tratto da "La fine della crescita e le sfide ecologiche alla democrazia"; di Marco Deriu.
https://www.academia.edu/40262565
Il capitalismo sta provando ad evolversi per continuare a trarre profitto dalle molteplici crisi in corso.
Processi come la crescente finanziarizzazione dell’economia, il riorientamento verso una più presentabile (per quanto non tanto diversa nella sostanza) “green economy”, lo sviluppo di quello che è stato chiamato “biocapitalismo”, con tutto il repertorio di nuovi profitti aperto dalle scienze della vita (manipolazione di semi, cellule, tessuti, piante, animali, il progetto genoma umano, le ricerche sulle cellule staminali, la genomica) e infine il radicarsi del “capitalismo dei disastri” con la messa in campo di un armamentario tecnico per gestire i rischi (e anche per produrli) e trarne profitto; possono essere visti tutti come reazioni alla crisi della produzione tradizionale e ai limiti della crescita.
Molti elementi concreti fanno ritenere che le vecchie economie occidentali andranno incontro, volenti o nolenti, ad una forte discontinuità rispetto al passato:
In termini materiali e ambientali, alcuni nodi cruciali sono connessi al progressivo esaurimento delle risorse e al governo delle risorse rimaste, all’erosione della biodiversità, alla produzione scriteriata di rifiuti, nonché all’aumento della CO2 nell’atmosfera dovuta ad oltre un secolo di energia fossile bruciata nell’era industriale, e alla conseguente realtà del cambiamento climatico.
Complessivamente l’era dei combustibili fossili, ha rappresentato un enorme “esperimento geofisico”: bruciando nel giro di poche generazioni le risorse fossili che si erano accumulate nella terra nei precedenti 500 milioni di anni e rilasciando così una quantità di CO2 tale da aumentarne la concentrazione globale di circa il 25%.
Il cambiamento climatico segnala dunque il fatto che l’epopea della crescita economica, basata sulla produzione industriale e lo sfruttamento delle energie fossili, ha modificato le condizioni di vita e anche le opportunità di scelta per le generazioni a venire, in maniera sostanziale e in gran parte irreversibile.
In termini politici, occorre ricordare che la perdurante dipendenza dal flusso di risorse fossili rappresenta una profonda ragione di destabilizzazione e di violenza in diverse aree.
Se petrolio, carbone e gas hanno garantito un certo livello di benessere nelle democrazie occidentali, dall’altra parte hanno rappresentato un forte ostacolo ai diritti umani, alla democrazia e alla pace in molti paesi del sud del mondo.
Si pensi in particolare al caso dell’Iraq e della Libia, della Siria, del Sudan, della Nigeria, del Mali.
In mancanza di un ripensamento complessivo, la ricerca di un controllo sempre più problematico attorno a risorse sempre più contese, per mantenere la propria posizione nel mercato produttivo e commerciale, minaccia di portarci verso un aumento dei conflitti e della violenza a livello locale e globale.
Dal punto di vista sociale, si può osservare che oggi sempre meno persone in Italia ed in Europa credono alla prospettiva di una nuova ondata espansiva, tale da assicurare un miglioramento del tenore di vita per le prossime generazioni.
Quelle opportunità di impiego, di reddito, di valorizzazione, di sostegno, di diritti sembrano sempre più precluse alle nuove generazioni, o almeno alla maggioranza di esse.
Quello che sta crescendo non sono le opportunità ma semmai le diseguaglianze e le frustrazioni.
Aumentano la disoccupazione e il precariato, le disuguaglianze continuano ad aumentare sia tra classi sociali che tra una generazione e l’altra; stiamo registrando un “cambiamento di segno del futuro”: l'avvenire non assume più le sembianze di un futuro-promessa, ma semmai quello di un futuro-minaccia.
Insomma là, dove la promessa economica non viene (o non viene più) mantenuta, ritorna l’attrazione verso soluzioni politiche più autoritarie.
In termini psicologici e antropologici, si può ipotizzare che l’anestetizzazione prodotta dal farmaco consumistico, che teneva sopiti gli odi e la violenza possa venir meno.
Si può prevedere dunque il prepotente ritorno della figura del “capro espiatorio”.
In questo caso il capro espiatorio è colui sul quale è proiettata la minaccia della perdita della propria condizione di “privilegiati”.
Il pensiero va qui alla crescente ondata di migranti economici e di rifugiati che si affacciano con sempre maggiore disperazione sulle coste e sui confini dell’Europa.
La difficoltà nell’accogliere non sta nei problemi organizzativi ma nella difficoltà di ospitare e far convivere, dentro di sé, l’empatia con chi soffre e il timore di declassamento sociale.
In termini economici, sociali e politici, dunque oggi ci troviamo di fronte ad un bivio radicale: o combattere le diseguaglianze e cercare una forma di prosperità e di benessere che sia in qualche modo condivisibile e democratizzabile, oltre i meri e oramai anacronistici confini nazionali, oppure abbandonarci ad un progressivo isolamento e alla militarizzazione delle isole di benessere e delle fasce privilegiate del pianeta che non farà altro che accrescere l’odio e la disperazione.
Arriviamo dunque a esplicitare la questione più complessa che sta al fondo dei nostri ragionamenti.
Se la costruzione delle democrazie esistenti si è strutturata attorno alla crescita economica in termini materiali, energetici, politici, sociali, psicologici e persino antropologici, la questione che resta da porci è a quali scenari politici ci potremo trovare di fronte nel passaggio da un’era di crescita ad un’era di post-crescita?
La domanda che ci interessa è se e come la macchina politica e l’organizzazione sociale concepita per governare nell’era della crescita, dei combustibili fossili, del Welfare State e del consumismo, potrà sopravvivere alle nuove condizioni ambientali, economiche e sociali.
Al momento attuale, come ha sottolineato Serge Latouche “non abbiamo affatto abbandonato la società della crescita, siamo soltanto passati da una società della crescita con crescita a una società della crescita senza crescita”.
Ma per rendere possibile questa transizione diventa fondamentale approfondire l’analisi politica.
Ad una prima impressione il regime politico democratico che conosciamo ci appare come impreparato ad affrontare i cambiamenti legati al superamento di questo sistema energetico, economico e sociale.
Le democrazie realmente esistenti oggi non sembrano capaci di mobilitare risorse sociali, culturali, economiche e politiche, per assumere precauzioni e decisioni tali da proteggere le condizioni di vita sul pianeta nei prossimi secoli e nemmeno per proteggere gli stessi ideali di uguaglianza, equità, libertà e rispetto dei diritti fondamentali, a fronte delle crescenti tensioni, minacce e conflitti che si stanno manifestando.
Che succederà dunque ai regimi e alle istituzioni democratiche in questo periodo di transizione?Sarà possibile guidare o perlomeno accompagnare le profonde trasformazioni che interverranno nelle nostre società attraverso dei processi politici riflessivi e democratici o ci troveremo ad affrontare delle situazioni di forte tensione e conflitto che metteranno in dubbio gli stessi valori e le forme di regolazione democratiche?
E se di fronte a questa sfida saremo in grado di rigenerare con successo le forme della democrazia, che forme potrebbero assumere le istituzioni democratiche e le basi del consenso politico in una società di decrescita o di post-crescita?
Se i moderni regimi democratici si sono costruiti attraverso una stretta dipendenza dal carbone e dal petrolio, il superamento della dipendenza dai combustibili fossili, pone allo stesso tempo la questione del superamento di una “democrazia fossile”.
Una democrazia fossile non è soltanto una democrazia che si fonda sull’impiego e sul controllo geopolitico dei flussi energetici del petrolio, del gas e del carbone, ma è anche un regime che utilizza fonti energetiche che per la loro finitezza e per le loro caratteristiche non sono veramente democratizzabili.
L’impiego massiccio di risorse fossili significa infatti limitarne lo sfruttamento nello spazio o nel tempo, ovvero sfruttarlo a scapito di altre popolazioni oggi (perfino delle popolazioni che vivono nei paesi petroliferi, come avviene in Iraq o in Nigeria) o a scapito delle generazioni future perché una volta esauriti o impoveriti i giacimenti più importanti non potranno essere disponibili per chi arriva dopo; mentre al contrario le generazioni future si troveranno a fare i conti con le conseguenze ambientali e climatiche di questo sfruttamento.
Il punto è che le istituzioni democratiche tradizionali sono state concepite per massimizzare il consumo di risorse ed energia, a fronte di un ambiente concepito come riserva esterna e non come contesto della politica.
Oggi la questione dell’impatto delle nostre tecnologie, dei nostri processi produttivi, dei nostri standard di consumo, delle trasformazioni demografiche, e quindi la valutazione dei rischi, dell’autolimitazione, dell’assunzione responsabile di doveri intergenerazionali, si pongono come aspetti cruciali del ripensamento politico.
Emerge in conclusione tutta l’irresponsabilità di quegli attori politici che promettono il rilancio della crescita anziché accompagnare culturalmente e politicamente la collettività in un passaggio di costumi e di mentalità, che tenti di disaccoppiare la ricerca di una qualità della vita e di un benvivere dal cieco perseguimento dell’ideologia della crescita.
Continuare a perseguire un modello di crescita irresponsabile – in un momento in cui si affermano, in maniera sempre più evidente, effetti globali quali cambiamento climatico, diminuzione delle risorse disponibili, degrado degli ecosistemi, diminuzione della biodiversità, aumento delle migrazioni globali – significa né più né meno spingere verso regimi di competizione e di esclusione globale sempre più agguerriti e spietati.
Insomma, oggi “è necessaria una rinascita del pensiero politico, e questa deve mettersi alla prova in una critica di ogni limitazione delle condizioni di sopravvivenza degli altri”.
Occorre un rinnovamento radicale anche del pensiero politico democratico.
Da questo punto di vista c’è una differenza fondamentale tra la democrazia rappresentativa e liberale che conosciamo e l’idea di “democrazia ecologica”.
Nella visione tradizionale il valore di un regime democratico si misurava sulla capacità di rispondere e soddisfare le preferenze immediate della maggioranza della popolazione di un singolo paese, senza vincoli di sorta.
Al contrario in una prospettiva di rigenerazione politica il valore di un regime democratico si dovrà misurare sulla capacità di incorporare nelle forme e nelle prassi istituzionali il principio del limite e dell’auto-moderazione, sulla base del criterio generale che un regime democratico “capace di futuro” debba assicurare anzitutto la propria rigenerazione.
In altre parole, occorre riconoscerci il dovere e la responsabilità di consegnare alle generazioni future le stesse possibilità di godere dell’ambiente ecologico e sociale di cui abbiamo goduto noi.
La sfida politica di una democrazia ecologica o sostenibile è quella di riuscire a istituire nell’immaginario collettivo l’idea di un arretramento nelle prerogative di ciò che si può pretendere, ottenere e godere individualmente, in cambio, naturalmente, di un ampliamento dei beni e delle opportunità, dei servizi che si possono rivendicare, ottenere e godere, socialmente o comunitariamente; ampliando il senso e le forme di ciò che chiamiamo “beni comuni”.
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