel supportare e consigliare piuttosto che nel monopolizzare il sapere.
Proprio il sapere contadino infatti si pone come ultimo baluardo della cura del territorio e del rapporto con il non umano.
Eduardo Guzman sottolinea come "nelle tradizioni contadine rurali agricoltura e cultura costituiscano una realtà unitaria in quanto le loro conoscenze si costruiscono passo dopo passo con la sperimentazione intrecciando processi di osservazione e di ricerca empirica".
Il concetto di sostenibilità è al centro della riorganizzazione dei sistemi agricoli nella
pratica agroecologica; la rotazione delle colture, lo scambio e la coltivazione di antiche sementi, la sinergia tra colture, animali e suoli, sono solo alcuni esempi di pratiche che permettono di non devastare l’ecosistema.
Sono diversi gli studi, tra l’altro, che evidenziano anche i benefici apportati
da questo approccio alla produzione in termini quantitativi, evitando di ricorrere a pesticidi e Ogm.
L’agronomia praticata dalle grandi industrie ha incentivato nel corso degli ultimi secoli la produzione massiccia di monocolture che hanno talvolta irrimediabilmente segnato la fertilità dei suoli con un calo drastico dei nutrienti che ha altresì fatto calare i valori nutrizionali del cibo, già profondamente in calo con la coltivazione di sementi geneticamente modificate.
A quanto detto si lega, a nostro avviso, uno dei temi più importanti che emergono dal discorso agroecologico: quello della sovranità alimentare.
A livello macro, la nozione di sovranità alimentare sostiene che l’alimentazione di una popolazione sarebbe assicurata dall’autorità sovrana di riferimento.
Nel caso in cui quest’ultima stringa rapporti con il mercato internazionale, le vite di tantissime persone sarebbero oggetto di ricatto da parte dei principali produttori ed esportatori di cibo a basso costo.
Inoltre i peasant studies, gli studi sui contadini, hanno dimostrato come sia fondamentale analizzare la condizione dei contadini.
La grande industria agroalimentare sostiene il discorso dei «decontadinizzatori» (descampesinistas) che sono fermamente convinti che la scomparsa dei contadini, attraverso ad esempio la costruzione di gigantesche enclosures o dell’ingresso del cibo nel mercato finanziario, sia inevitabile.
D’altro canto la posizione dei «contadinisti» (campesinistas) ritiene che i contadini possano riprodursi all’esterno del capitale cercando di contare il più possibile sulle risorse locali, rendendosi autonomi dalle catene produttive del mercato agricolo speculativo.
Affinché ciò avvenga è necessario analizzare quali sono i passaggi chiave intermedi, cioè tutto ciò che porterebbe a creare una vera alternativa al sistema imperante consci che parte di questo cammino potrebbe rivelarsi traumatico.
Un possibile incontro generatore tra commoning ed agroecologia rappresenterebbe una delle possibili pratiche di uscita dall’attuale sistema produttivo: "una pratica il più possibile multispecie che si lega al sapere locale, indigeno".
Le lotte che vivono e agiscono nei territori, non devono far tralasciare il livello
rivendicativo e ri-appropriativo: «Siamo attivamente impegnati a sfidare gli affaristi dell’industria agroalimentare, a disputarci con loro terre e territori».
Con queste parole La via campesina traccia una via che potrebbe essere il primo passo per una reale rivoluzione in chiave agroecologica.
Confrontandoci con lə protagonistə di chi in questi anni, in Italia, si sta spendendo per portare avanti rivendicazioni sulla e con la terra, ci pare sentimento comune quello di creare una nuova rete di contadinə senza terra, un movimento che abbia come scopo quello di occupare e contendere all’agrobusiness i suoli.
Per riappropriarsi di questi spazi è necessario un processo inclusivo, dove ogni «contadinista» abbia la possibilità di
affacciarsi e rivendicare il proprio diritto alla terra.
Un buon punto di partenza per costruire comunità ci è proposto dalle reti mercatali ed i mercati locali che si oppongono fermamente all’ingresso di prodotti importati a bassa qualità e ad un prezzo iniquo nel loro circuito.
Attraverso i Sistemi di Garanzia Partecipata, ne è un fruttuoso esempio l’esperienza di Campi Aperti a Bologna, ci si organizza e non si dipende da terze istituzioni (come i marchi BIO) che molto spesso impongono delle restrizioni che schiacciano i piccoli produttori favorendo ancora una volta l’industria agroalimentare, per giunta imbellettata e qualificata come sana ed ecologica.
Inoltre i SGP e quindi le reti mercatali che si sviluppano attorno ad essi rientrano perfettamente nella nostra concezione di relazione intesa come qualità dei rapporti: "legami che creano rapporti di fiducia, continua crescita ed hanno una forte valenza e spessore sociale".
Infine qui, in questi spazi di socialità è venduto ed acquistato quello che ci pare il più potente elemento di collegamento tra città e la campagna circostante: il cibo sano.
Proprio sull’accesso al nutrimento di qualità si gioca tutta la partita tra modello agro-ecologico e agrobusiness e Gdo, è quì che più emergono le distorsioni del mercato, le speculazioni e lo sfruttamento.
Eccedenza di autoproduzione, prodotto di CSA (Comunità a Supporto dell’Agricoltura) o di piccoli produttori e produttrici, il cibo ha valore politico in tutta la sua filiera, dalla scelta delle sementi fino alla sua commercializzazione (senza dimenticare la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici migranti nelle campagne), alla sua trasformazione e al suo valore nutritivo.
Il commoning agro-ecologico potrebbe essere una delle soluzioni alla crisi ecologica: "un assetto comunitario che metta insieme terra e contadinə in una cura reciproca, luogo di mutua riproduzione, che trova sua espressione massima nel nutrimento che questa interazione produce".
Quindi, rilanciamo la necessità di moltiplicare le esperienze contadine, di costruire reali alternative allo stato di crisi
permanente in cui il Capitalocene ci ha posto, di avere degli spazi in cui poter riprodurre le nostre relazioni.
Si tratta di rivendicare spazi d’esistenza, basi materiali di vita da cui accogliere, con un certa autonomia dal capitale, la sfida immaginativa di costruzione di spazi altri.
A nostro parere, è necessario riappropriarsi di questi nuovi luoghi in cui contaminarsi, occuparli e provare ad uscire dal giogo performativo e distruttivo, affinché la società ed il mondo in cui viviamo non abbiano più occasione di seppellirci.
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